Il Fantasma della Patria
Di Piero Vereni
Nel Veneto bianco dove sono cresciuto io, prima elementare nel 1969, bandiere italiane non ce n’erano proprio. Ricordo in classe la foto del presidente (Saragat, ma lo ricordo poco, mentre mi è rimasta impressa l’elezione di Giovanni Leone), sempre a fianco al tristissimo crocifisso standard dell’epoca, con un Gesù fatto in serie, di una plastica color caramello. Per veder sventolare una bandiera che non fosse il gonfalone di San Marco quelli della mia generazione hanno dovuto aspettare il Mundial del 1982, Pertini che gioca a carte con Causio, Rossi Rossi Rossi gooool, quelle cose lì. Avevamo altri orizzonti, da un lato più ampli, l’universo cattolico della fede, dall’altro più ristretti, il Veneto, l’orizzonte piatto della pianura punteggiata di campanili. La nazione italiana non ci apparteneva.
Sappiamo quanto questo clima catto-democristiano abbia nutrito il separatismo leghista (fin quando la lega era separatista) per esplicita vocazione papalina e anti-nazionale della Chiesa Cattolica italiana, così forte in Veneto da divenire una sorta di stato nello stato, ma i tempi, vivaddio, sono cambiati, e ci troviamo oggi a parlare di nazionalismo italiano di matrice leghista, un ossimoro fino a pochi anni or sono. Ieri sera mi hanno chiamato dalla redazione del Giornale Radio Rai per sapere che ne pensavo, da antropologo, della tentata strage di Luca Traini a Macerata. Come al solito, sintetizzare in venti secondi una riflessione vera (che non sia puro senso comune e discorso da umarel) è praticamente impossibile, signora mia, ma l’antropologia culturale deve assumersi delle responsabilità pubbliche, e quindi. Ho cercato di dire sostanzialmente una cosa.
Socialmente, un paese che utilizza la razza come criterio di differenza noi/loro è arrivato al lumicino della sua legittimazione culturale. Non mi riferisco a Luca Traini, sfigato per ragioni sue, ma a chi dice, più o meno velatamente, di comprenderne le ragioni, non nel senso antropologico di capire cognitivamente (senza condividere moralmente) quale sia il sistema morale che porta a certe decisioni, ma piuttosto di legittimare l’esasperazione di una data condizione, anche quando porta a gesti inconsulti. Qualcosa di simile si era già visto nel 2010, con l’arresto di Alessio Burtone, che con un pugno aveva ucciso l’infermiera Maricica Hahaianu. È la lunga storia storia che “dai, alla fine qualcuno che li metta al posto ci vuole”. Attenzione, credo certo sia deleterio l’atteggiamento del giustiziere, ma qui vorrei enfatizzare il pronome collettivo “li”, loro all’accusativo insomma. Traini viene compreso perché ha chiarito una volta per tutte, a colpi di pistola, che Loro sono Loro, che basta il colore della pelle per attribuire l’Alterità radicale del Mostro:
Innocent Oseghale è nero
Innocent Oseghale è un mostro
I neri sono mostri.
Inutile rimandare i fascisti a scuola di logica, inutile spiegare che un sillogismo non si può basare su due premesse minori, vale a dire su enunciati che riguardano individui specifici senza un “giudizio universale affermativo” (tutti gli uomini sono mortali). Forse è più semplice ammorbidire le dure cervici utilizzando la dimostrazione per assurdo:
Pacciani era toscano
Pacciani era un mostro
QUINDI?
