Emergenza Migrazioni, Fortezza Europa: quali soluzioni?
Italo Di Sabato, responsabile dell’Osservatorio sulla repressione, ci ha inviato un intervento che volentieri pubblichiamo
Mai come ora nel nostro paese si è assistito ad una progressiva strategia di criminalizzazione della solidarietà verso i migranti, attraverso il ricorso congiunto alla comunicazione di massa, l’intervento di leader politici, e di magistrati da una parte e l’uso strumentale del diritto penale dall’altra1. Quel che si è registrato in questi mesi in Italia ricalca in parte ciò che accade in altri paesi europei, dove ONG, ed organizzazioni della società civile sono sempre più al centro di campagne di delegittimazione, e criminalizzazione a mezzo stampa, con l’adozione di adozione di misure restrittive e codici di condotta che comportano maggiori oneri per le ONG, e limitazioni alla possibilità di soccorrere ed assistere migranti. In alcuni paesi, ed anche nel nostro, ciò si intreccia con l’ascesa e l’attivismo di formazioni xenofobe o di destra mirato ad interdire l’agibilità delle organizzazioni che si occupano di diritti dei migranti.
È evidente che su quest’ambito abbiamo perso. Perso sul piano del consenso e della capacità di dare una percezione diversa ad un fenomeno che è stato narrato in maniera distorta e che ha portato al potere chi urlava “ruspa”, “stop invasione”, “tutti a casa”. L’abbiamo detto e ridetto che si fomentava l’odio e la guerra tra poveri ma non abbiamo avuto la capacità di disinnescare quei meccanismi perversi. Non siamo riusciti ad opporci con abbastanza forza alla campagna di criminalizzazione delle ONG, all’approvazione delle leggi Minniti/Orlando su immigrazione e pubblica sicurezza, agli accordi bilaterali per il rimpatrio, ai finanziamenti erogati alla marina militare libica. E, così, nell’opinione pubblica si è sedimentato il sentimento di rancore verso i migranti: fonte di spreco di risorse pubbliche; manodopera pronta a rubarci il lavoro, pericoli per la pubblica sicurezza. Il capro espiatorio perfetto.
Su questo tema, sia chiaro, l’asticella dell’inumanità è stata già superata. Ma, forse proprio per questo, ci si può oggi spingere anche oltre. Salvini, nei giorni scorsi ha inviato una circolare ai prefetti in cui invita ad una stretta per i richiedenti asilo e ha annunciato che i fondi per l’accoglienza vanno spostati per i respingimenti. Nel contratto di governo si parla di rimpatriare i 500 mila migranti irregolari (dato di cui non sappiamo bene la fonte né se include anche quei richiedenti resi formalmente irregolari proprio dalle pratiche difformi delle questure); si vaneggia la volontà di introdurre delle fattispecie di reato che, se commesse dai richiedenti, ne comportino l’immediato allontanamento; si ipotizza la possibilità che la valutazione delle domande di protezione avvenga nel Paese d’origine; si invoca una ulteriore stretta ai ricongiungimenti familiari; si palesa l’intento di limitare la libertà di culto. Delle previsioni, dunque, terrificanti che si completano con altre proposte palesemente razziste presenti in altre parti del contratto di governo, come la volontà di rendere gli asili nido gratuiti per le sole famiglie italiane.
Ma nessuno tra le forze politiche e i media dicono che le migrazioni forzate sono una conseguenza della globalizzazione. Il numero di persone che vivono in un paese diverso da quello di nascita continua a crescere: dai 76 milioni del 1965 siamo passati ai 243,7 milioni del 2016. L’Europa ha scoperto di recente di avere un’emergenza immigrazione. Il fenomeno migratorio messosi in moto a causa della destabilizzazione militare e politica del Medio Oriente e dell’Africa Nord Orientale è soltanto agli inizi e la sua crescita non potrà che rivelarsi esponenziale (almeno finché i problemi politici dei luoghi di provenienza dei migranti non saranno risolti, il che purtroppo non accadrà certamente a breve).
