Voto in Turchia, Osce: non rispettati standard internazionali. Erdogan: ora referendum su pena di morte

Boccia il voto in Turchia l’Osce, Organizzazione per la sicurezza e la cooperazione in Europa. All’indomani del referendum che attribuisce poteri presidenziali a Tayyp Erdogan, gli osservatori dell’Osce dichiarano che il voto «non è stato all’altezza» degli standard internazionali. In particolare la decisione della Commissione elettorale turca sull’ammissibilità delle schede non timbrate
«ha minato le garanzie contro le frodi» spiegano gli osservatori dell’Osce ad Ankara.

Con i superpoteri presidenziali Erdogan è entrato nella galleria dei raìs, collocandosi nel variegato arco del dispotismo orientale tra Putin e Assad: già questo è un paradosso per un Paese membro della Nato da 70 anni, che ha concesso la base di Incirlik per bombardare l’Isis solo in cambio di una guerra senza quartiere ai curdi e poi ha dovuto scendere a patti con Mosca e Teheran sulla Siria. L’asse geopolitico della Turchia si è spostato verso Est e non basterà qualche bombardamento americano in Siria per rimetterlo con la bussola verso Occidente, sempre che questo vogliano fare a Washington e nelle cancellerie europee.

L’autocrate di solito viene scelto dagli occidentali perché garantisce stabilità: il vero interrogativo è se il presidente turco sarà capace di governare un Paese che dopo il voto si presenta spaccato e con due guerre in corso, una interna che dura da 38 anni con i curdi dell’Anatolia, e un’altra in Siria alle porte di casa, cui si aggiunge il terrorismo del Pkk e quello dei jihadisti ispirati dal Califfato.

E’ stata la sottovalutazione di questi elementi che ha sbilanciato la posizione europea e della Nato nei confronti della Turchia che queste due organizzazioni hanno continuato a trattare in questi anni come fosse un Paese “normale”.

La Turchia non è più un Paese normale dal 2011 quando sono cominciate le primavere arabe ed Erdogan con l’appoggio degli Usa e delle ricche monarchie del Golfo, si è messo in testa di abbattere Assad facendo passare dai suoi confini i jihadisti e assumendo il ruolo di retrovia e organizzazione che aveva il Pakistan nella guerra all’Urss dei mujaheddin afghani.

Per sei anni la politica estera turca ma anche quella interna è stata funzionale a questo obiettivo cui Ankara ha dovuto rinunciare con l’intervento della Russia.

Il fallito colpo di stato del 15 luglio 2016 è stata una svolta traumatica: a Erdogan è arrivata prima la solidarietà di Putin che non quella di americani ed europei. Le epurazioni di massa seguite al golpe erano anche un messaggio a Ue e Nato: non ci fidiamo più di voi e facciamo a modo nostro, esattamente quello che ha ripetuto ieri Erdogan nel suo discorso dopo il voto. 
Immaginare che lo stretto margine con cui ha vinto il referendum gli possano far cambiare strada è una pia illusione.

L’Unione europea resta il bersaglio preferito di Erdogan, il suo cavallo di battaglia, il drappo rosso da agitare davanti all’elettorato musulmano conservatore ma che sventola in faccia a una nazione che in questo decennio si è sentita umiliata dall’Europa.

La sfida di Erdogan all’Europa è iniziata subito, nel momento in cui nel discorso della vittoria referendaria, mutilata da una valanga di “no” nelle grandi città, ha annunciato la possibilità di un’ altra consultazione popolare per rimettere la pena di morte. Se approvato sarebbe la sanzione ufficiale che la Turchia rinuncia ai negoziati di adesione.

Dal punto di vista concreto in realtà la deriva turca dal continente europeo è cominciata da un pezzo, da quando la Germania e la Francia hanno chiuso la porta in faccia ad Ankara.

Questo negli anni Duemila era un Paese a grande maggioranza filo-europeo, con un consenso che univa sia i conservatori religiosi che laici: un capitale sprecato difficile da recuperare se i turchi non otterranno la libera circolazione dei visti, un obiettivo per cui questo governo è pronto a risfoderare il ricatto di riaprire al rotta balcanica ai profughi.

Ecco perché le cancellerie europee sono in fibrillazione. La Germania, con tre milioni di immigrati turchi e curdi, è preoccupata dalla possibilità di vedere trasferite le tensioni politiche tra campi contrapposti sul suo territorio. Anche per questo avere una posizione comune europea sulla Turchia di Erdogan non è così semplice come potrebbe sembrare. La solidarietà europea _ l’Italia lo sa bene_ è spesso come l’araba fenice.

Il presidente turco detesta l’Europa ma allo stesso tempo non può farne a meno: quasi il 50% del commercio estero è con gli europei, sono europei il 70% dei capitali stranieri che affluiscono nel Paese, senza contare che le aziende turche sono altamente indebitate con le banche dell’Unione. Ma c’è di più: Erdogan non controlla solo la politica con la riforma presidenziale, attraverso il Fondo sovrano turco ha già messo le mani sulle società strategiche e gli appalti pubblici tengono legate a doppio filo con i grandi lavori molte aziende europee. A spese dell’opposizione, dei curdi e della democrazia in generale, dopo i soliti proclami retorici, gli europei scenderanno a compromessi con il nuovo raìs. Sarà un novità essere smentiti.

Fonte Alberto Negri UIKI ONLUS

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