La guerra puzza, fa schifo. Io racconto il sud del mondo
Intervista con Ivan Grozny Compasso
Ivan Grozny Compasso è un giornalista freelance e pubblica servizi multimediali su diverse testate. Collabora con il Manifesto, La Repubblica, La Gazzetta dello Sport, Left. Si occupa di temi internazionali. Ha fatto dei reportage importanti sia in America Latina (Brasile, Messico, Argentina) che in Medio Oriente (Turchia, Siria, Iraq, Rojava, Kobane). Ha pubblicato dal 2014 al 2015 due volumi: Ladri di sport e Kobane dentro; diversi documentari, oltre ad una serie di video che sono visibili su youtube. I lavori più sistematici vanno dal 2011 al 2017: Carlo Petrini: Una vita in due tempi (2011), Fora da copa (2014), Puzzlestan (2015), Entre la Espada y la Pared (2017)
Oggi siamo particolarmente felici di ospitare nella nostra redazione Ivan Grozny Compasso. Abbiamo visionato i lavori che ha realizzato e abbiamo partecipato alla presentazione del suo ultimo documentario. Una forza della natura, ha girato e gira il mondo facendo dei reportage su cose che certamente non vedremo mai in televisione e di cui i media mainstream evitano accuratamente di parlare.
Allora, Ivan, vogliamo concentrarci su alcuni aspetti dei tuoi lavori. Ovviamente ripercorrerli tutti in maniera esauriente necessiterebbe troppo tempo, cerchiamo quindi di fare una panoramica veloce, per dare un’idea a chi legge sul modo in cui tu lavori. Partiamo dal tuo ultimo reportage, che è stata proiettato a Campobasso, al cinema Alphaville, come evento anticipatore di “Altrolibro”, la fiera della piccola e media editoria indipendente che si svolge ormai da qualche anno.
È stata un’anteprima che, allo stesso modo di Puzzlestan, finirà su Distribuzioni dal basso e perciò sarà possibile scaricarla e vederla. Mi sono concentrato, in questo ultimo periodo, sulla guerra in Medio Oriente, in Iraq, e so quanto accade in Turchia. Se ne parla sempre molto poco, ma in Turchia succedono tutti i giorni fatti che andrebbero invece menzionati e con molto più rigore. In Messico ci sono stato perché mi appassionano le storie di confine, sia fisico che umano, e ho approfittato delle relazioni che negli anni ho alimentato con persone che lavorano in Messico su questi temi da tantissimi anni. Infatti, il video è prodotto dall’associazione YaBasta caminantes di Padova, che da vent’anni e più bazzica da quelle parti, ma anche con l’ausilio di persone che mi hanno aiutato, perché questo documentario è quello più strutturato rispetto agli altri miei lavori: ci sono gli effetti sonori, ci sono i cartoon, ci sono delle grafiche animate che aiutano a spiegare le questioni di cui parlo. Insomma, ci sono una serie di collaborazioni di cui sono molto orgoglioso e grato. Ho avuto la possibilità di attraversare questo paese interessantissimo con tutte le sue contraddizioni. Ho incontrato giornalisti, avvocati, attivisti, persone normali, che mi hanno dato l’opportunità di mettere insieme una serie di tasselli. Non bisogna mai ragionare per compartimenti stagni, bisogna mettere insieme argomenti simili e contestualizzarli, cercare di mostrare più realtà possibile. La realtà è composta di tantissimi elementi che vanno dalla vita comune, all’arte, alla cultura, alla musica, eccetera; io cerco di mescolare tutto questo cercando di dare spazio alle storie, quindi a chi è protagonista della storia stessa, e in Messico ovviamente c’è veramente tanto da lavorare perché, schematizzando, il Messico è quello che va dal Chiapas al muro. Ho escluso – perché avrei dovuto farne un film a parte – l’esperienza zapatista, che comunque in molti conoscono e quelli che non la conoscono la vedono come un fatto esotico mentre invece penso che si tratti di un argomento a cui vale la pena di dedicare molto tempo, e mi sono dedicato alle realtà organizzate, in un paese che comunque è la porta per gli Stati Uniti: come mai c’è stata la necessità, c’è ancora necessità, di fare lotte di un certo tipo, fare percorsi di un certo tipo? Perché, probabilmente, c’è un contesto sociale che è particolare. Quindi ho cercato di indagare quelli che sono gli elementi che rendono particolare questo paese.
