Archeologia forestale

Nel Molise non vi sono foreste primigenee, neanche quelle di alta quota, anche esse oggetto di tagli colturali. È difficile riconoscere un bosco che conserva i tratti originali.

Limitiamoci ad osservare la provincia di Campobasso (perché quella di Isernia ha caratteri più uniformi, presentando solo la fascia montuosa e quella collinare) si rileva la presenza di tre differenti tipi di paesaggio, quello appenninico dove domina la foresta, quello delle colline nel Molise centrale connotato dalla commistione tra bosco e colture agricole e, infine, quello costiero in cui i rilievi si alternano fino a che il suolo diventa del tutto pianeggiante e i campi coltivati hanno la prevalenza sulla copertura arborea.

Salvo che in montagna con la sua componente forestale assolutamente prevalente su altri utilizzi del territorio e, per il discorso che ci interessa, con una separazione netta tra di essa e le superfici pascolive le quali coiuncidono con gli altopiani carsici, altrove nella nostra regione c’è di frequente una convivenza tra aree boscate e terreni agricoli con un diverso rapporto reciproco a seconda che ci si trovi nella zona interna della regione o nella sua parte bassa.

Una sottolineatura doverosa è che il bosco è l’elemento principale quando si è su un pendio, specie se ripido, (il caso dei versanti del Matese) ed è la morfologia pianeggiante a spiegare la vocazione agricola del litorale. Dunque siamo quasi sempre di fronte ad un mosaico, sia se esso sia di matrice agricola sia se forestale, dal punto di vista paesaggistico. Non c’è mai una porzione di paesaggio qui da noi privo di una macchia boschiva, sia pure piccola.

In alcuni tratti è addirittura una presenza esclusiva e non solo nelle situazioni, si pensi alla montagna di Macchiagodena la quale si vede dalla piana di Boiano, dunque, dall’ambito provinciale di Campobasso, che è coperta dai rimboschimenti di epoca fascista; per quanto riguarda questi ultimi essi sono impianti di conifere, specie sempreverdi mentre il resto del patrimonio boschivo assai accresciuto a seguito dell’affermarsi di piante sugli ex-coltivi è fatto di latifoglie miste, quindi con un cromatismo variegato e non uniforme, pure nelle stagioni, come nelle pinete.

Oltre alla questione coloristica la diversificazione delle essenze vegetali è a vantaggio della biodiversità e di ciò, forse, non ci si rende conto a fondo alla stessa maniera del giudizio che si esprime sulle interruzioni delle masse boscose considerate «frammentazione», un rischio per i sistemi ecologici secondo la Direttiva Habitat. In generale emerge nella società contemporanea un interesse per il bosco quale espressione della naturalità senza riflettere sul punto che i boschi hanno origine ovunque da processi semi-naturali. A condizionare tale modo di sentire vi è l’aspetto culturale essendosi affermato il concetto di wilderness in base al quale il bosco è un luogo repulsivo della presenza umana, mentre, al contrario, esso è sempre stato “coltivato”, nel senso di oggetto di periodici tagli.

In Italia, all’epoca dei romani le selve vere e proprie, le formazioni forestali non toccate dall’intervento dell’uomo, sono davvero poche, circa una decina, queste sì inospitali. Il bosco è attualmente oggetto di studio dei naturalisti i quali ne hanno una sorta di esclusiva e si sono trascurate finora le letture storiche della sua evoluzione. Le medesime cose si possono dire per la tutela per cui oggi, in base alle normative vigenti in materia (ad esclusione delle più recenti, dal DPR 139 del 2010 al DPR 31 del 2017), occorre conservare la superficie forestale piuttosto che ripristinare appezzamenti agricoli (pur in presenza di terrazzamenti con i muri a secco ancora riconoscibili) o pascolivi e, financo, pezzi di tratturo (vedi Ponte S. Mauro a Pietrabbondante) invasi da vegetazione arbustiva e arborea.

