Ius culturae, credere nell’Italia e nei suoi figli. Diamo una legge a presente e futuro
Jus culturae, non è Jus soli
Avvenire, 17 settembre 2017. In difesa del diritto a essere considerati cittadini del luogo dove si è nati. Una legge che sarebbe almeno un primo passo nella direzione giusta. Ma il cammino per l’uguaglianza dei diritti è ancora lungo
Chi e perché vuol mettere paura agli italiani? Chi e perché prova in tutti i modi a istillarci l’idea che la nostra civiltà non sia più buona né “contagiosa”? Chi e perché vuol farci vivere nella chiusura e nella grettezza, in modo da non generare più figli, né dai nostri lombi né grazie alla nostra cultura e al nostro spirito? Chi vuol convincerci che la cittadinanza sia un immeritato stato di grazia, ereditato come una cosa, e non una conquista e riconquista, fatta di diritti e doveri onorevoli e onorati?
La lista potrebbe essere lunga. Ma qui, oggi, comincia e finisce con coloro che avversano la nuova legge sulla cittadinanza, già votata alla Camera e ferma al Senato. E dibattono non per migliorarne questa o quella previsione, ma per impedire del tutto la normativa sullo ius culturae e sullo ius soli temperato (nessuno, cioè, diventerebbe mai italiano per il solo fatto di nascere nel Bel Paese…). Una battaglia condotta, purtroppo, per calcolo politicante, con manifestazioni di aperta xenofobia e rimettendo in circolo pregiudizi colmi di vergognoso e sempre meno celato razzismo.
Eppure quanti sono nati in Italia o in Italia sono arrivati da bambini e pensano e parlano italiano, coloro che crescono e studiano qui, condividendo la nostra cultura e le nostre regole di cittadinanza, assimilando i nostri costumi, e appartengono a famiglie di origine straniera ma residenti in questo nostro Paese con permesso permanente o di lungo periodo (e, dunque, sono figli di persone che qui lavorano, pagano tasse e contributi, e non hanno guai con la giustizia) non sono candidati all’italianità, sono già italiani. Non si tratta di concedere nulla, e tantomeno di regalare qualcosa.
Si tratta di riconoscere per legge una realtà, vera, importante e buona. Si tratta di rendersi conto che mantenere in una sorta di limbo un bel pezzo della generazione dei nostri figli è un atto di cecità e di ingiustizia. E che farlo per presunto calcolo politico-elettorale è una piccineria umana, una miseria morale e, insieme, una scelta pratica imprevidente e imprudente. Lungo questa estate 2017, dopo l’editoriale del 17 luglio scorso intitolato «Questa legge s’ha da fare», dedicato appunto allo ius culturae, questo giornale ha dato il via a una campagna informativa semplice e rigorosa.
Mentre tanti politici – e purtroppo anche non pochi (dis)informatori – hanno continuato a diffondere slogan e favole cattive contro i nuovi italiani, noi invece abbiamo dato loro volto, pubblicando ogni giorno per due mesi quelle che, in dialogo con alcuni lettori, ho definito «parole di carne e sangue, di anima e di cuore, di sudore e di intelligenza». Non pure opinioni, ma storie di vita. E cioè attese e speranze, fatiche e impacci, traguardi e ricominciamenti di giovani che sono italiani non per tradizione, ma per formazione, per adesione, per maturata convinzione.
Persone con radici familiari, culturali e religiose in Asia, in America, in Africa o in altre porzioni d’Europa eppure partecipi della nostra cultura, perché la vivono e le vivono dentro. Non sono tutti uguali, non tutto è sempre lineare nelle loro vicende, non sono perfetti, ma sono persone perbene come, fino a prova contraria, ogni altro figlio di questa terra e della civiltà dell’incontro che la fa speciale da secoli, anche grazie alla sua sinora aperta e salda identità cristiana. Sono loro, guardateli, su questa prima pagina piena di facce pulite e vere.
Sono loro, anche se qualcuno quelle facce continua a scarabocchiarle e distorcerle per trasformarle in quelle di orchi e mostri e terroristi (che esistono anche nella realtà, ma non sono tutta la realtà). E sono proprio loro a essere tenuti nel limbo di una non riconosciuta cittadinanza – cioè di un non pieno e giusto equilibrio tra diritti e doveri nel far parte di una comunità civile dentro la misura delle sue leggi. Guardateli bene, sono loro. E, nonostante qualcuno – mentendo – gridi il contrario, non sono affatto i migranti dell’ultimo approdo dal mare sulle nostre coste, uomini e donne che portano un’altra croce e ben diverse domande di solidarietà e di giustizia.
Guardateli ancora, sono loro quelli e quelle a cui si vorrebbe dire, e già si dice: “No, tu non sei dei nostri, non ti conosco e non voglio riconoscerti”. Oppure e, per certi versi, è quasi peggio: “Sei dei nostri, è vero; ma non è l’ora di dichiararlo, perché più della tua vita mi interessano le percezioni di altri che di te non si fidano per via della tua pelle, per il Paese dei tuoi genitori o nonni, per la tua maniera di pregare…”. Atteggiamenti e propagande sprezzanti che umiliano la loro italianità, e il legittimo sentimento di appartenenza che ne discende, e che sembrano “strillati” apposta per generare in vecchi e nuovi italiani quei reciproci sentimenti di esclusione e di estraneità che portano a speculari ri-sentimenti.
Sguardi cattivi e atti di respingimento e marginalizzazione non generano altro che sofferenza e ostilità, picconano ogni patto civile, minano la solidarietà. Un’imprevidenza incredibile, un’imprudenza grave. Eppure i nuovi italiani sono e restano parte integrante di una generazione di giovani concittadini che non possiamo permetterci di perdere e disperdere. Sono parte integrante di un patrimonio di umanità, una ricchezza d’Italia. Dipende da noi, anche con una legge giusta e finalmente tempestiva, farli essere e sentire continuatori e interpreti del nostro grande passato e protagonisti del presente e del futuro comuni. Insieme.
Fonte: Eddyburg
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