La realtà è composta di tantissimi elementi che vanno dalla vita comune, all’arte, alla cultura, alla musica, eccetera; io cerco di mescolare tutto questo cercando di dare spazio alle storie
Particolare, è un modo gentile per dire che è un luogo che ha veramente tanti problemi: ci sono le aggressioni sia alle persone che al territorio, è un paese dove spariscono gli studenti, un paese dove gli attivisti politici si lamentano che i giornalisti non raccontano le loro storie, salvo poi risultare il paese che ha più morti al mondo tra i giornalisti. Ci sono tante storie dentro al Messico che racconto.
Si parla moltissimo del muro in questi mesi, con l’elezione di Trump. Dimenticando che il muro già esisteva…
Molti giornali, molti media, hanno raccontato di Trump che rilancia la questione del muro, come se il muro non fosse mai esistito; il muro esiste dal 2005 e nonostante esista, 680.000 persone sono riuscite a passare; persone con determinate caratteristiche, mentre altre con diverse caratteristiche non ce l’hanno fatta e anche questo è un elemento che andrebbe approfondito. Non è un documentario che parla solo del Messico, perché ci sono comunque le storie che ci riportano ad altre realtà, basti pensare alla Cina, agli interessi che la Cina ha in quei territori, basta pensare al traffico di stupefacenti che è una delle voci primarie dell’economia sommersa messicana, però anche uno dei motori di questo paese nel male e nel malissimo, e quindi questo ci ha portato a ragionare su che cosa vuol dire questo capitalismo finanziario. Le grandi aziende americane comprano i territori e li occupano col beneplacito del governo messicano per costruire miniere nel 2014.
Molti giornali, molti media, hanno raccontato di Trump che rilancia la questione del muro, come se il muro non fosse mai esistito; il muro esiste dal 2005
L’ impatto è devastante per il territorio, non tanto per trovare l’oro o l’argento, ma per la creazione di un sistema fatto di speculazioni che fanno guadagnare alle borse canadesi o a grandi multinazionali tantissimi soldi, ma non fanno rimanere niente in Messico e alle comunità che vivono in questi luoghi.
In Sud America, nell’ultimo decennio, avevano preso piede i movimenti progressisti che riportavano in auge la questione di difendere il proprio territorio dalla speculazione delle grandi multinazionali statunitensi. Penso al Venezuela di Chavez, alla Bolivia di Evo Morales, al Brasile di Lula, a Cristina Kirchner in Argentina, a Michelle Bachelet in Cile, Rafael Correa in Ecuador, Alan Garcìa in Perù, Tabarè Vàzquez in Uruguay… tutto questo sembra che abbia avuto una battuta d’arresto e che ci sia una controrivoluzione in atto nei paesi del Sud America; ti pare?
In Venezuela non ci sono stato; cerco di non parlare dei luoghi dove non sono stato, anche se chiaramente ho un’opinione sulla questione. Però posso parlare del Brasile, dove invece sono stato per 5 anni; il Brasile l’ho incrociato la prima volta nel 2012 che era nel momento di massima crescita e poi invece l’ho lasciato subito dopo le Olimpiadi, nella sua crisi più profonda, quasi peggio che negli anni 70. Una crisi politica sociale ed economica su tutti i livelli, un inasprimento della violenza incredibile, eppure lì ha governato il PT (Partito dei Lavoratori, ndr) che è il più grande partito dopo quello comunista cinese; penso la seconda o la terza forza più rappresentativa nel mondo, per quanto riguarda la sinistra. Se uno mi dovesse chiedere cosa ne penso, se quello era veramente un cambiamento, una rivoluzione, io dico che è fallita e che ha provocato un sacco di danni.