Ma di nuovo, da antropologo, prendo le “giustificazioni” (per non parlare degli inneggi) del comportamento di Luca Traini come il sintomo (gravissimo) di un collasso culturale del paese. Se consideriamo i nostri in base al colore della pelle vuol dire che abbiamo smarrito il senso della civiltà, intesa come la capacità di coabitare gli spazi urbani (civitas) e la politica (polis). Se dobbiamo regredire al corpo per decidere chi è dentro e chi è fuori significa che non abbiamo altro cui appellarci. Se si spara ai neri o si dice che questo gesto è comprensibile, significa che non si ha alcun orizzonte sociale della propria appartenenza, non c’è alcuna scelta (voglio stare con questi, non con quelli) che non sia dettata dalla natura (devo stare con i bianchi) e allora siamo ridotti al rango di animali gregari, sviluppiamo solo un’identità territoriale (questo spazio è nostro).
Attenzione, non sto dicendo che quelli che arrivano sono tutti buoni e noi che (non) li accogliamo siamo tutti cattivi. Dico più o meno l’inverso, che buoni e cattivi si distribuiscono attraverso tutti i Noi e tutti i Loro che riusciamo a concepire, ma sicuramente la contrapposizione sulla base delle differenze fisiche visibili è risibile, se non portasse a queste tragiche conseguenze. Chi vi si aggrappa (come lo sfigatissimo Traini, che manco in palestra riusciva a farsi accettare; come i troppi sfigati che a lui inneggiano pubblicamente) lo fa perché non ha altro, non ha un gruppo di riferimento vero, non ha un sistema sociale affidabile, non ha un’idea politica, non ha un progetto di crescita sociale. Ha solo il terrore della propria condizione di sfigato della società dei consumi che vive la presenza altrui come competizione perenne, e allora si aggrappa al suo corpo, lo pompa in palestra, se ne prende cura come del suo unico bene, e lo trasforma in unità di misura del bene e del male, a seconda della distanza dal modello che egli stesso incarna.
Fateci caso, tutto il fascismo di questo stampo è affascinato dal corpo come oggetto dell’espressione del Sé in tutte le dimensioni (estetica, politica, morale) e produce una tendenziale riduzione di tutto il Politico al Biologico. Come c’erano i proletari, che avevano solo la prole come unico bene, ci siamo ridotti nella società industriale avanzata ai somatari, che hanno il soma, il corpo, come unico loro possedimento e metro. La Patria allora, la Bandiera diventano null’altro che orpelli fisici, espressioni corporali come il tatuaggio, il bicipite rigonfio, il cranio pelato, il pizzetto curato. Non c’è Pensiero, c’è solo un Corpo solo, solissimo, che cerca disperatamente di trovare connessioni sociali. Alla ricerca di un Noi che compensi la disperazione di una vita oggettivamente di merda, il Corpo non ha i mezzi per elaborare il Noi dentro un Pensiero e si scatena nella prassi di De-finizione del Loro, scontornati sulla stessa base biologica che definisce quel Corpo Senza Senso Sociale.
Dobbiamo riportare un po’ di pensiero dentro quei corpi, parlare con Tanzi, spiegargli piano piano che se stiamo assieme non è per legami fisici, ma per scelte morali, e quelle riguardano il nostro Pensiero. Si tratta di rimodulare un orizzonte culturale sbilenco. Se Tanzi fosse un musulmano parleremmo sicuramente di radicalizzazione, e in effetti il quadro cognitivo è lo stesso: un soggetto destrutturato, ridotto all’osso di sé stesso, costretto a pensarsi come corpo a confronto con altri corpi. Tutti quelli che hanno ancora un senso della cittadinanza come convivenza sulla base di alcuni principi condivisi devono impegnarsi in questo senso: abbassare i toni, parlare con calma ai testoni radicalizzati (ce ne sono di tutti i tipi, nigeriani compresi) che hanno smarrito il lume della ragione come tentativo di comunicazione, come sforzo di pensare che dall’altra parte ci sono altri esseri umani, con i nostri dubbi, i nostri rancori, ma anche le nostre speranze e ambizioni. Non me la voglio tirare, ma sicuramente se c’è una disciplina che pratica in maniera sistematica questo approccio è l’antropologia culturale. Studiatela, e fatela studiare a Luca Traini e a quelli che “lo capiscono”.
Fonte: Piero Vereni blog
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