Alle origini della schiavitù del debito
L’aumento dei tassi d’interesse deciso dagli Stati Uniti a seguito della seconda crisi petrolifera (1979) mandò in rovina quasi tutti i paesi “in via di sviluppo”, che nei decenni precedenti avevano maturato un debito piuttosto ingente, come i paesi africani che subito dopo la conquista dell’indipendenza (anni ’50-’60) avevano chiesto prestiti per costruire infrastrutture e sistemi di welfare. Con l’aumento dei tassi gli importi da restituire ai creditori schizzarono alle stelle, mentre con l’affermarsi del neoliberismo si riducevano sensibilmente gli aiuti ufficiali allo sviluppo, considerati una deleteria forma di assistenzialismo. Per poter pagare gli interessi molti paesi ricorsero a nuovi prestiti, che le istituzioni finanziarie internazionali (Banca Mondiale e Fondo Monetario Internazionale) concessero in cambio dei famigerati “aggiustamenti strutturali”: privatizzazioni, liberalizzazioni, taglio della spesa pubblica.
I già fragili sistemi di welfare furono rasi al suolo, con l’inevitabile conseguenza di una catastrofe umanitaria senza precedenti (in quegli anni esplodeva la pandemia di Aids). L’assenza dei servizi fondamentali, come l’acqua potabile, la sanità o l’istruzione, fa sì che oggi nei paesi poveri tre persone su quattro muoiano prima dei 50 anni. In Africa il 55% della popolazione femminile è analfabeta. Tra il 1970 e il 2016 l’ammontare complessivo del debito estero dei paesi africani e mediorientali si è moltiplicato del 73%, ed è stata già pagata 145 volte la somma inizialmente dovuta.2
Nel 2012, i paesi poveri hanno pagato ai creditori 182 miliardi di dollari, a fronte dei 133 miliardi ricevuti come aiuto ufficiale allo sviluppo. Si calcola che dal 1980 in poi questi paesi abbiano versato nelle casse dei paesi ricchi una cifra non inferiore a 3.350 miliardi di dollari, il che equivale a circa 42 Piani Marshall. L’Italia nel 2014 ha contribuito agli Aiuti Ufficiali allo Sviluppo con appena 3 milioni di euro (lo 0,16% del Pil, penultimo posto tra i paesi dell’Ocse).
La distruzione delle attività produttive locali
A seguito della crisi finanziaria globale, tra il 2007 e il 2008 ci sono state diverse crisi alimentari, con un aumento di 40 milioni delle persone sottonutrite. La piccola agricoltura alimenta il 70% della popolazione mondiale e occupa molte più persone rispetto all’”agrobusiness”, ma i piccoli produttori locali vengono progressivamente espulsi dalle loro terre a vantaggio dei grandi proprietari o delle imprese multinazionali.
I trattati di libero commercio favoriscono l’agricoltura protetta da sussidi dei paesi ricchi e mettono fuori mercato i produttori locali. In molte regioni la popolazione rurale viene scacciata con la violenza da paramilitari al servizio di latifondisti, stati stranieri o imprese multinazionali per appropriarsi delle loro terre e risorse naturali. Molte terre, spesso grazie alla corruzione di politici e amministratori locali, vengono acquistate da paesi ricchi (non solo Usa e Ue ma anche Arabia Saudita, Cina, Corea del Sud) che temono una futura scarsità di cibo e acqua. Spesso si tratta di investimenti speculativi e le terre vengono lasciate incolte, oppure vengono utilizzate per la produzione di alimenti destinati all’esportazione o di biocarburanti.
I metodi di coltura intensiva riducono fortemente la fertilità del suolo e avvelenano l’ambiente con sostanze chimiche. Nel settore della pesca, i giganteschi pescherecci dei paesi ricchi che operano nelle acque internazionali fanno man bassa delle risorse e il pesce che rimane ai piccoli pescatori che lavorano sottocosta è sempre più scarso (a questo si collega anche il fenomeno della pirateria in alcuni paesi tra cui la Somalia).