Se uno mi dovesse chiedere cosa ne penso, se quello era veramente un cambiamento, una rivoluzione, io dico che è fallita e che ha provocato un sacco di danni
È fallita per un’operazione di sabotaggio o perché alla radice mancava qualcosa?
Di sicuro c’erano forza esterne che hanno contribuito al fallimento e che hanno reso difficile il governo, ma ci hanno messo tanto del loro. Semplificando, Lula è uno che ha puntato tantissimo sui campioni nazionali che sono le grandi aziende brasiliane, ha puntato tutto su questo “sviluppismo”, far crescere queste grandi aziende e con quei soldi finanziare il welfare: questo non ha funzionato, perché la politica è corrotta, perché i manager pubblici sono corrotti, perché si sono rubati i soldi, perché hanno fatto degli investimenti che non hanno portato da nessuna parte, perché hanno scelto delle strade che non erano quelle che le persone avrebbero auspicato.
Quando ha scelto quel tipo di prospettiva il PT ha perso per strada la classe media, la quale è vero che ha migliorato la sua condizione in un momento politico particolare, ma poi si è messa in contrapposizione con il governo. Ma la classe media era anche una forza critica, di spinta, che vuol dire il piccolo imprenditore, i piccoli commercianti, docenti universitari e ricercatori, persone che sono state in qualche modo messe all’angolo ed erano anche la forza di questo partito; metterle fuori gioco non è stata una grande idea. Sicuramente ci sono state spinte esterne controrivoluzionarie, interessi affinché fallisse l’azione progressista del PT, ma è anche vero che quel socialismo forse non era così tanto socialista; ci sto lavorando e uscirà un libro mio a settembre che non parla solo del Brasile, ma che affronta anche questo argomento. Va detto però che anche all’interno del PT ci sono tantissime anime; ce ne sono molte che sono molto lontane da come vedo io il mondo e la vita, ma ce ne sono altre che invece mi appassionano, quelle che sono vicine alle lotte sociali, a far crescere un movimento come quello dei “Sem Terra” e far capire che non solo c’è bisogno di una riforma agraria, ma c’è bisogno anche del diritto alla casa, perché questa gente non può coltivare la terra se non sa nemmeno dove abitare. In Brasile muoiono 150 persone al giorno, tutti i giorni e 150 sono quelle che sappiamo; sparire in Brasile è un fatto normale. Mi dicono sempre: il tuo lavoro è rischioso ed è una cosa in cui io non credo assolutamente, però poi a pensarci bene, oggi che ci ho fatto i conti, se devo pensare all’episodio più violento e pericoloso della mia vita, mi è successo in Brasile, ed è una cosa che mi è successa non a causa dei narcotrafficanti o di altri disperati, è stato l’esercito a prelevarmi, a rapirmi e a portarmi in un luogo segreto.
ci sono state spinte esterne controrivoluzionarie, interessi affinché fallisse l’azione progressista del PT, ma è anche vero che quel socialismo forse non era così tanto socialista
Come succede spesso anche in Turchia…
Mi ha salvato il fatto che sono italiano, se fossi stato brasiliano, argentino, paraguaiano, oggi non staremmo parlando. C’è sempre uno che è più fortunato di un altro; in Brasile gli anni di avvicinamento al Mondiale me li sono fatti tutti. Ero in un bar scalcinatissimo con gli operai del cantiere dello stadio di Fortaleza, uno dei primi a essere ultimato e ricordo che si parlava appunto dei lavori che venivano fatti rispetto alla logistica, si ragionava dei bagni pubblici, di lavori molto umilianti e chiedevo loro se si occupavano anche di questo e questa gente poverissima, super sfruttata, ricordo che mi rispose: “Ma sei pazzo? Quelle sono cose che fanno i boliviani”. C’è sempre qualcuno che è più a sud di te, a sud nel senso della scala sociale, ed è impressionante.
