La Rete ci ha reso soli e il popolo non esiste più
di Wlodek Goldkorn
È stata creata l’illusione di sentirsi insieme. E ci hanno fatto credere di poter decidere senza mediazioni. Ma la democrazia è un’altra cosa. Colloquio con Ilvo Diamanti
Prima di parlare del Popolo e di tentare a darne una definizione, Ilvo Diamanti, politologo, forse il maggior studioso del populismo in circolazione, insiste a fare una premessa. Il tema: soldi, tributi, tasse, ossia il rapporto tra il cittadino e lo Stato in Italia. Dice Diamanti: «Lo Stato non si è mai fidato dei cittadini e i cittadini hanno sempre ricambiato, non si sono mai fidati dello Stato». E prosegue: «Rispetto al passato è mutata la situazione politica; oggi la mancanza di mediazione, o meglio quello che noi politologi chiamiamo la disintermediazione è nei fatti». Sospira, sorride, guarda la finestra dello studio da cui si intravvede la piazza dei Signori di Vicenza a la Basilica palladiana: «Mi permetta di fare il demagogo. Si è mai chiesto perché in Italia la pressione fiscale è maggiore che altrove e per quale motivo il sistema fiscale è meno sopportabile che altrove?»
Perché in Italia l’evasione fiscale è una prassi più diffusa che in altre nazioni occidentali.
«Ecco, le tasse sono la misura dell’adesione dei cittadini allo Stato. Per carità, anche altrove esiste il fenomeno dell’evasione; ma solo da noi è considerato una specie di legittima difesa dalle pretese di uno Stato in cui non ci si riconosce fino in fondo. Ma come dicevo il rapporto è reciproco, pure lo Stato diffida dei cittadini e quindi istituisce, sottolineo il termine istituisce, modalità fiscali più pesanti che altrove. Brutalmente: io so che tu mi freghi e quindi ti impongo le tasse maggiori ma anche modalità di pagamento e di controllo tali da diventare matto e che mantengono un ceto di intermediari, fiscalisti, commercialisti, ragionieri che altrove non esiste. E viceversa. Tu mi rendi la vita difficile? E allora io dove posso mi sottraggo ai tuoi controlli, alla tua presenza. In sintesi, siamo un Paese fondato sulla reciproca diffidenza. Mi viene in mente una ricerca fatta nel 1954. Il capitolo sui sentimenti dei cittadini nei confronti dei partiti sembra una specie di manuale di antropologia criminale. Si leggono cose come: “Il Pci? Belve assetate di sangue”. E ancora: “Partito liberale? Servi dei padroni’’ Sulla Democrazia cristiana, idee chiare: “Ladri ladri ladri’”. Ma poi alla domanda: Ma se dovessi iscriverti a un partito a quale aderiresti? La risposta: “Alla Dc’” Qui nel Veneto (e non solo) erano democristiani nonostante considerassero la Dc “un partito di ladri”».
Parliamo di oggi.
«Al tempo. Sto dicendo che l’antipolitica (che è pur sempre politica) è sempre stata un sentimento prevalente nella società. L’Italia è sempre stata considerata, dagli studiosi, l’esempio di un Paese dove esisteva una società senza Stato, ma che funzionava. E la differenza con la situazione attuale è la seguente: nel passato tutti i partiti politici davano comunque per scontato che lo Stato esistesse. Perché lo Stato erano loro. La democrazia rappresentativa integrava una società che altrimenti sarebbe stata lontana dallo Stato. Questo discorso riguardava perfino Berlusconi. Certo, l’ex cavaliere ha adottato un approccio populista, personalizzando il rapporto con i cittadini. Ma lo ha fatto rispettando le regole della mediazione della democrazia rappresentativa e non ha mai messo in questione le regole del sistema. Non solo, Berlusconi ha integrato e costituzionalizzato la Lega e i post fascisti, anche se lo ha fatto badando prima di tutto ai suoi interessi. Oggi invece abbiamo due soggetti politici, il M5S e la Lega che “disintermediano”. Ed è questo che li distingue da tutti gli altri, ed è la prima volta che accade. A settembre uscirà un mio libro intitolato “Le divergenze parallele”. Ciò che li accomuna sono le divergenze; da tutti gli altri, ma anche tra di loro».
Il rimando è ad Aldo Moro e le sue convergenze parallele tra la Dc e il Psi. Due partiti fino ad allora rivali destinati prima o poi a governare insieme.
«Oggi, i due soggetti politici, il M5S e la Lega si sono messi nella stessa identica ottica rispetto alla società, raccogliendo lo stesso risentimento. E entrambi temono di essere spiazzati dall’altro. Due soggetti alleati dunque per necessità e concorrenti di fatto».
Andiamo oltre la contingenza e le alleanze di governo. Stiamo vivendo una crisi della democrazia liberale così come l’abbiamo conosciuta dal dopo la guerra. Per decenni in Europa non c’era posto per la destra. I partiti di massa erano più o meno socialdemocratici (anche quando si proclamavano democrazia cristiana). Perfino i liberali erano a favore di maggiore uguaglianza. Come si esce da questa crisi? Tornando al vecchio mondo di cui noi siamo dei sopravvissuti? O immaginando e inventando nuove forme di democrazia?