Cambiamenti climatici
Secondo le Nazioni Unite, oggi le persone esposte al rischio di disastri ambientali nel mondo sono circa un miliardo. Molte di queste persone dovranno abbandonare le proprie terre e la maggior parte non potrà più fare ritorno nel luogo di origine.
Già nel 2011-2013 i “profughi ambientali“ sono stati 70-80 milioni, ma nel 2050 potrebbero arrivare a 250-300 milioni. I paesi meno sviluppati sono ovviamente i meno responsabili per le emissioni di gas serra, ma ad essi appartiene il 90% delle persone colpite da disastri climatici nell’ultimo decennio.
Guerre
Nel 2013 il numero di rifugiati, richiedenti asilo e sfollati interni in tutto il mondo è arrivato a 51,2 milioni di persone, ben sei milioni in più rispetto all’anno precedente. In Africa si è assistito a nuovi esodi forzati, in particolare nella Repubblica Centrafricana e nel Sudan del Sud, ma questo massiccio incremento è principalmente dovuto alla guerra in Siria, che alla fine del 2013 aveva già causato 2,5 milioni di rifugiati e 6,5 milioni di sfollati interni. Oltre la metà dei rifugiati a livello mondiale è costituita da siriani, afghani e somali. Come si vede, provengono da regioni interessate da interventi militari dell’Occidente (diretti o per procura) a fini di controllo delle risorse naturali. Alcuni di questi Stati sono stati trasformati in “failed states”, dominati dai signori della guerra e privi di qualsiasi capacità di provvedere ai più elementari bisogni dei loro cittadini.
Un dibattito insulso
L’immigrato è sempre stato utile per la riproduzione della gerarchizzazione sociale: chi arriva per ultimo è costretto a collocarsi al più basso rango della scala sociale e diventa utile anche perché in genere disposto a ogni sacrificio per emanciparsi e a volte anche a schiavizzare i suoi stessi parenti, cioè a essere la pedina nella competizione accanita (etica migrante e spirito del capitalismo si sono sempre combinati). L’ideale del dominio liberista di oggi è disporre di tre sottomessi: l’autoctono, il migrante regolare e il migrante irregolare (clandestino) per ricattare tutti e tre, abbassare il salario e obbligare a condizioni di lavoro peggiori se non alla neo-schiavitù. La logica del governo delle migrazioni in particolare dal 1990 è di riprodurre immigrazione irregolare, selezionare i “buoni”, i più docili, il “buon selvaggio”.
In Italia il fenomeno migratorio , sin dalla sue origini, è stato rappresentato come una questione di ordine pubblico e sin dagli inizi degli anni ’80 il ricorso a rappresentazioni criminalizzanti ha supportato l’iniziativa del legislatore, prevalentemente concentrata nella predisposizione di norme finalizzate al contenimento dei flussi migratori e alla lotta all’immigrazione clandestina
Gli Stati Uniti si nutrono di 13 milioni di clandestini in particolare da 25 anni, ma fanno loro pagare le tasse e i contributi! Persino la Rand Corporation in un suo rapporto al Congresso ha scritto che senza di questi gli USA non avrebbero avuto le performances economiche di questi 25 anni e anche l’uscita dall’ultima crisi del 2007. In questi 25 anni hanno espulso ogni anno circa un milione di “clandestini”, ne hanno ammazzato alla frontiera messicana circa un migliaio l’anno, ma hanno anche integrato 70 milioni di stranieri (oggi 2016 contano più di 320 milioni di residenti regolari mentre nel 1990 era 250 milioni). La riproduzione dell’immigrazione irregolare è essenziale per le economie sommerse e le neo-schiavitù di cui si nutrono tutti i paesi di immigrazione (Americhe, Europa, paesi arabi ma anche in Asia).