C’è sempre qualcuno che è più a sud di te, a sud nel senso della scala sociale, ed è impressionante
È interessante questo approccio molto poco ideologico. Tu dicevi prima che, addirittura, ti fa paura l’approccio ideologico nel giornalismo; da questo punto di vista, abbiamo capito a cosa ti riferisci quando parli di confini, di persone che scappano. Come ha influito questo approccio sul tuo lavoro, per esempio quello su Kobane? Perché Kobane è forse il centro, il fulcro di quello che sta succedendo, delle contraddizioni che sono esplose negli ultimi 30 anni con la Turchia, che perseguita i curdi da tempo immemore, e ha foraggiato anche i terroristi dell’Isis; come questo approccio poco ideologico, scevro da pregiudizi, ha guidato il tuo lavoro? Che cosa hai scoperto oltre la narrazione dei media tradizionali?
Innanzitutto mi ha spinto la curiosità; volevo vedere se questa realtà esisteva davvero, questa realtà del Confederalismo democratico di cui tanto si parla, volevo vedere se davvero veniva praticato, perché la questione curda l’ho sempre seguita con passione, però non ho mai capito questa cosa di lottare per avere indietro dei confini, perché a me l’idea di confine proprio non mi piace. Il campanilismo non lo capisco, anche per una questione di storia personale: mio padre era del Sud, mia madre straniera, e io sono nato a nord, vivo a Padova quando ci sono, e quando mi chiedono di dove sono, rispondo sempre diversamente, perché non so mai cosa rispondere. Oggi invece sono molto felice di non avere un luogo di appartenenza reale, perché mi sento a casa ovunque, oppure ovunque mi sento a disagio, dipende sempre da quello che mi sta intorno e da quello che trovo.
sono molto felice di non avere un luogo di appartenenza reale, perché mi sento a casa ovunque, oppure ovunque mi sento a disagio, dipende sempre da quello che mi sta intorno e da quello che trovo
A Kobane mi sono sentito a casa, nonostante sia stato complicato arrivarci.
Io ho scelto di attraversare il confine illegalmente mentre il 99,9% delle persone che lo fa, lo fa perché è costretta. Pensa ad una signora con 5 bambini, ad un uomo anziano come quello che ho trovato a Kobane durante l’assedio dell’Isis, anzi di Daesh, perché l’Isis non lo riconosco, perché non esiste lo Stato islamico. Io ci ho trovato vita e mi è piaciuta, perché a me la guerra fa cagare; io non ho nemmeno avuto dei giocattoli di guerra, non ho la fascinazione del soldato o degli eroi, a me di queste robe non frega niente e poi sono convinto che la guerra porti altra guerra.
Io ci ho trovato vita e mi è piaciuta, perché a me la guerra fa cagare
Il solo fatto di uccidere qualcuno, innescherà vendette e non se ne uscirà più; invece la vita è l’unica risposta e a Kobane ce n’era tantissima: ragazzini che andavano a scuola, la musica, il fatto che vicino a un kalashnikov c’era sempre un tamburo, uno strumento musicale… i curdi tramandano la loro storia attraverso la musica, questa è una cosa bellissima. Dentro Kobane ci dividiamo tutto quello che c’è equamente, ci dividiamo equamente l’acqua e il cibo, ovviamente, ma se ci sono degli elementi artistici – che so, delle tele per dipingere, dei colori – daremo quel materiale a chi sa dipingere e colorare, perché così alleviamo la sua condizione e in più questa persona probabilmente farà qualcosa per noi. Un po’ come i murales a Campobasso… è la stessa cosa, è un qualcosa che fai anche per gli altri. A me questa cosa mi emoziona tantissimo, mi eccitava molto di più che i bombardamenti, che ovviamente eccitanti non sono: la guerra è puzzolente e fredda, fa schifo; la guerra è noiosa, la maggior parte del tempo la passi nascosto, perché la notte non puoi uscire, i momenti di adrenalina, come li chiama qualcuno, non sono mica tanti, non è come nei film; sinceramente ho trovato le donne combattenti una cosa raccontata troppo enfaticamente.
