Francesco De Gregori, per brevità chiamato artista – Intervista con Claudio Fabretti
Claudio Fabretti è l’autore di “Francesco De Gregori. Fra le pagine chiare e le pagine scure”, Arcana Edizioni, 2011.
Gli anni Settanta sono stati per l’Italia la stagione d’oro dei cantautori, tante città avevano una propria “scena” fervida e solida. Difficile che un periodo del genere possa ripetersi. C’entra anche l’epoca, il momento storico, le influenze e gli accadimenti internazionali. Negli anni Sessanta, al Folkstudio, a Roma, ai solidi gruppi folk che arrivavano da ogni parte, espressione genuina dei variegati territori della penisola, si intrecciava una nuova generazione di cantautori che guardava alle novità d’oltre oceano, ai Woody Guthrie e ancora di più ai Bob Dylan. E’ in questo contesto che il giovanissimo Francesco De Gregori muove i primi passi e comincia a esprimere una personalità artistica che lo porterà a essere nei decenni uno dei cantautori più amati. Dylan in America e i Beatles in Inghilterra sono i pionieri di un nuovo modo di fare musica. Il cantautore americano mette al centro il testo e sull’insegnamento di Guthrie diventa la voce di una generazione che lotta per affermarsi, per prendersi il proprio futuro. La politica, l’impegno e quell’attualità che diventerà poi storia, sono i serbatoi da cui attingere per raccontare e raccontarsi. Dylan cambierà indirizzo parecchie volte, rimanendo sempre riferimento per tanti, dagli Springsteen ai De Gregori appunto. La personalità e la ricerca di De Gregori avviene in un’Italia che cambia e spesso le sue canzoni serviranno a coglierne alcune pieghe nascoste, talvolta anche con profetico anticipo. Ma questo non fa di De Gregori un cantautore “politico”, è un’artista, un musicista, e tutta la sua opera dimostra come scorrendo gli anni attraverso le sue canzoni si trovi molto di più, e anche le motivazioni vere per cui è resta uno dei cantautori più amati. Claudio Fabretti per qualità e competenza è tra i pochi giornalisti musicali che meglio poteva raccontarci questo artista, per questo leggere il suo libro è davvero come ascoltare le tante canzoni di De Gregori e scoprirne gli aneddoti che ci sono dietro. In un’appassionata intervista abbiamo ripercorso alcune tappe di questa storia, tra amici, album, concerti e curiosità, come quella del titolo dato a questo articolo, “Per brevità chiamato artista” che è il titolo di una canzone (e di un album) recente che però parte da lontano, da quando per stipulare contratti discografici e incombenze burocratiche si usava questa formula che a De Gregori rimase in mente, per definire “l’entità” da mettere sotto contratto, non solo autore, non solo musicista o compositore, e quindi “per brevità chiamato artista”.
Le canzoni sono il centro di questo libro, sia per la forza propria che hanno, sia perché determinano la direzione del racconto. Da una canzone si può ricostruire un momento della vita del cantautore, o un periodo della storia del paese, ma anche un incontro artistico o sentimentale. Da un testo si può riconoscere uno stile e dall’arrangiamento una scelta. Come hai avvicinato, scelto, le tantissime canzoni che compongono l’universo di De Gregori?
Ho cercato di trattarle quasi tutte, in realtà. In generale, ho scelto le più rappresentative, quelle che raccontavano meglio il De Gregori persona oppure un particolare momento della storia d’Italia. In più, ho cercato anche di recuperare quei gioielli musicali nascosti nelle pieghe del suo canzoniere e magari meno celebrati di altri. Insomma, lo scopo era raccontare De Gregori attraverso le sue canzoni, ma anche raccontare la storia d’Italia e la storia della canzone italiana attraverso questi piccoli e preziosi “spicchi”.
A sessant’anni De Gregori sembra essere sempre più proiettato verso il futuro, è difficile che si perda in nostalgie del passato, in questo l’essere sempre, da artista un grande osservatore del presente lo aiuta?