L’UE è invece l’estremo dell’ipocrisia: da un lato si vanta di rispettare i diritti umani e dall’altro pratica un esasperato protezionismo e proibizionismo. Infatti, in UE che conta oltre 550 milioni di abitanti gli immigrati regolari e irregolari sono meno che nei soli USA e si integra di meno ma si riproduce l’immigrazione clandestina proprio attraverso le misure proibizioniste. Questo è un fatto politico totale perché corrisponde alla stessa postura dell’UE: affermare la superiorità della cittadinanza europea, mostrare che qualsiasi cittadino UE può schiavizzare un immigrato. E la criminalizzazione razzista degli immigrati serve innanzitutto a questo e a riprodurre “clandestini”.3
Quanto sopra descritto non è certo una novità. Quello che sorprende è che, in questo incredibile paese, nell’attuale dibattito sull’immigrazione non ci sia traccia di queste considerazioni. Il dibattito si è incentrato sulla questione degli sbarchi come se fosse possibile impedire a centinaia di milioni di persone in lotta per la sopravvivenza di trasferirsi nei paesi ricchi solo rendendo difficoltoso il viaggio o arrestando chi si incarica di trasportarli.
Il dibattito politico4
I migranti sono stati collegati, da un incrocio di discorsi plurimi, ad un ampia rosa di questioni e situazioni. Quasi tutte ammantate da un’aurea di crescente problematicità. I migranti sono stati chiamati in causa per argomentare la crisi economica, quella dei valori tradizionali, la disoccupazione, la sicurezza, il terrorismo, l’ordine pubblico, il decoro urbano, il crollo del welfare state, del successo formativo dell’istruzione pubblica, e perfino il sovraffollamento delle carceri. Qualcuno parla in modo esplicito di culture inferiori e del rischio di una sostituzione etnica, qualcuno di scontro religioso, qualcuno del diritto alla proprietà privata su casa sua.
Dall’entrata in vigore dell’accordo Schengen ad oggi, le conseguenze prodotte dal sistema dei visti sono quotidianamente osservabili nella tragedia continua della migrazione clandestina. L’altissimo numero di morti nel Mar Mediterraneo, nei deserti africani e a ridosso della costa libica, tra le nevi alpine o nell’intercapedine di qualche camion sulle autostrade, le dispersioni di uomini, donne e minori; tutto questo è l’effetto concreto della politica di gestione dei flussi migratori portata avanti dall’Europa. Il sistema d’accoglienza con cui si vorrebbe dar seguito all’ingresso negato trabocca di non sense, paradossi, e spazi fertili per la proliferazione di speculazioni. Irretisce il migrante che al suo interno si configura come essere non pensante e più semplicemente bisognoso di accudimento come gli infanti, indispettisce gli italiani che percepiscono disparità di trattamento e attenzione verso le piccole e grandi tragedie personali da cui a loro volta non sono esenti.
Tra favorevoli e contrari rimpallano accuse reciproche di buonismo e/o razzismo, categorizzazioni che ingabbiano il confronto moderato e ragionato nella contrapposizioni netta di due blocchi non dialoganti. Ognuno paventa all’altro ipotetici epiloghi in relazione all’estremizzazione per assurdo delle posizioni prese. Il razzista al buonista: “Ma allora trasferiamo l’intera popolazione africana in Europa? Non possiamo mica stare tutti qui! È realismo.” E il buonista risponde: “Allora li lasciamo affogare tutti in mare? O morire di fame e guerra in Africa e Medio Oriente? Dobbiamo aprire le nostre porte. È umanità!” E così, laddove è ovvia la non perseguibilità di entrambe le opzioni, il battibecco diventa una macchina celibe rispetto alla prospettiva di una risoluzione, ma prolifera di incomunicabilità e incomprensione.
