In campagna non sempre è meglio
Francesco Manfredi-Selvaggi
Almeno per gli stabilimenti produttivi che nel territorio rurale costituiscono delle note dissonanti rispetto al contesto paesaggistico
Il paesaggio, specie nel Molise interno, può essere considerato, insieme al centro storico, la principale risorsa del comune per le iniziative di valorizzazione turistica la quale, oggi, è la prospettiva di sviluppo più credibile. Oggetto di interesse sono, da un lato, le aree naturali, gli eventuali Siti di Interesse Comunitario presenti, e, dall’altro lato, la organizzazione del suolo agricolo il quale fu un tempo interamente coltivato per soddisfare il fabbisogno alimentare di una popolazione che prima delle ondate migratorie era molto superiore di quella attuale.
L’agricoltura, almeno nelle zone collinari le quali sono assai estese qui da noi, era ed è caratterizzata dalla piccola proprietà. La suddivisione in parcelle minime dello spazio rurale ora è scarsamente leggibile sia per l’accorpamento di fondi sia per l’abbandono di tanti appezzamenti per la diminuzione degli addetti all’agricoltura e così si viene a perdere l’immagine di un agro variegato per via della diversificazione delle colture, dell’alternanza della colorazione dei campi dovuta alla rotazione colturale, al susseguirsi delle stagioni.
Tale articolazione dei quadri visivi che abbiamo visto in dipendenza della diversità dell’agricoltura è accentuata, peraltro, dalla complessità morfologica di questa parte della regione dove l’orografia è sempre mossa, mai lineare e tanto più piatta, con una stratificazione geologica non scontata, che cambia in continuità (ciò determina anche una variabilità climatica da versante a versante che contribuisce insieme alla modifica della pedologia e dell’altimetria alla diversificazione delle produzioni agrarie).
Il disegno così minuto dell’assetto paesistico, non contraddetto dai modi insediativi fatti di case sparse o di piccole borgate, potrebbe essere alterato dalla localizzazione in campagna di capannoni a scopo produttivo i quali risulterebbero chiaramente fuori scala. È ovvio che non si può bloccare l’introduzione di nuovi modelli agronomici e nuove tecnologie e del resto la storia dell’agricoltura nel nostro Paese, fin dall’epoca etrusca, è caratterizzata da frequenti trasformazioni nei sistemi agro-silvo-pastorali. Dunque, non vi è una stabilità nella configurazione delle nostre campagne e quando pure è conservato il paesaggio tradizionale si è completamente persa la struttura socio-economica che lo ha prodotto.
Un’utile esemplificazione è data dall’allevamento, attività che si traduce sotto l’aspetto fisico in grandi volumi per stalle e silos e, qualche volta, per macellazione; quando si fa zootecnia la si fa in modo intensivo essendosi ormai ridotte le aziende di tipo misto in cui si allevava bestiame e si coltivava la terra. Queste ultime prevedevano l’integrazione, i coltivi e i capi, tra animali le deiezioni dei quali servivano alla fertilizzazione del terreno e che erano sfruttati come forza motrice per l’aratro. Attualmente si sta andando verso una gestione zootecnica di orientamento “industriale” con l’alimentazione dei bovini e dei suini, meno degli ovini, mediante insilati non di provenienza aziendale.
Le unità produttive connesse al settore primario pur se frutto di una concezione differente di questo comparto economico hanno diritto, per così dire, di posizioni nel territorio rurale cosa non scontata per le iniziative commerciali o artigianali o terziarie in campi d’interesse distanti completamente dall’agricoltura le quali vengono ubicate nella Zona urbanistica «E» in mancanza di lotti disponibili nella specifica Zona «D» perché magari esauriti oppure non idonei per estensione.
Ricapitolando e traendo le conclusioni di quanto fin qui affermato manufatti di grande ingombro volumetrico in campagna si rivelano dissonanti rispetto alla scansione del paesaggio rurale in elementi di dimensioni contenute (intendendo con questi pure il particellare fondiario) piuttosto che “segni” della modernizzazione che sconvolge omologandola a quella di altri luoghi con altre identità l’organizzazione agricola antecedente o, meglio, sopravvissuta.
