Wonder Woman è l’inizio dell’era dei supereroi donna?

Non è stata finora una grande storia quella che racconta le quote rosa nei superhero movies. Negli ultimi vent’anni abbiamo visto di tutto, da parte di Marvel (X-Men, Avengers ecc.) e da parte DC Comics (Batman, Superman ecc.) eppure al centro di tutte queste storie c’è sempre stata una figura maschile fin da quando il “milionario, playboy, filantropo” Tony Stark (2008) impose il suo egocentrismo maschile quale primo mattone dell’Universo Cinematografico Marvel.

Pensiamo a lui ma anche al semidio risoluto Thor, all’alieno devastante e stranamente indeciso Superman, al luminare crepuscolare che diventa mostro verde Hulk ecceteraecceteraeccetera. E le donne? Per lo più amanti, figure marginali o, peggio, costrette a fare le dure per risultare interessanti. Letali, talvolta, ma con una t-shirt che recita “Piccolo Mostro di Paparino” (“Daddy’s lil Monster”), come Harley Quinn in Suicide Squad. “Posso portarle un caffè, signor Stark?” Recitava Gwineth Paltrow nei primi due Iron Man, per poi prendersi una mezza rivincita nel terzo episodio. Se sui primi due esperimenti di Girl SuperPower (Catwoman ed Elektra) è meglio stendere un velo pietoso, la prima piccolissima rivincita di genere arriva dal filone “revisionista”, con la fantastica Hit Girl che qualcuno ricorderà in Kick Ass.

E l’Italia? Non c’è molto da dire, visto che il cinecomic made in Italy è più o meno tutto circoscritto in Lo Chiamavano Jeeg Robot di Gabriele Mainetti, trionfatore ai David di Donatello. In quell’occasione, una donna (Ilenia Pastorelli, lanciata dal Grande Fratello) fu addirittura premiata come attrice non protagonista ma il suo personaggio non può certo definirsi una rivincita di gender, anzi. Più di qualcuno aveva cominciato seriamente a gettare la spugna, convinto che una buona megaproduzione non potesse prevedere donne col mantello al centro della storia, a meno che la “supereroa” in questione non fosse descritta in modo esagerato,  caricaturale, più dura di un uomo o più fragile di un ramoscello- vedi la bellissima Jean Grey della prima saga degli X-Men, incapace di controllare i suoi straordinari poteri Perfino le superdive di Hollywood Scarlett Johansson e Natalie Portman pur di inserirsi nel fortunato filone filmico hanno dovuto accontentarsi di ruoli minori.

In questo quadro non proprio edificante si inserisce Patty Jenkins, regista americana nota al grande pubblico per la sua opera prima Monster, storia della prima serial killer donna, un film che utilizzava un interessante punto di vista ribaltato e portava lo spettatore a parteggiare per lei, prostituta, assassina ma vittima della vita e della violenza degli uomini. Diciamo la verità: Wonder Woman è uno dei migliori prodotti DC ma non è assolutamente il più grande cinecomic della storia né è esente da errori o momenti di noia. Va però dato atto a Patty Jenkins di aver aperto una strada lì dove sembrava non esserci più nulla e questo è stato possibile soprattutto grazie a tre elementi, che fanno la fortuna di questo film:
1- Il superomismo finisce sullo sfondo, o meglio diventa funzionale ad approfondire temi molto umani quali la guerra e l’amore.
2- Il film va oltre il concetto di gender. Attraverso una storia d’amore molto leggera e a tratti irresistibile tra un aviatore e una semidea, si scardinano con ironia una serie di clichè come quello del supereroe asessuato o della superdonna costretta a fare l’uomo per compiacere il pubblico. Diana è fiera di appartenere alla sua razza ed è donna anche quando si ritrova ad affrontare da sola l’esercito tedesco.
3- La grazia, il volto, la fisicità e la bravura di Gal Gadot (ed anche quelli di Chris Pine) lasciano il segno.
Per una volta DC Comics anticipa Marvel Studios, pronto adesso a replicare con la “sua” eroina, Captain Marvel (Brie Larson). Siamo all’inizio di una nuova Fase Rosa dei cinecomics?

FONTE: Giuseppe Piacente

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