Personalmente ritengo che le due prospettive siano accomunate da un medesimo errore, da un eguale atteggiamento verticalista, dalla medesima convinzione che l’Africa sia per definizione fame, violenza e sottosviluppo un po’ ovunque, dall’ovvietà per entrambe le fazioni che si giustifichi in questo il tentativo massificato di fuga. Le posizioni divergono solo al termine del discorso, nella scelta tra l’essere favorevoli o contrari ad accoglierli qui. Infatti in molti tra le fila dei “buonisti”, non proferiscono parola alcuna sulla questione dei migranti effettivamente “economici”, e hanno consacrato la narrazione degli sbarchi alla retorica pietista -e ormai decisamente manierista- della disperazione dei figli dell’Africa. Narrazione che io non condivido, e che non credo favorisca una maggiore disponibilità e apertura in chi oggi si trincera dietro il perimetro difensivo eretto contro l’invasione. Molti “razzisti”, in maniera uguale e contraria, per dar prova di infondatezza all’accusa di disumanità e mantenere al contempo il diritto di rivendicare la chiusura dei porti e delle frontiere, narrano i migranti in arrivo come per lo più “esclusivamente economici”, perché quei pochi che hanno davvero fame e sete sono ovviamente benvenuti, e altrettanto ovviamente per nulla assomigliano ai figuri aitanti e di pretese soccorsi in mare.
La conoscenza di quanto ha cominciato ad accadere in Libia, tortura e riduzione in schiavitù, non è servita a sollecitare la politica e la società civile verso la rimessa in discussione dell’impianto normativo che regola la mobilità. I buonisti hanno usato l’immagine di quei corpi scheletrici e visivamente martoriati per fortificare gli argomenti del piano emotivo del discorso, per fare della migrazione una questione di garanzia di solidarietà e mutuo soccorso, e richiamare l’Europa agli oneri di chi ha l’onore e il plusvalore di detenere questa “superiore” possibilità. I razzisti dal canto loro, le hanno strumentalizzate per avere ulteriore prova di quanto brute e sottosviluppate siano queste genti africane che nulla sanno di rispetto della vita e civiltà, per ribadire che non c’è alcun motivo per cui dovremmo esser lieti di ritrovarcele in casa nostra; fare così della migrazione una questione di cultura, e dell’Europa il faro e presidio indiscusso del suo mantenimento e sviluppo. Comunque vada, l’Europa è la terra promessa verso cui ognuno è in cammino, e l’Africa un posto dannato da cui ognuno è in fuga, o un purgatorio per anime in bilico tra l’inferno e il paradiso; il Mediterraneo una specie di varco dimensionale o porta santa verso la salvezza, uno stargate.
Mi piacerebbe poter dire a entrambi che questo punto di vista è davvero banale, incredibilmente infantile, completamente stereotipato. Il corpo migrante, denutrito, violentato, morto o disperso, vittimizzato dalla legge, non dovrebbe essere il luogo di una speculazione semantica o letteraria, ma un condensato di accuse precise.
Moltissimi italiani non sanno davvero nulla rispetto al fatto che entrare in Europa regolarmente è quasi impossibile per i cittadini africani. Continuano a parlare di clandestini come coloro che volontariamente arrivano senza documenti, che li distruggono o li vendono, che celano la loro identità perché macchiata dell’onta di un pregresso non dichiarabile. Mi sembra assurdo! Non collegano il problema delle identificazioni né a quello dei visti che lo precede, né a quello dei rimpatri che lo segue. Immaginano che sui barconi ci siano i ricercati che non possono presentarsi in aeroporto, o più in generale lasciare il paese esibendo il documento d’identità. Molti altri invece immaginano i barconi pieni di persone affamate e perseguitate, in pericolo di vita, incapaci di edificare se stesse senza il nostro aiuto.
Entrambe le prospettive si caricano di lirismo e mitologia. Delinquenti o bisognosi. Questo è il massimo dell’ individualità concessa all’africano, le uniche dimensioni possibili del suo essere “umano”. E ancora, la discussione è sull’accoglierli o no. Ed è masochista accoglierli se sono delinquenti, disumano se sono bisognosi. Ci si accusa a vicenda di non voler vedere l’una o l’altra cosa, e si inflaziona la caccia alla prova provata di quel che si afferma. A nessuno sembra interessare metter fine a questo circolo vizioso di pregiudizi, ne impelagarsi nell’approfondimento di grandi questioni geopolitiche ed economiche. A nessuno sembra interessare o “convenire” pretendere dai governi un impegno sincero e condiviso per rendere vivibili tutti i luoghi della terra. A nessuno sembra interessare che la migrazione è ciò che accade quando è in atto un viaggio, e che il viaggio è ciò che da sempre la storia dell’uomo eleva ad attività imprescindibile di crescita e conoscenza; ma che il viaggio è oggi per alcuni auspicato e per altri severamente vietato.