vicino a un kalashnikov c’era sempre un tamburo, uno strumento musicale… i curdi tramandano la loro storia attraverso la musica, questa è una cosa bellissima
Non sono le donne curde che si sono emancipate, le donne curde già lo sapevano che quella era la loro condizione, che era ingiusto il fatto che gli uomini determinassero la loro vita matrimoniale e la loro vita affettiva, la loro vita sociale, lo sapevano già.
Tu vai a chiedere ad un bambino di una favela brasiliana perché non è giusto che i bambini neri vengono ammazzati tutti i giorni, lui te lo sa dire, se lo vai a chiedere a un bambino ricco di Ipanema, probabilmente non lo sa nemmeno e ti guarderà in maniera strana, quindi sono i maschi che magicamente hanno capito che fino a quel momento avevano sbagliato e sono diventati uomini, un passaggio non da poco che bisognerebbe estendere all’intero pianeta.
sono i maschi che magicamente hanno capito che fino a quel momento avevano sbagliato e sono diventati uomini
A proposito, breve parentesi: che ne pensi della trattazione che i media occidentali hanno fatto proprio delle combattenti curde?
Tutto il male possibile, proprio perché non ci si rende conto.
È stato forse un approccio di tipo estetico, è questo che vuoi dire?
Anche su questo… che cos’è la bellezza? Adesso non voglio sembrare quello che vuol fare il figo, però io sono convinto di quello che dico: tu puoi essere bellissima, avere delle misure perfette che poi non ho capito bene quali siano, ma nel momento in cui parli, agisci con la forza con cui sei animata, è lì che determini la tua bellezza, sia che tu sia donna o che sia uomo. Se le donne curde sono belle lo sono per quello che fanno, per quello che dicono e per quello che praticano, non solo perché hanno i capelli neri e gli occhi grandi.
Se le donne curde sono belle lo sono per quello che fanno, per quello che dicono e per quello che praticano, non solo perché hanno i capelli neri e gli occhi grandi
Questa cosa, l’aspetto fisico gradevole, è l’aspetto sul quale si sono soffermati i media mainstream del mondo, poi quelli occidentali sono piuttosto morbosi su questi argomenti.
Prima di arrivare in Rojava, mi soffermerei un attimo sulla qualità dell’informazione che ci arriva. L’informazione vera forse è quella che consiste nel raccontare – come per esempio hai fatto tu – quello che stava succedendo a Kobane ai rifugiati che avevano passato il confine e che guardavano la guerra dalle colline in Turchia. Questa forse è la vera informazione, raccontare in diretta quello che sta succedendo, invece di quello che viene costruito per imporci un teorema pre-confezionato.
C’è stato, per esempio, l’episodio della BBC che ha creato ad arte una intervista, facendo credere ai telespettatori che si trattasse di una manifestazione spontanea. Ecco, in Occidente ci siamo abituati a queste cose, le cosiddette fake news che non sono le fake news del ragazzino che smanetta su internet, ma che sono create ad arte proprio da chi ha gestito il potere finora: la famosa provetta di antrace mostrata da Colin Powell all’ONU per giustificare l’invasione americana dell’Iraq, per capirci…
Ti rispondo rapidamente perché io ho un approccio di questo tipo: nessuno mi commissiona le storie, io le vado a cercare dove credo che siano ed è tutto lì, quindi io non so che cosa trovo, non so niente, non vado in un posto sapendo tutto… io non so niente; se sapessi tutto, cosa ci andrei a fare? Per me tutto quello che mostro è reale, non realistico, poi magari tecnicamente le immagini non sono sempre fighissime, ma sono reali, i suoni che senti sono quelli reali, del luogo, io non ho niente da insegnare a nessuno, ho da raccontare delle storie che raccolgo solo dopo.