Non so quanto sia veramente proiettato verso il futuro… diciamo che musicalmente è abbastanza conservatore, ma soprattutto fedele alle sue radici, onesto e coerente, anche nel rapporto con i suoi fan. Sui testi, invece, ha sempre riversato indubbie capacità “profetiche”, anticipando alcune questioni cruciali della storia italiana, da Ustica a Tangentopoli, passando per gli anni di piombo e la fine dell’utopia del ’68. Nel libro sottolineo proprio questa sua ostinata volontà di sottrarsi al ring della polemica spicciola, cercando di volare alto, magari dedicandosi alle sue amate letture di Storia piuttosto che ai miseri siparietti della politica italiana; ecco, direi che le sue canzoni rivelano proprio questo: un pensiero più profondo, e dunque più lucido e lungimirante, rispetto alle analisi fatte anche da tanti altri suoi colleghi cantautori nei loro brani più politici.
Eppure bisogna partire da lontano per comprenderne tutte le sfumature, dal quel Folkstudio della capitale, in cui si incrociavano generazioni diverse di cantautore, quella più “adulta” che portava il folk, i canti anche di protesta di tante regioni d’Italia, e la nuova leva di cantautori che scopriva coetanei come Dylan che stavano segnando un’epoca…
Sì, certo, le “radici” di De Gregori sono indubbiamente quelle, a cominciare dall’ambiente familiare, in cui il fratello maggiore, Luigi Grechi, cantautore country-folk, lo aveva “iniziato” alla scuola di Bob Dylan e Woody Guthrie, passando poi per quel Folkstudio dove sarà condotto proprio dal fratello e dove formerà solide amicizie con personaggi-chiave della scena folk dell’epoca, da Ernesto Bassignano a Giorgio Lo Cascio, passando per veri e propri numi della canzone popolare italiana: Giovanna Marini, Caterina Bueno, Otello Profazio ecc. Era una generazione di sognatori, musicisti e uomini impegnati in battaglie politiche costanti, che fondevano musica e militanza. De Gregori, però, è sempre rimasto indipendente nei suoi giudizi, anche a costo di pagare un prezzo salatissimo come quello della contestazione al Palalido di Milano. Il bello del Folkstudio era proprio la pluralità e libertà di opinioni e linguaggi musicali, che favoriva anche costanti “incroci” tra artisti di generi magari diversi, ma accomunati da questa voglia di condividere idee e canzoni. Sicuramente ci sarebbe molto bisogno, oggi, di locali ispirati a questa filosofia, che poi è quella che ha permesso la nascita di un’autentica scuola romana del cantautorato, visto che sono passati da lì personaggi come Antonello Venditti, Stefano Rosso, Edoardo De Angelis, Gianni Togni, Luca Barbarossa… A questo proposito, mi sembra giusto ricordare chi più di tutti ha contribuito a questo risultato, il “padre” del locale, Giancarlo Cesaroni.
Ad un certo punto con Giovanna Marini, si ritufferà in quel mondo folk, quali ne sono i motivi, oltre le contingenze?
Sicuramente la curiosità di sperimentare un ibrido affascinante, quello tra gli arrangiamenti moderni della band di De Gregori – che suona una specie di folk-rock dylaniano – e il fascino antico delle canzoni popolari (e direi anche della stessa voce) di Giovanna Marini. In più, De Gregori doveva “sdebitarsi” per aver messo in suo disco un pezzo, “L’attentato a Togliatti”, che faceva parte del patrimonio dell’istituto De Martino di cui la Marini faceva parte. Allora si presentò da lei con una scatola di cioccolatini per scusarsi, ma la sua vecchia musa lo accolse con affetto. E tra loro nacque l’idea di riesumare quei vecchi canti di lotta, d’amore e di lavoro, che sarebbero poi andati a comporre il bellissimo album “Il fischio del vapore”, dove De Gregori si cimenta a cantare anche in insoliti dialetti… Il disco riuscì anche a ottenere un buon successo, a dimostrazione del fatto che le idee, a volerle tirare fuori, possono ancora pagare.
La vita di De Gregori è fatta anche di tanti incontri, quelli che tu, in un bel capitolo definisci Compagni di viaggio, Dalla, De André, Fossati, la Marini stessa, però anche gli esordi con Venditti, l’amico Locasciulli, ci sono aneddoti e pezzi di storia a volte anche molto divertenti. Ci racconti brevemente che tipo di scambio umano e artistico è avvenuto con alcuni di loro?