Questa Europa proibita ai cittadini africani, un Eden avvolto in un mito equivalente a quello che fu il mito dell’America per gli europei, incrementa col suo negarsi il desiderio di poter esser raggiunta e l’estremizzazione positiva di ciò che realmente è e ha da offrire. Se un uomo potesse venire in aereo, cercare lavoro, e se trovato far arrivare la moglie e i figli, li metterebbe in viaggio nel deserto? O su un barcone precario e strapieno? Per cifre quadruple rispetto a quelle di un viaggio regolare, sicuro e confortevole? Se è un ricercato forse si! Ma in qualunque altro caso quasi sicuramente no!
Sicuramente a partire dall’Africa verso l’Europa sono in prevalenza persone che nella gerarchia delle loro società d’appartenenza non ricoprono gli ultimissimi posti. Un viaggio clandestino necessita di più risorse di quante ne richieda uno a norma di legge. Richiede più denaro, una migliore condizione fisica, e un tasso d’intraprendenza superiore all’ordinario. Una partenza clandestina è l’atto estremo e finale di una disobbedienza civile contro una costrizione che davvero, davvero, al di là di ogni propagandistico contradditorio, viola il principio di uguaglianza e il dovere morale di equità.
Mi piacerebbe che chiunque parlasse di migrazione avesse ben chiaro il funzionamento del sistema dei visti, e il volume delle richieste rifiutate nonostante fossero formalmente ineccepibili. Che tutti sapessero che si è agito -volontariamente o no- nella direzione del trasformare il sud del mondo in una riserva, luogo di confinamento, prigione a cielo aperto. Poi al contempo, certamente mi piacerebbe anche che gli africani smettessero di pensare all’Europa come ad un luogo migliore, e che impiegassero le loro energie per rendere effettive le molte “indipendenze” ancora soltanto formali piuttosto che per arrivare qui, ma quando scrivo in italiano parlo agli italiani, scrivo del mio paese e al mio paese, dei nostri paradossi e non dei loro. Dei loro parlo con loro, e questo per rispondere a chi mi accusa di accusare gli italiani, e di esser buonista ma nei loro confronti perfino razzista.
L’Europa ha chiuso la sua frontiera esterna ma si è adoperata per penetrare capillarmente quella africana che mai le ha opposto resistenza o ha mostrato diffidenza. La libertà di movimento, di circolazione di persone, merci e capitali, di rilocalizzazione di investimenti e imprese, deve esser trasversale o non può e non deve essere. Questo è quel che penso io.
Perché un italiano, che sia studente, professionista, imprenditore o pensionato, può decidere di collocarsi in 160 Paesi del mondo a far più o meno ciò che vuole, si tratti di turismo, affari o che so io, mentre un africano ha un range che oscilla tra i 20 e i 60 Paesi tra cui non figurano mai quelli con un Pil molto più alto di quello del Paese proprio? Vogliamo continuare a parlare di invasione e a contrapporgli pietà e accoglienza, o provare a pensare che gli africani si stanno riappropriando di un diritto che gli è stato negato? Salvini sarebbe ugualmente antipatico ma indubbiamente più coerente se mentre urlasse di rimandarli a casa loro, aggiungesse un accenno al riportare tutti i connazionali a casa nostra. Nel 2017 sembra ne siano fuggiti altrove 250.000!