nessuno mi commissiona le storie, io le vado a cercare dove credo che siano ed è tutto lì, quindi io non so che cosa trovo, non so niente, non vado in un posto sapendo tutto
Delle storie che ho portato dai luoghi più remoti io ne ho pubblicate l’1%, perché quella roba non interessa ai media mainstream, perché non sanno cos’è; potrei fare un libro con le risposte alle mail che mi sono arrivate dai super direttori, dai super giornalisti quotatissimi, e probabilmente si capirebbe molto del giornalismo in Italia.
Dalle risposte che sono state date a me, quando io ti mostro le violenze in Turchia da parte dell’esercito turco nel centro storico di Diyarbakır, di Silvan o Batman, tu non mi devi rispondere che non sai che cos’è quella roba… Voglio dire che il problema è che chi porta le notizie diventa il tuo problema, invece non dovrebbe essere così.
Va bene. Chiudiamo con un’altra cosa di cui noi occidentali non parliamo mai, che è la Repubblica del Rojava: di quella esperienza forse fa paura non solo il fatto che lì vengono smentiti tutti i pregiudizi che noi abbiamo su quelle zone del mondo, su come trattano le donne, su come sono i rapporti sociali, insomma tutto quello che noi crediamo che sia il Medioriente, ma poi forse fa paura la capacità di auto-organizzazione, di autogestione: ci racconti un po’ che cos’è il Rojava?
Io manco da un anno, anche se credo che ci tornerò. Faccio un esempio molto semplice così smentiamo anche chi considera il popolo curdo come un monolite. I curdi iracheni rispetto ai curdi siriani o turchi hanno una visione del mondo completamente differente e quindi un campo profughi in Iraq del nord è sicuramente meglio organizzato, anzi addirittura stanno diventando delle città, sta aumentando anche dal punto di vista demografico la popolazione irachena nel nord del Kurdistan, del Kurdistan iracheno, mentre invece se vai al campo profughi in Rojava dici: “quanto ci posso resistere?” Nemmeno un minuto, però la differenza che c’è, è che nel campo profughi dove non c’è nulla, dove la gente fa fatica, si sorride, perché comunque c’è una vita collettiva, si affrontano le cose insieme, perché c’è una visione del mondo comune… so che sembrano discorsi fatti un po’ così, romantici, ma non sono romantici per niente, perché c’è una coesione sociale, una visione comune delle cose, una voglia di impegnarsi insieme, che può cambiare quel territorio, ed è per quello che i curdi del Rojava spaventano, perché in un pezzo di mondo dove hanno sempre comandato gli uomini, quelli dei regimi teocratici dove tutto è centralizzato, ti propongono qualcosa di completamente diverso, dove addirittura spostano l’asticella, dichiarando che “i confini sono i limiti dei popoli”, ed è una cosa che mi piace tantissimo, perché io credo in questa cosa. Soprattutto oggi non possiamo pensare di parlare ancora di confini e di nazionalismo e chiuderci dentro le nostre case; nel 2017 è una follia, quindi a me questa cosa è forse l’aspetto che mi piace di più.
