Un paesaggio libero da vincoli
di Francesco Manfredi-Selvaggi
Essere vincolato per un territorio non è garanzia di qualità paesaggistica e viceversa vi sono zone non vincolate che nonostante ciò presentano un’elevata qualità del paesaggio.
Non è credibile che l’imposizione di un vincolo sia di per sé garanzia di salvaguardia del paesaggio. Non è possibile avere fiducia in ciò in quanto la logica vincolistica così come oggi la si intende (o almeno, generalmente viene intesa) è quella di bloccare (se non bloccare, limitare) le trasformazioni, mentre, invece, quello che necessita è governare i cambiamenti in modo da renderli compatibili con le qualità paesaggistiche del territorio. Le trasformazioni avvengono, di certo, piuttosto negli ambiti periferici (salvo che con il Piano Casa che permette gli ampliamenti volumetrici di strutture esistenti) dove c’è maggior dinamismo, che nell’abitato consolidato ormai, in genere, già saturo.
I vincoli, invece, sono piuttosto sentiti come restrizione all’edificazione. È da dire che il decreto di Dichiarazione di Notevole Interesse Pubblico, così si chiama il vincolo, contiene, quando vi sono le Prescrizioni d’Uso che sono previste dal Codice Urbani, appunta l’attenzione, di regolare, sulle zone e sugli elementi migliori dal punto di vista architettonico, trascurando di fornire indicazioni per gli ambiti che non hanno valenze particolari, quali le periferie, e per le aree degradate, come se ci fossero “cose” buone, da tutelare, e “cose” non significative.
Altro discorso è quello dei vincoli ope legis della legge Galasso i quali possono essere definiti vincoli ricognitivi, senza cioè che siano frutto di una scelta, bensì derivanti automaticamente dalla presenza di determinati beni. Per salvaguardare gli equilibri del paesaggio, in definitiva, non basta il vincolo, ma occorre una pianificazione urbanistica che abbia tra i suoi indirizzi primari quello della conservazione, connessa anche alla valorizzazione, delle valenze paesaggistiche.
È, del resto, la stessa normativa ad imporlo fin dal 1942 quando venne varata la fondamentale legge sull’urbanistica dove all’art. 10 vi è uno specifico richiamo al paesaggio e ribadito dal Codice dell’Ambiente che è del 2006 quando introduce quale atto obbligatorio nella procedura di formazione e di approvazione degli strumenti urbanistici la Valutazione Ambientale Strategica tra le cui tematiche vi è quella paesaggistica.
Nonostante la datazione così remota della prima normativa citata è solo negli ultimi decenni che si è sviluppato nella coscienza collettiva e, di conseguenza, nella cultura urbanistica, l’interesse al paesaggio; la stessa nozione di urbanistica è cambiata, dilatandosi tanto da ricomprendere pienamente al suo interno quella di paesaggio, essendo maturata la convinzione che per un assetto compiuto di un insediamento non bastano riflessioni esclusivamente di natura tecnica o sociale.
Specie negli anni 60 e 70 si sono avute alterazioni rilevanti del paesaggio italiano che sono consistite a livello insediativo nello svuotamento dei nuclei minori e delle campagne, oltre che dei centri storici, e l’inurbamento della popolazione negli agglomerati più grandi che nel Molise sono Campobasso, Isernia e Termoli, a livello produttivo nella nascita dei poli industriali, qui da noi quelli di Pozzilli, Campochiaro e Termoli, a livello infrastrutturale nella costruzione delle superstrade, la Bifernina e la Trignina, a livello turistico nella edificazione di “seconde case” (pure per persone residenti fuori regione, nel napoletano desiderosi di trascorrere il tempo libero nell’agro) e di villaggi, più o meno, di vacanze, invernali di Campitello ed estive lungo la costa molisana.