Ognuno a casa sua! Limitante ma coerente. E invece l’africano deve restarsene in Africa, mentre l’italiano deve poter andare ovunque. Se la chiusura dei confini assumesse invece il duplice significato di impedire gli ingressi ma anche al contempo le uscite? Se ci chiudessero dentro il confine politico del nostro Stato Nazione e non potessimo più uscirne? O se ci chiudessero dentro il confine politico della nostra Comunità Europea e non potessimo andare in America, Asia, Africa e Australia? Perché quando si parla di confini non si pensa mai all’eventualità che venga messa in discussione quella nostra di libertà di attraversarli? Davvero l’italiano non ha modo di discernere l’ingiustizia di fondo all’origine di tutto questo?
La piega presa dal dibattito pubblico sulla questione migratoria tradisce davvero il livello complessivo di disinformazione e ignoranza degli Italiani a riguardo. Trovo gravissimo che nessuna figura istituzionale si sia spesa per istruire le masse sulla realtà tecnica e oggettiva di gestione della mobilità. Che le figure politiche abbiano potuto approfittare dell’ingenuità e dell’emotività di cittadini inconsapevoli e provati per confezionare ad arte scenografie apocalittiche e spauracchi assortiti. Che gli sia stato facile reclutare inquisitori per una moderna caccia alle streghe, relegare la riflessione all’ombra di azioni avvincenti e “catartiche” come quelle di Caserta, e sentirsi “pure” per aver deciso d’esser “dure”. Date a tutti i cittadini e le cittadine del mondo la possibilità di ottenere un passaporto e viaggiare, e vedremo se ad accadere sarà il completo trasferimento della popolazione africana in Italia, o la fine delle tragedie di confine.
Quali soluzioni
Il razzismo cresce là dove mancano il welfare, i servizi, dove non c’è lavoro né reddito, dove manca la politica. Ma l’individuazione del nemico non è casuale. Lo ha alimentato una parte della politica in maniera sistematica, con la complicità di giornali e tv.
Ma la risposta non può più attendere. Se profughi e migranti sono considerati dai governi un peso e non una risorsa da valorizzare non c’è da stupirsi se molti passano alle vie di fatto per liberarsene con le spicce. E se casa e lavoro decenti (e scuola, e assistenza sanitaria, e pensione) sono un miraggio per un numero crescente di europei, la presenza – e non solo l’arrivo – di poche o tante persone tenute in inattività forzata, spesso in cattività, ed esibite come un carico inaccettabile a chi gli abita accanto non può che moltiplicare e acuire quell’ostilità di cui governi nazionali e locali sono i primi a far mostra. Non c’è argine agli arrivi o imposizione di rimpatri che possa invertire questa situazione.
Ma le case per tutti ci sono, solo che sono in gran parte vuote. Il lavoro per tutti, cittadini, profughi e migranti, c’è: è quello necessario alla riconversione energetica a cui tutti i governi si sono impegnati a Parigi e a cui nessuno ha ancora messo mano. Il denaro per finanziarla c’è: la Bce continua a tirare fuori dal cappello centinaia di miliardi che finiscono in tasca alle banche. Quello che manca è la politica per mettere insieme queste tre cose. Invece ci si è rivolti all’Europa per farle condividere una militarizzazione di stampo coloniale di confini sempre più ampi e lontani.
Non siamo né finiremo “sommersi”. Molti dei profughi arrivati negli ultimi anni – e sicuramente quelli provenienti da zone di guerra o di conflitto armato – torneranno nei loro paesi se e appena sarà possibile. E se altri ne arriveranno, quello che occorre sono politiche di sostegno alle loro esigenze immediate – a partire dai corridoi di ingresso – e di promozione della loro capacità di organizzarsi: per progettare, anche grazie ai legami che hanno con le loro comunità di origine, delle alternative pratiche alla rapina dei loro territori e ai conflitti che li hanno costretti a fuggire.
È con loro che vanno fatti i progetti di cooperazione e anche i negoziati per restaurare la pace, dando spazio a queste forze e tenendo il più possibile lontani dai loro paesi multinazionali e mercanti di armi. Invece di deportazioni mascherate da rimpatri con cui i governi europei cercano di tacitare quel rancore degli elettori che essi stessi alimentano si innesterebbe così una libera circolazione delle persone da e verso i loro paesi di origine; a beneficio di tutti.