Salvo che, a proposito del punto appena detto, non si vogliano recuperare le coltivazioni tradizionali, i prodotti tipici dei quali tanto si parla, che si associano inevitabilmente a paesaggi tradizionali (il melo della coltura promiscua invece del meleto specializzato, le vigne di collina al posto della monocoltura della vite in pianura e così via). In definitiva, la limitazione alle presenze extragricole nella campagna è legittima quando si è di fronte, se non ad un autentico parco agricolo, alla volontà di impianto di specie appartenenti all’agricoltura di un tempo, compreso, va sottolineato, la ricostruzione di siepi, di muri a secco, di filari alberati per la delimitazione dei campi.
Un progetto di paesaggio è quello che occorre che parta sì dal recupero dei suoi lineamenti storici, ma che sappia associarli alla creazione di attrezzature per la sua fruizione, dalla segnaletica escursionistica all’allestimento di aree di sosta con panchine e punti per la cottura fino alla predisposizione di parchi-avventura, di campeggi, di raccolte museali sulla cultura popolare da ospitare in dimore contadine. Gli imprenditori privati possono accompagnare questa azione di messa in valore del patrimonio rurale con la nascita di agriturismi o di bed & breakfast se in quell’ambito territoriale vi sono costruzioni isolate e, se sono assenti, in edifici nel borgo medioevale con ristorantini nei quali consumare ciò che si produce nelle imprese agroalimentari del sito.
Di tutto questo occorre che tenga conto la scelta di installare nell’agro un opificio, una struttura di vendita o qualcos’altro di estraneo al mondo agricolo verificando la sua compatibilità con le esigenze oltre che del paesaggio, del turismo, della tutela degli ecosistemi (le superfici di agricoltura non intensiva sono definite fasce seminaturali che fungono quali corridoi ecologici della rete Natura 2000: esse possono subire frammentazioni a causa della presenza di opere consistenti), dell’ambiente.
Soffermandoci sulla tematica ambientale l’agglomerazione di entità produttive in zone urbanisticamente prestabilite garantisce la raccolta di rifiuti e il trattamento dei reflui, permetterebbe il risparmio energetico se nel Piano di Insediamenti Produttivi fosse presente un impianto fotovoltaico o a pannelli solari. Guardando sotto altra angolazione l’inserimento di un PIP consentirebbe economie di scala, in particolare gli allacciamenti infrastrutturali compreso le strade, la rete idrica, il depuratore, ecc. con diminuzione dei costi per chi decide di collocarsi lì.
Francesco Manfredi Selvaggi645 Posts
Nato a Boiano (CB) nel 1956. Ha conseguito la Maturità Classica a Campobasso e poi la laurea in Architettura a Napoli nel 1980. Presso la medesima Università ha conseguito il Diploma di Perfezionamento in Storia dell’Arte Medievale e Moderna e il Diploma di Perfezionamento in Restauro dei Monumenti. È abilitato all’esercizio della professione di Architetto e all’insegnamento di Storia dell’Arte nei licei e Educazione Tecnica nelle scuole medie. Dal 1997 è Dirigente, con l’attribuzione di responsabilità nei servizi Beni Ambientali (19 anni), Protezione Civile, Urbanistica, Sismica, Ambiente. Ha avuto un ruolo attivo in associazioni ambientaliste quali Legambiente Molise, Italia Nostra sezione di Campobasso e Club Alpino Italiano Delegazione del Molise. Ha insegnato all’Università della Terza Età del Molise ed è stato membro del Consiglio di Amministrazione della Fondazione dell’Ordine degli Architetti di Campobasso, occupandosi all’interno dello stesso del progetto di Archivio dell’Architettura Contemporanea. È Giornalista Pubblicista e autore di articoli, saggi e del volume La Formazione Urbanistica di Campobasso. Le ultime pubblicazioni sono: «Le Politiche Ambientali nel Molise» (2011) e «Problemi di tutela ambientale in Molise» del 2014.
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