è per quello che i curdi del Rojava spaventano, perché in un pezzo di mondo dove hanno sempre comandato gli uomini, quelli dei regimi teocratici dove tutto è centralizzato, ti propongono qualcosa di completamente diverso, dove addirittura spostano l’asticella, dichiarando che “i confini sono i limiti dei popoli”
Poi c’è la guerra lì, la guerra è una roba orribile, qualcosa di inimmaginabile per chi non l’ha mai vista: io la prima volta che ho visto un territorio di guerra ero un ragazzino, sono andato in ex Jugoslavia. Recentemente ho trovato delle similitudini tra l’ex Jugoslavia e la Siria: per esempio la violenza sulle donne, il fatto che appunto Daesh violenta le donne pubblicamente, vuol dire che non è solo uno sfogo di un animale, che è comunque gravissimo, ma è qualcosa che viene imposto politicamente. Il fatto che nelle tasche dei combattenti Daesh morti a Kobane ho visto tirare fuori pillole di tutti i tipi, anfetamine e viagra, vuol dire qualche cosa, che la violenza è imposta, è indotta, rappresenta una parte di quella visione politica, e per me è qualcosa di assolutamente inaccettabile. Poi c’è anche l’elemento religioso: questa cosa io la contesto sempre, è chiaro che si fa leva sulla religione, ma la maggior parte dei morti in quel mondo sono musulmani… Allora di cosa stiamo parlando? io non sono religioso, ma non credo in un Dio che dice “uccidete dell’altra gente” o comunque, se c’è una religione così, fermiamola subito! Ma io non credo che il problema sia la religione. Ho pubblicato anche un reportage dall’Iraq su Repubblica sul tema dello scontro fra religioni, e parlavo con un prete cattolico che salva ragazzini e orfani, e lui mi raccontava cosa è successo agli iracheni cristiani che sono morti, oltre 20.000… sono andato a incontrare, a vedere come vivono i profughi cristiani in Iraq: vivono malissimo, come gli altri che vengono uccisi. Quindi se è una guerra di religione, perché noi non siamo andati a salvare i nostri fratelli cristiani in Iraq? Quindi non facciamoci prendere in giro da queste cose, perché sono molto pericolose. Poi è chiaro che si fa leva sulla debolezza, sull’ignoranza, sulla miseria umana, questo è scontato, ma allora forse c’è un’altra strada da percorrere, oppure non stiamo raccontando bene quello che sta accadendo; e questo non raccontare per bene quello che accade, quel fare una scelta di campo, è qualche cosa che pagheremo per molto tempo, perché quel puzzle, quel pezzo del mondo rotto in mille pezzi è figlio comunque di qualcosa che è accaduto tempo fa: la guerra in Iraq, l’uccisione di Saddam, eccetera.
Il fatto che nelle tasche dei combattenti Daesh morti a Kobane ho visto tirare fuori pillole di tutti i tipi, anfetamine e viagra, vuol dire qualche cosa, che la violenza è imposta, è indotta, rappresenta una parte di quella visione politica
E anche su questo voglio dire una cosa, perché non vorrei che qualcuno pensasse che io sono uno di quelli che pensano che si stava meglio quando si stava peggio: nel documentario lo racconto con un episodio molto chiaro: quando c’era Saddam si stava male, la gente moriva nel peggiore dei modi, quindi non è che sto sostenendo che c’era un sistema migliore prima, andava male ugualmente, ma le scelte fatte sono scelte che portano il male, perché non c’è chiarezza; bisogna essere onesti e dire la verità: non c’è solo un discorso di guerra di religione, c’è un discorso di controlli territoriali, di geopolitica da riorganizzare, c’è un discorso di scelte rispetto a chi deve dominare questa o quell’area del mondo, c’è un discorso naturalmente legato alle risorse e così via, perché non si può negare che il petrolio che viene venduto da Daesh, che viene prodotto nel sud dell’Iraq o in zone della Siria da loro occupate, attraversa l’Iraq del nord e le strade super veloci che sono state costruite con l’aiuto della Turchia che aiuta ancora Daesh, non come prima, ma in un altro modo, perché alla fine, chi bombarda in Siria, bombarda innanzitutto i curdi.
Abbiamo messo in campo tante cose, tutte molto interessanti. Era proprio questo il nostro obiettivo, quello di dare degli input ai nostri lettori su cui prossimamente faremo degli approfondimenti. Grazie Ivan.
Grazie a voi.
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