Della Marini abbiamo detto: una musa e una professoressa, che ha seguito amorevolmente tutta la carriera di De Gregori e che lo ha incoraggiato molto agli esordi. Forse il rapporto più intenso è stato quello con De André, tra i due è nata un’amicizia molto vera ma anche burrascosa, come testimoniano i racconti di alcune liti celebri. Tra l’altro De Gregori ebbe anche un ascendente molto forte su De André, spingendolo ad esempio sulla strada del folk americano, dylaniano in particolare, rispetto alla sua iniziale predilezione per gli chansonnier francesi; ma influenzò anche il suo stesso stile di canto. È celebre la battuta di Puny Rignon, moglie di De André all’epoca: “Ho lasciato un Fabrizio De André e mi ritrovo con due De Gregori”. Molto solida anche l’amicizia con Locasciulli, che è sicuramente la più duratura e che ha dato anche importanti frutti musicali, nei dischi di entrambi. Con Venditti è stato sempre un rapporto contrastato, d’amicizia, ma anche di piccoli rancori reciproci, forse c’era troppa competizione tra i due; ultimamente comunque i vecchi compagni del Folkstudio sono tornati a vedersi e a scrivere anche canzoni insieme, anche se non ci sarà mai più un altro “Theorius Campus”. Nel caso di Fossati, c’era più che altro sincera ammirazione reciproca, ma non è che il sodalizio sia stato così fondamentale, anche in “Scacchi e tarocchi”, che è il disco cui hanno lavorato insieme. Diverso, naturalmente, il caso di Dalla: lui e De Gregori sono due persone diversissime, agli antipodi, probabilmente non sono neanche così amici come può sembrare, ma tra loro c’è un feeling musicale straordinario, quello suggellato nel magico tour di Banana Republic e che non è scomparso neanche trentuno anni dopo, come testimonia l’ultima tournée Work In Progress, dove i due si sono ritrovati, quasi con maggior gusto e divertimento che ai tempi del primo incontro.
Qual è, a tuo avviso, diciamo da critico musicale, non da biografo, una canzone importante nel percorso De Gregori e perché?
Direi “Atlantide”, perché pur debitrice in parte della dylaniana “Three Angels”, riesce ad abbinare alla genialità del testo una musica tra le più belle e articolate mai composte da De Gregori: un flusso sonoro lento e trasognato, tra i rintocchi celestiali del piano, il manto cupo dell’Eminent, i sottili arpeggi di chitarra e una melodia avvolgente, molto malinconica. Ecco, credo che sia la canzone ideale per dimostrare che De Gregori è non solo un grande paroliere, ma anche un ottimo compositore e musicista. Tra l’altro fu una delle prime canzoni che compose al pianoforte e si percepisce la freschezza di una scrittura “di getto”, frutto di un vero stato di grazia. La canzone, infatti, fu scritta tutta in una notte insonne.
E quale invece una canzone, che da biografo hai avvertito come importante per lui, una canzone a cui è particolarmente legato?
Credo sia molto legato a “Viva l’Italia”, nonostante tutto, perché è una delle canzoni più rischiose e coraggiose che ha scritto. L’idea di fondo era un azzardo, con un titolo che poteva evocare suggestioni patriottarde e revansciste, proprio da parte di un cantautore storico della sinistra. Invece, oltre alla splendida musica con quell’intro magica di zampogne, c’è un testo lucidissimo e tutt’altro che nazionalista, che passa in rassegna venticinque anni di storia italiana, tracciando un ritratto in chiaroscuro e magistrale del paese “metà giardino e metà galera”. Era un inno agli anticorpi dell’Italia “derubata e colpita al cuore”, un inno di speranza: forse oggi anche Francesco ha perso un po’ di questa speranza, almeno a giudicare da alcune sue recenti interviste, ma credo che in cuor suo senta ancora questa canzone come parte di sé. Al punto che l’ha sempre difesa coi denti da tutti i numerosi tentativi di strumentalizzazione.
Portare la sua band nel 2001 a sentire Dylan in concerto, per dire a tutti “cerchiamo di suonare così” dimostra anche quanto nonostante le varie fasi della carriera musicale di De Gregori non lo abbiano mai allontanato dal songwriter d’oltre oceano…
Sì, in particolar modo da Bob Dylan, che ha sempre ammesso di ritenere un maestro. Quando si presentò, chitarra in mano, al Folkstudio, era proprio al cantautore di Duluth che stava pensando. E il perché ce lo ha spiegato chiaramente lo stesso Francesco: “Dylan non cantava, lui sputava le parole come sassi, non cercava d’essere piacevole, al contrario… Come tutti i grandi artisti, non dava l’impressione di voler parlare a qualcuno, ma di parlare a nome di qualcuno. Magari a nome di una generazione”. Questo è sempre stato per lui Dylan, una specie di faro musicale e generazionale. Anche nel modo di cantare, del resto, lo ricorda un po’, con quel modo di strascicare le parole tirando la bocca… In più, di recente, ha intrapreso una sorta di Never Ending Tour personale, in cui la sua stessa arte si è trasformata, seguendo anche qui la lezione dylaniana della canzone come work in progress, della performance live come opera artistica non ripetibile e luogo privilegiato della creatività. Non c’è mai una canzone definitiva, tutto, sul palco, può sempre cambiare. E anche i vecchi classici, stravolti e “dylaniati”, rappresentano un nuovo approdo. Si spiega anche così la produzione di album dal vivo a getto continuo, a cominciare dalla trilogia del 1990.