Le modifiche ai lineamenti paesaggistici sono accentuate dal tipo di produzione edilizia che si è andato diffondendo in quel tempo che è quello di manufatti con caratteri formati, da un lato, omogenei e, dall’altro, indifferenti alla tradizione costruttiva del posto, si pensi alle cosiddette palazzine. Ovviamente, un buon piano regolatore che voglia difendere il paesaggio deve essere corredato da un censimento delle testimonianze culturali presenti in quel determinato comune il quale va riportato in un’apposita tavola di analisi, analisi, adesso al plurale, che però non sono richieste per i Programmi di Fabbricazione, la tipologia di strumento urbanistico prevalente nel Molise.
Non è sufficiente concentrare lo sguardo su pochi, celebrati monumenti, ma occorre estendere l’interesse anche ai “segni” minori, dalle cascine mezzadrili, ai mulini, ai lavatoi, agli abbeveratoi, alle cappelle rurali, ai muri a secco, tanto di delimitazione dei campi quanto di sostegno ai terrazzamenti, ai giardini, agli esempi di archeologia industriale; non basta il vincolo storico-artistico perché va protetto, per renderli pienamente significativi, il contesto paesaggistico in cui sono inseriti. Detto diversamente le emergenze culturali sono parte integrante del paesaggio.
Tante di esse, si pensi alle chiesette agresti nelle quali ci si reca in processione per festeggiare il santo cui sono dedicate una volta all’anno in occasione della sua festa, sono luoghi considerati particolari dalla comunità, la quale in essi si riconosce. Si stava per dire si identifica poiché sono portatori di valori identitari contribuendo a definire l’identità di quel popolo. È questa una nuova “frontiera” della tutela paesaggistica introdotta dalla Convenzione Europea del Paesaggio che si aggiunge alle precedenti cominciando da quella pittorico-vedutistica, retaggio ottocentesco, a quella storicistica di matrice crociana che vede il paesaggio quale intreccio tra storia e natura, a quella ambientalista sancita dalla legge Galasso che fa proprie le istanze ecologiste emerse con forza nel periodo che seguì la contestazione giovanile del ’68.
Per quanto riguarda la forma architettonica ad assicurare la coerenza degli interventi edilizi con il paesaggio non basta avere cura della loro qualità materica, magari imponendo l’impiego in facciata e in copertura di elementi presenti nella tradizione costruttiva locale, pietra e laterizio, bensì occorre che ogni edificio sia parte dell’organismo urbano, instauri un rapporto stretto con gli altri spazi liberi, una piazza, una strada, definendo la propria configurazione all’interno di questo principio. L’immagine paesaggistica è il risultato del lavoro collettivo e allo stesso modo l’opera di architettura è un’opera collettiva e non un’espressione individuale e il rispetto di tale assunto è il passo iniziale e sostanziale per raggiungere la qualità ambientale.
Francesco Manfredi Selvaggi645 Posts
Nato a Boiano (CB) nel 1956. Ha conseguito la Maturità Classica a Campobasso e poi la laurea in Architettura a Napoli nel 1980. Presso la medesima Università ha conseguito il Diploma di Perfezionamento in Storia dell’Arte Medievale e Moderna e il Diploma di Perfezionamento in Restauro dei Monumenti. È abilitato all’esercizio della professione di Architetto e all’insegnamento di Storia dell’Arte nei licei e Educazione Tecnica nelle scuole medie. Dal 1997 è Dirigente, con l’attribuzione di responsabilità nei servizi Beni Ambientali (19 anni), Protezione Civile, Urbanistica, Sismica, Ambiente. Ha avuto un ruolo attivo in associazioni ambientaliste quali Legambiente Molise, Italia Nostra sezione di Campobasso e Club Alpino Italiano Delegazione del Molise. Ha insegnato all’Università della Terza Età del Molise ed è stato membro del Consiglio di Amministrazione della Fondazione dell’Ordine degli Architetti di Campobasso, occupandosi all’interno dello stesso del progetto di Archivio dell’Architettura Contemporanea. È Giornalista Pubblicista e autore di articoli, saggi e del volume La Formazione Urbanistica di Campobasso. Le ultime pubblicazioni sono: «Le Politiche Ambientali nel Molise» (2011) e «Problemi di tutela ambientale in Molise» del 2014.
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