Il sisma provoca la frana che provoca l’alluvione
di Francesco Manfredi-Selvaggi
I rischi sono interconnessi e, pertanto, le strategie di tutela devono essere unitarie (vedi le frane che ostruiscono i fiumi).
Se a causare i morti sono i terremoti, perché qui da noi ma anche altrove le frane non fanno vittime, per quanto riguarda i danni alle cose ambedue sono disastrosi. Se i sismi hanno provocato il danneggiamento di molti centri abitati, quelli rientranti nel «cratere» dell’evento del 2002, i movimenti franosi hanno portato addirittura all’abbandono di un intero paese, Monacilioni la «Pompei» del Molise; non solo agglomerati urbani, ma anche le case sparse sono state colpite tanto dalle spinte sismiche quanto dagli scoscendimenti del terreno su cui sono poggiate.
I nuclei abitativi storici, la maggior parte di quelli molisani, sono poggiati sulla roccia e perciò solo le zone di espansione sono su suoli potenzialmente instabili e questo fa sì che il pericolo degli smottamenti riguarda principalmente le strade in quanto corrono in territorio rurale, spesso argilloso. L’esempio più eclatante è quello di località Covatta lungo la bifernina. Da non trascurare le minacce che le frane costituiscono per i beni culturali isolati in campagna come il convento di S. Nazario a Morrone del Sannio che per la presenza del cedimento differenziale del sottosuolo è attualmente inagibile oppure, per citare casi celebri, l’area archeologica di Pietrabbondante dove si individuano segni degli spostamenti del monumento dovuti a antiche riparazioni di dissesti.
La franosità compromette pure gli appezzamenti agricoli specie quelli coltivati in maniera intensiva, in tanti angoli della regione. Qui da noi, le manifestazioni franose interessano il più delle volte superfici limitate, magari un vallone, guarda quello di Maiella a Trivento, e meno interi versanti (la frana del Gallo riguarda solo un pezzo del pendio che costeggia l’arteria Ingotte a Ripalimosani). Le frane, comunque, sebbene riguardano ambiti circoscritti sono assai diffuse; in media hanno un’estensione inferiore all’ettaro. Nella nostra regione se ne contano oltre 20.000 e sono tanti i comuni interessati dal rischio frana.
A determinare il dissesto idrogeologico, certo, un peso decisivo lo ha il substrato anche se favorisce il suo innesco la scarsa cura che oggi si ha del territorio con l’abbandono dei campi e conseguente assenza della regimazione delle acque superficiali e con la mancanza di gestione delle aree boscate che è un fattore predisponente degli incendi boschivi i quali, a loro volta, eliminando la copertura vegetale del terreno favoriscono la formazione di frane. Tornando per un momento alla questione dell’evento tellurico che prima si è messo a confronto con la franosità si sposta l’attenzione adesso sulla comparazione tra terremoto e acqua per verificare quale dei due elementi incide maggiormente sulla propensione all’instabilità idrogeologica e il risultato è che l’influenza dell’acqua è nettamente superiore rispetto a quella del sisma.
Se nel Molise il tema della franosità è prioritario a livello europeo, forse per le differenti condizioni geomorfologiche del resto del continente, non lo è. Non vi sono infatti direttive dell’Europa sulle frane. Nonostante esistano numerosissime sfumature di fenomeni di dissesto idrogeologico che stanno a cavallo fra frane e alluvioni (es. le frane di colata nelle quali insieme alla componente idrica vi è quella terrosa e pure le ondate di piena che erodono le sponde dei torrenti, le inondazioni che depositano sedimenti nelle fasce alluvionate, qualcosa di simile a ciò che fa il Nilo con il limo).
Le due Direttive Acque (2000) e Alluvioni (2007) non fanno alcun cenno ai movimenti franosi a differenza della legge nazionale sulla Difesa del Suolo, precedente ad entrambe le direttive europee perché del 1989, in cui nella pianificazione di bacino che con tale norma nasce le frane e le alluvioni sono tenute insieme. È da dire, pure, che qui da noi i piani di bacino non sono ancora vigenti essendo fermi, da oltre un anno, all’applicazione delle misure di salvaguardia e ciò vale solo per i piani del Trigno e del Biferno, mentre quello del Fortore sta ancora più indietro.