E forse anche da quell’America che come tanti altri temi che tu affronti nel tuo libro sono delle costanti ma sempre rivisitate con originalità, attualità, e poesia.
Sì, l’America in De Gregori è un po’ una dimensione inafferrabile, un luogo dell’anima. È insieme terra di frontiera ed eldorado dei diseredati, eden di libertà e superpotenza imperialista, nonché buco nero di tutte le degenerazioni della società dei consumi. Per fortuna è riuscito a parlarne tenendosi sempre a distanza di sicurezza dai cliché dell’antiamericanismo, ma senza mai farsi soggiogare neanche dal mito, dal sogno americano. E spesso ce l’ha raccontata attraverso personaggi di quarta fila, eroi involontari capaci di sovvertire ogni gerarchia. Da Bufalo Bill a Ninetto scemo, dal boyscout Tobia agli anonimi cowboys che ciondolano per i canyons della vita. Ma in fondo è la stessa America di Dylan, di Hemingway, di Kerouac, di Steinbeck, autori divorati negli anni da De Gregori, come testimoniano anche molte sue canzoni in cui affiorano riferimenti diretti.
Tu racconti gli episodi salienti e il rapporto con la politica di Francesco, ma in qualche modo tendi a smarcarlo dalla definizione effettivamente troppo superficiale di cantautore politico, sebbene, come accennato negli anni Settanta ci furono episodi che balzarono alla cronaca nazionale.
Sì, De Gregori è spesso stato etichettato, a torto, come una specie di “intellettuale organico” alla sinistra. In realtà fin dagli esordi ha sempre tirato dritto per la sua strada, anche a costo di prendersi insulti, fischi e contestazioni. Dall’articolo di Pintor che giudicava troppo sdolcinate e sentimentali le sue canzoni (Non è Nobel, è Rimmel), accusandolo, in pratica, di tradire la causa rivoluzionaria scrivendo canzoni d’amore, al “processo” che subì al Palalido di Milano, dove un gruppo di autonomi lo accusava di essersi “venduto”, fino alle polemiche suscitate dalla sua canzone “Il cuoco di Salò” e dalla (non)Celebrazione del ’68, in cui seppellisce tanti luoghi comuni retorici su quell’epoca e quella generazione. Insomma, pur sentendosi vicino alla sinistra, è sempre stato capace di dire la sua, in modo anche scomodo e anticonformista. Una sorta di coscienza critica, dunque, cui la sinistra avrebbe fatto bene a dare ascolto più spesso, a mio modo di vedere.
Anche se indirettamente questo ci porta ai live e al rapporto col pubblico, e su questo ci sono tante voci, dal fatto che non gli è gradito che la gente canti con lui ai concerti, o al suo carattere chiuso, in realtà, i fatti dicono il contrario, nel senso che è da sempre uno dei cantautori più amati, tu che idea ti sei fatto?
È sicuramente un personaggio molto difficile, complesso, per certi versi contraddittorio, forse perché è davvero molto umorale come si racconta. Fatto sta che è capace di passare dalla massima cordialità alla massima scontrosità in pochissimo tempo. E questo avviene anche con il suo pubblico, che però ormai ha imparato a conoscerlo e gli vuole bene, forse, anche per questo. Perché non sarà mai un ruffiano, un esibizionista, uno di quei cantanti pronti a vendersi alla prima occasione per far contenti i fan. Tutto sommato, anche in questo è un esempio di rigore e di coerenza. Certo, prima di chiedergli un autografo o di fermarlo per strada, io qualche esitazione ce l’avrei… Quanto al fatto di non consentire al pubblico di cantare le sue canzoni, lui sostiene che dipende dalla concezione “in progress” che ha sempre avuto del suo lavoro e che lo porta a non rifare mai due volte la stessa canzone. Insomma, se cambia un brano dal vivo non è per impedire al pubblico di seguirlo, ma perché la sua voce è cambiata, così come la sua percezione di quel pezzo rispetto all’incisione originaria.