C’è quindi una sola soluzione al problema delle migrazioni forzate ed è il capovolgimento delle politiche neoliberiste attuate negli ultimi trent’anni. Un“piano Marshall” da esigere, e rispetto a cui mobilitare non tanto governi e partiti, quanto la vera opposizione sociale ai programmi di contenimento e di respingimento, un grande investimento, capillare e articolato, sulla riconversione ecologica e la cancellazione del debito e . Questi investimenti creerebbero centinaia di migliaia di posti di lavoro sia nei paesi poveri che per i giovani dei paesi ricchi (tecnici, operatori sanitari, insegnanti…) nel settore della cooperazione. Restituendo la terra ai contadini (anche in Europa dove decine di migliaia di piccole imprese chiudono ogni anno), verrebbe garantita la sovranità alimentare e difesi gli ecosistemi dalla devastazione provocata dall’agrobusiness e dall’estrattivismo.
Inoltre, avviando la transizione alle energie rinnovabili e abbandonando i combustibili fossili – il cui controllo è anche il movente principale degli interventi militari occidentali – si fermerebbe il cambiamento climatico. In questo modo nascerebbero anche nuove relazioni basate sulla solidarietà internazionale anziché sullo “scontro di civiltà”, sconfiggendo in una grande battaglia culturale i fanatismi politico-religiosi che si nutrono della frustrazione e della miseria.
E gli spazi per l’accoglienza nel nostro paese ci sono. Sono invisibili perché li abbiamo rimossi, come se non esistessero, e per questo li chiamiamo ”paesi fantasma”. Ne sono stati censiti circa 6.000 dall’Istat, e meritano una seconda opportunità. Abbandonati per i più vari motivi (la fuga della campagna, la scomodità perché mancano i collegamenti, il rischio sismico o idrogeologico, la denatalità), possono essere ripopolati e, le pochissime volte in cui questo è accaduto, la rinascita è stata un successo: è il caso di Riace in Calabria dove l’accoglienza dei migranti ha prodotto il recupero del patrimonio abitativo abbandonato, l’apertura di botteghe artigianali, piccole imprese di agricoltura biologica
Possiamo chiedere fondi europei e finanziare noi stessi quello che serve: strade, trasporti, scuole, imprese. Interi paesi si trovano oggi in vendita su e bay, a 200, 300 mila euro: nemmeno il costo di un piccolo appartamento. La bellezza dei luoghi e la novità del progetto sarebbero un grande richiamo per il turismo, ed ecco subito una delle varie possibili fonti di ricchezza. Insieme agli immigrati naturalmente potrebbero spostarsi lì anche italiani, e comunque l’impulso economico avrebbe ricadute su tutti.
La comunità europea non potrebbe rifiutarci un aiuto, e considerando di quali paesi parliamo (molti sono antichi, medioevali), potrebbe intervenire il mondo intero: ”arte e umanità”, un binomio sicuramente molto più interessante e attraente di ”paura e respingimento”.
L’ondata migratoria ci sta annichilendo e sta tirando fuori il peggio di noi. Viviamo con il terrore di perdere quello che abbiamo, poco o tanto che sia, e con una grande rabbia nei confronti di chi avrebbe dovuto prevedere e impedire. Basta con i lamenti: dobbiamo credere che ce la possiamo fare. Non è una guerra nucleare. Sono persone piene di buona volontà che chiedono soltanto di vivere in pace. Hanno tanto da darci e noi possiamo dare tanto a loro. I vantaggi saranno reciproci. Scriviamo petizioni, lanciamo l’idea, pungoliamo i nostri rappresentanti. E’ il momento di ricordarci nei fatti, e non solo a chiacchiere, che «Dietro ogni problema c’è un’opportunità», come diceva Galileo.
Le classi popolari del nord e i potenziali emigranti nei paesi poveri sono dunque sulla stessa barca (anzi, sullo stesso barcone): il dominio del capitalismo finanziario produce crisi, instabilità e disuguaglianza ovunque. E va abbattuto.
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