Il salvataggio delle banche e i diritti dei cittadini

Sappiamo tutti che la possibile crisi delle banche è in genere determinata da una gestione allegra, superficiale e perfino immorale dei capitali che in qualche modo vi confluiscono o ne escono. Tale causa è stata alla base di quanto accaduto in istituti di credito italiani quali Banca dell’Etruria, Banca Marche, le Casse di Risparmio di Ferrara e di Chieti e Montepaschi; infatti l’origine dei loro guai finanziari è in particolar modo da ricercare nei cosiddetti crediti deteriorati, ovvero prestiti mai rientrati.

Sia pure per fuga di notizie perché non vi è stata mai una pubblicazione ufficiale, letti i nomi dei creditori inadempienti sui media, la prima domanda che il cittadino anche sprovveduto di cultura economica si pone è la seguente: “Ma per tali prestiti così consistenti possibile che le banche non abbiano garanzie per la restituzione e dunque non siano in grado di recuperare i capitali e la magistratura non deve accertare immediatamente le responsabilità dei diversi attori e punire eventuali reati?” Non possiamo dimenticare che il paventato crac di qualche istituto ha portato purtroppo ad un  suicidio a Civitavecchia, ma ha anche penalizzato fortemente non solo i possessori di obbligazioni subordinate, ma anche quelli che avevano i loro risparmi sul conto corrente o in altre forme d’investimento non certo speculative e  che hanno dovuto spostare i loro capitali nel timore di un fallimento in atto. Qui non vogliamo più soffermarci tanto sulle modalità con cui l’Unione Europea e l’Italia nella fattispecie sono intervenute nel salvataggio delle banche e non torneremo sul bail in o sulle bad bank che riteniamo, in un’economia non speculativa, sistemi incomprensibili messi in piedi appunto dalle oligarchie per penalizzare i cittadini onesti e coprire i faccendieri.

Che le banche andassero salvate per diverse ragioni è fuori discussione, ma il governo italiano lo ha fatto in ritardo, con soldi pubblici e quindi dei contribuenti e soprattutto ancora una volta con grossi favori gratuiti a capitalisti che a nostro avviso poco hanno a cuore le sorti del Paese visto che i loro capitali sono collocati ormai prevalentemente  in fondi speculativi o al più in servizi piuttosto che in investimenti produttivi in grado di creare lavoro. Si è scritto che l’intervento in favore delle banche era necessario nell’interesse dei territori in cui esse sono allocate, dei dipendenti e dei risparmiatori. Tutto comprensibile in termini generali se non fosse che le regole sul rapporto tra istituti di credito e correntisti non sono cambiate affatto e continuano a penalizzare i secondi. Gli articoli 42 e 47 della Costituzione Italiana tutelano la proprietà pubblica e privata ed il risparmio, ma nella loro funzione sociale, precisando che la Repubblica deve “disciplinare, coordinare e controllare l’esercizio del credito”. Il risparmio pertanto dev’essere tutelato in ragione delle finalità che gli vengono date. Intanto è inconcepibile attribuire gli stessi tassi d’interesse a forme di accumulazione egoistica nelle rendite ed a quelle preveggenti concepite per gli investimenti e dunque appunto con funzione sociale come prevede la nostra Costituzione.

Tutelare il risparmio indirizzato agli investimenti e finalizzato al miglioramento dell’insieme dei “complessi produttivi del Paese”, come sembra chiaramente prefigurare il secondo comma dell’art. 47 della stessa Costituzione, allora, significa garantire la certezza del capitale indirizzato alla creazione di posti di lavoro ed agevolarlo sul piano fiscale rispetto a quello  ispirato dall’avidità di accumulo. La crisi economica che ormai viviamo da anni ha bloccato il risparmio di una popolazione come quella italiana che era in proposito ai primi posti nel mondo. Per stimolarlo nuovamente la prima soluzione che intravvediamo è quella di una suddivisione chiara delle banche tra istituti d’investimento e quelli di risparmio con una separazione chiara tra credito e trading finanziario, da poter fare anche all’interno dello stesso istituto, che preveda una netta differenziazione delle condizioni d’interessi attivi e passivi tra i due tipi di clientela. L’ipotesi, affacciata sin dal 2012 in ambito europeo, non ha avuto più seguito per gli ostacoli frapposti soprattutto dal mondo finanziario tedesco e francese. Noi ci auguriamo al contrario che la governance politica europea porti avanti un simile progetto quantomeno per le banche mutualistiche. Un altro problema da risolvere è quello delle condizioni economiche nel rapporto tra istituti finanziari e clientela.

I costi dei conti correnti ad esempio sono diventati molto elevati e le banche ormai sui depositi negli stessi non danno più interessi attivi almeno ai piccoli correntisti. L’imposta di bollo sul deposito titoli e sui conti correnti al di sopra dei 5.000 euro, poi, è in effetti una patrimoniale aggiuntiva e proporzionale, ma non certo progressiva come stabilito dall’art. 53 della Costituzione Italiana, la cui attuazione viene così chiaramente elusa.  C’è infine l’esigenza di rendere assolutamente trasparenti e legate a principi di giustizia le regole concernenti le intermediazioni borsistiche i cui rischi non sono legati tanto alla situazione economica delle aziende quanto a speculazioni eticamente inaccettabili. D’altronde in un’economia in cui la finanza diventa più importante degli investimenti industriali non possiamo meravigliarci se appare difficile uscire da una crisi economica che dura da anni. Quello economico, come si vede, è un mondo che ha davvero bisogno di essere umanizzato e legato sempre più ai principi della Costituzione Italiana cui abbiamo fatto riferimento.
Se la politica riesce a liberarsi dalla soggezione al mondo finanziario, forse qualcosa si potrà muovere in questa direzione.

Fonte: Umberto Berardo

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