Un’ulteriore precisazione che va fatta per completezza di discorso è che nel Molise normalmente è davvero raro che si incontrino ambiti comunali esposti sia ad inondazione che a franosità; le alluvioni avvengono, come è noto, nelle zone di pianura e, quindi, interesano in primo luogo la fascia costiera (la grave fuoriuscita del Biferno il 22 e 23 gennaio del 2003), al contrario delle frane che sono tipiche delle zone di collina, specie di quelle ricadenti nell’area delle Argille Varicolori che è il Molise Centrale. Non si sono nominate le montagne in quanto in esse domina il calcare per cui il suolo è solido.
È vero che vi sono nell’approvazione dei piani di bacino ma ciò non significa che la loro «adozione» non abbia effetto sulla tutela idrogeologica. La salvaguardia fino a questo momento era affidata, da un lato, ai vecchi e collaudati strumenti del «vincolo idrogeologico», il quale insiste nello spazio extraurbano, e, per alcuni agglomerati abitativi, della normativa sui «centri abitati da consolidare o trasferire» e, dall’altro lato, alle perimetrazioni compiute a seguito delle cosiddette leggi Sarno (1998) e Soverato (2000) con la quale ultima la inclusione tra gli ambiti con «classe di rischio alta», la R4, equivale a un limite cogente. Tale perimetrazione per il bacino del Volturno, la cui Autorità già disponeva di una sua regolamentazione in materia, la sigla R è sostituita con la A che sta per «area di attenzione», la quale può essere A4 «di alta attenzione», simile dunque a R4, e di seguito A3 «medio-alta», A2 «media», A1 «moderata».
In definitiva 4 classi di rischio equiparabili a quelle dei PAI, Piani di Assetto Idrogeologico. Con l’entrata in vigore delle norme di salvaguardia anche le altre classi di rischio che ora si chiamano di Pericolosità diventano effettive. La tutela sembrerebbe completa, ed in effetti si sono incrementati i vincoli, ma questo non è ciò che ci si aspetta dalla pianificazione di bacino la quale deve saper contemperare la salvaguardia con l’esigenza di un corretto sviluppo territoriale. Il piano di bacino, infatti, una volta licenziato nella sua interezza stabilirà le misure da adottare per ridurre la pericolosità (mettiamo, per il pericolo inondazione, la realizzazione di arginature sulle sponde del corso d’acqua) e quindi consentire alcune attività dell’uomo in quegli ambiti. Il prolungarsi della fase attuale, quella delle norme di salvaguardia, che dura da più di 1 anno sta provocando una sorta di cristallizzazione delle superfici perimetrale.
Francesco Manfredi Selvaggi637 Posts
Nato a Boiano (CB) nel 1956. Ha conseguito la Maturità Classica a Campobasso e poi la laurea in Architettura a Napoli nel 1980. Presso la medesima Università ha conseguito il Diploma di Perfezionamento in Storia dell’Arte Medievale e Moderna e il Diploma di Perfezionamento in Restauro dei Monumenti. È abilitato all’esercizio della professione di Architetto e all’insegnamento di Storia dell’Arte nei licei e Educazione Tecnica nelle scuole medie. Dal 1997 è Dirigente, con l’attribuzione di responsabilità nei servizi Beni Ambientali (19 anni), Protezione Civile, Urbanistica, Sismica, Ambiente. Ha avuto un ruolo attivo in associazioni ambientaliste quali Legambiente Molise, Italia Nostra sezione di Campobasso e Club Alpino Italiano Delegazione del Molise. Ha insegnato all’Università della Terza Età del Molise ed è stato membro del Consiglio di Amministrazione della Fondazione dell’Ordine degli Architetti di Campobasso, occupandosi all’interno dello stesso del progetto di Archivio dell’Architettura Contemporanea. È Giornalista Pubblicista e autore di articoli, saggi e del volume La Formazione Urbanistica di Campobasso. Le ultime pubblicazioni sono: «Le Politiche Ambientali nel Molise» (2011) e «Problemi di tutela ambientale in Molise» del 2014.
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