I lettori nel tuo libro troveranno tantissime cose interessanti, ma per te qual è stata nel realizzarlo, la parte più emozionante e quella più difficile da affrontare?
Forse il compito più difficile è stato proprio quello di cercare di interpretare in qualche modo delle canzoni in cui lo stesso De Gregori ci ha avvisato che “non c’è niente da capire”. Canzoni spesso volutamente ambigue, giocate su più significati, su più strutture di senso. In alcuni casi ho cercato io stesso di lasciare aperta la soluzione dell’enigma, in altri mi sono appoggiato sull’interpretazione “autentica” fornita dallo stesso De Gregori, dal vivo o durante le interviste. In ogni caso, l’importante è sempre non farsi condizionare dalla spiegazione minuziosa, da quella “curiosità a cui ci ha abituato una scuola fatta da maestre vecchie e impreparate”, come dice lo stesso De Gregori. Insomma, lo scopo non è suggerire soluzioni definitive (che, forse, neanche esistono), ma cercare di individuare qualche traccia, qualche chiave per orientarsi meglio in un percorso, quello del canzoniere di De Gregori, che, in fondo, ci riguarda tutti, perché tutti, almeno una volta, ci siamo immedesimati in un verso, in una storia, in un personaggio delle sue canzoni. È stato anche difficile selezionare le canzoni per i vari capitoli, basati sui nuclei tematici delle sue liriche, perché tutti i suoi brani, in fondo, hanno più anime ed è difficile ridurle a un solo tema. L’emozione maggiore sul piano personale, invece, è stata accostarmi di nuovo, e così da vicino, a certe canzoni che sento ormai parte di me e che hanno fatto da colonna sonora alla mia infanzia e adolescenza, regalandomi sensazioni indimenticabili, ma anche aiutandomi a comprendere meglio la realtà.
Tu sei uno dei giornalisti musicali più apprezzati e direttore di un riferimento fondamentale per chiunque voglia leggere di musica come OndaRock, magari in una prossima intervista ce ne racconterai la lunga storia, concludo con una domanda sulle sorti del cantautorato, come siamo messi in questi anni, c’è chi racconta la storia e l’umore di questi anni, tra i nuovi?
Grazie, per OndaRock magari ne riparleremo, sicuramente, in ogni caso, l’approccio del libro è lo stesso che ispira la mia webzine: accostarsi alla musica con passione e senza pregiudizi, cercando di raccontare e di incuriosire, più che di emettere verdetti. Quanto all’annosa questione dei cantautori, sinceramente credo che siamo molto lontani dagli anni d’oro del songwriting italiano, che per me si identificano in particolare col decennio 70. Qualche nuovo autore promettente c’è, ma ci sono anche moltissime produzioni mediocri, se non scadenti. Sì, la nouvelle vague dei vari Samuele Bersani, Daniele Silvestri, Carmen Consoli, Max Gazzè e compagni ha portato un po’ di freschezza. Ma per tornare a pronunciare con successo il termine “cantautore” sul palco di Sanremo, ad esempio, si è dovuto rispolverare il nobile pedigrée del sessantottenne professor Vecchioni. Della leva più recente (ma relativamente, visto che è sulla breccia da vent’anni), credo che il migliore – il più originale, il più geniale – sia senz’altro Vinicio Capossela, forse l’unico in grado di poter competere con la generazione dei Dalla, De Gregori, De André ecc. In realtà, credo che il problema sia soprattutto a monte: mancano idee e discografici coraggiosi, come Ennio Melis e Vincenzo Micocci, ad esempio, che ebbero un ruolo così importante nel sostenere l’opera di De Gregori.
Ernesto Razzano7 Posts
Nato a Benevento nel 1971, ha vissuto per molti anni a Firenze, dove si è laureato in Scienze Politiche/Storia. Dopo qualche anno a Bologna ritorna a vivere a Benevento, dove insieme ai suoi soci crea il Morgana Music Club. Giornalista pubblicista scrive di musica, cinema e libri per le pagine culturali di alcuni periodici. Ha scritto e pubblicato alcuni racconti. E’ stato ideatore e curatore di programmi radio. Da qualche anno collabora stabilmente con la rivista molisana Il Bene Comune.
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