È che gli storici del territorio sono in ritardo nei confronti degli studiosi dell’ecologia; in particolare sta indietro lo studio della storia dell’ambiente boschivo, certo non alla pari con quella del paesaggio agrario oggetto dei fondamentali lavori di Emilio Sereni e di Lucio Gambi. È possibile riconoscere attraverso l’esame delle caratteristiche della copertura arborea le tracce dell’organizzazione colturale che preesisteva ad essa; un indizio importante è la suddivisione particellare in quanto se i campi hanno una estensione limitata i boschi sono necessariamente di dimensione superiore (non esistono i boschetti).

Il Catasto, di cui rimane l’impianto iniziale il quale precede l’esodo degli occupati dal settore primario coincidente con la grande emigrazione, rivela, poi, l’uso colturale di un tempo delle particelle oggi trasformatesi in bosco. Ciò che distingue in modo forte e, soprattutto, per l’aspetto visivo le superfici forestali da quelle agricole è che le prime ci appaiono maggiormente omogenee se confrontate con le seconde nelle quali la pluralità delle coltivazioni, aggiunte alla rotazione delle colture, produce una immagine articolata.

Pertanto, il bosco potrebbe sembrare un paesaggio più semplice e, di conseguenza, una unità ambientale priva di complessità e questo perché lo si osserva di solito dall’esterno, punto di osservazione dal quale non si riesce a cogliere la variegazione delle specie al suo interno e il dinamismo della sua evoluzione. Tante «cese», campi ricavati dentro la massa boscosa attraverso il taglio di alberi, si stanno ormai richiudendo e lo stesso fenomeno è in corso in quota nelle radure destinate a pascolo. In definitiva, è difficile separare in modo netto ciò che è agricolo e ciò che è forestale se si fa una lettura diacronica del territorio.

Introduciamo, adesso, la parola porosità, termine che si lega a quello di mosaico utilizzato prima, la quale sta ad indicare l’intreccio e lo scambio tra i fatti agricoli e quelli forestali che è il connotato saliente, pure in chiave ecosistemica, della struttura territoriale di larga parte della nostra regione, tanto in quella, per riprendere un altro vocabolo impiegato all’inizio, con matrice agricola quanto in quella con matrice forestale.

L’ultimo sostantivo da mettere in campo è quello di alternanza, quella tra boschi e pascoli se si è in un comprensorio a indirizzo zootecnico e quello tra boschi e campi, ma anche tra boschi, campi e pascoli: per il significato che portano con loro in riferimento alla descrizione del paesaggio collinare molisano alternanza, mosaico e porosità sono quasi dei sinonimi. Le uniche rotture in questa omogeneità paesaggistica composta di tasselli eterogenei (ancora una volta boschi, pascoli e campi) sono le discontinuità morfologiche.

Francesco Manfredi Selvaggi645 Posts

Nato a Boiano (CB) nel 1956. Ha conseguito la Maturità Classica a Campobasso e poi la laurea in Architettura a Napoli nel 1980. Presso la medesima Università ha conseguito il Diploma di Perfezionamento in Storia dell’Arte Medievale e Moderna e il Diploma di Perfezionamento in Restauro dei Monumenti. È abilitato all’esercizio della professione di Architetto e all’insegnamento di Storia dell’Arte nei licei e Educazione Tecnica nelle scuole medie. Dal 1997 è Dirigente, con l’attribuzione di responsabilità nei servizi Beni Ambientali (19 anni), Protezione Civile, Urbanistica, Sismica, Ambiente. Ha avuto un ruolo attivo in associazioni ambientaliste quali Legambiente Molise, Italia Nostra sezione di Campobasso e Club Alpino Italiano Delegazione del Molise. Ha insegnato all’Università della Terza Età del Molise ed è stato membro del Consiglio di Amministrazione della Fondazione dell’Ordine degli Architetti di Campobasso, occupandosi all’interno dello stesso del progetto di Archivio dell’Architettura Contemporanea. È Giornalista Pubblicista e autore di articoli, saggi e del volume La Formazione Urbanistica di Campobasso. Le ultime pubblicazioni sono: «Le Politiche Ambientali nel Molise» (2011) e «Problemi di tutela ambientale in Molise» del 2014.

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