«La democrazia è mediazione: tra demos e cratos, tra il popolo e il potere. In termini tecnici la democrazia ha a che fare con i media. E i modelli di democrazia riflettono le tecnologie e modi di comunicazione. Oggi siamo in una società in cui la disintermediazione è favorita da diversi processi. Uno di questi è la crescita del mito della Rete, del digitale. Nel mito del digitale è incluso anche il mito dell’Agorà, dell’Atene di Pericle: 25 o 30 mila persone, maschi, si riunivano in una piazza e votavano. La Rete produce l’utopia di poter ripristinare quella piazza. Ecco come nasce l’idea dell’inutilità del parlamento. Questo tipo di comunicazione, la Rete, il digitale, favorisce il populismo perché è la disintermediazione allo stato puro. Ora, il populismo non percepisce la società come un organismo articolato, composto da gruppi, territori, classi, interessi vari e contraddittori. Il populismo esprime un Popolo, uno e indistinto. Ma, attenzione, il Popolo per essere tale ha bisogno da un lato della figura dell’Altro da cui distinguersi, e dall’altro di un capo in cui riconoscersi».
Ci torneremo. Intanto, come rispondere a chi dice: dobbiamo muoverci verso la democrazia diretta?
«Dicendo, io sono più populista di te, andando cioè oltre il populismo. C’è un libretto di Tito Boeri “Populismo e Stato sociale”, uscito con Laterza. Nella sua ricerca su base europea, mostra come esista una correlazione statisticamente significativa tra il deficit di welfare, il deficit di corpi intermedi e l’indice di populismo».
Il vero nemico dei corpi intermedi era però Renzi.
«Infatti, Renzi, per me è un populista. Dove sono finite le sezioni del Partito democratico?»
Non esistono, o quasi…
«Per carità, non è come come gli altri. Ma ha presente la parola Popolocrazia?»
È il titolo del libro scritto da lei con Marc Lazar. Ne vuole spiegare il significato?
«Popolocrazia significa che il populismo non è una componente altra rispetto alla democrazia ma una categoria che è ormai dentro la democrazia. Il populismo ha contaminato la democrazia con le sue logiche. Popolocrazia vuol dire che le regole della competizione democratica costringono ad adottare un tasso elevato di populismo; e anche che la legittimazione democratica (la cui misura è determinata sempre di più dai sondaggi) avviene attraverso un certo stile di comunicazione. Perché il populismo è stile di comunicazione, che appunto contraddice le regole della democrazia liberale».
Non ha risposto alla domanda, che fare.
«Semplice. Dimostrare le buone ragioni della rappresentanza. Il populismo si nutre della solitudine, dello stare sempre attaccati ai dispostivi digitali che ci isolano gli uni dagli altri».
Infatti. Per fare un esempio banale: vediamo persone che in una città straniera, non hanno più la curiosità né il contatto con gli abitanti locali. La strada viene indicata dal Gps su uno smartphone, il ristorante da un’applicazione. Non ci si perde, niente sorprese e non si deve chiedere la strada.
«Per quanto riguarda le tecnologie: non si torna indietro. Possiamo però spiegare che nella rappresentanza non siamo soli, siamo in associazione con gli altri; in piazza o in un congresso. Di questo dobbiamo parlare».
Prima di arrivare alla definizione della parola Popolo, una domanda filosofica. Il poeta russo Vladimir Majakovskij, a un reading, anni prima della Rivoluzione aveva appeso in sala uno striscione: “Mi piace guardare i bambini mentre muoiono”. Era una provocazione avanguardistica. Oggi in Rete si trovano espressioni simili ma senza l’aura dell’avanguardia e non come provocazione. E allora, se la democrazia liberale presupponeva empatia e solidarietà, ma anche repressione del Male intrinseco a ognuno di noi, perché oggi il Male non è più represso, ma dilaga?
«È quello che ci siamo detti prima: la disintermediazione. La mancanza di mediazione implica una mancanza di moderazione. Ieri per potersi esprimere in pubblico c’era bisogno di una mediazione, di un giornale, un teatro, una tv. Oggi non più. Oggi ognuno può provare direttamente il brivido della trasgressione e dell’orrido, ed esserne il protagonista».
Proviamo a dire cosa è il Popolo?
«Storicamente può essere definito in modi diversi. Una comunità di origini e cultura (Herder), in tal caso stiamo parlando dell’idea del Volk (il popolo in tedesco; ndr) come etnos. Oppure la Nazione di Renan, definita come un plebiscito che si rinnova ogni giorno. Poi ci sono altri modelli come il nostro. L’Italia è una nazione multiforme, per questo, e grazie all’arte di arrangiarsi, riesce a sopravvivere ai mutamenti».
I populisti a quale idea del Popolo si riferiscono?
«A quella opposta al Popolo definito dalle istituzioni. Il Popolo dei populisti è definito invece dai nemici interni e dagli stranieri. Gli interni sono la casta, gli esterni sono coloro che ci invadono. E noi abbiamo bisogno di confini proprio per quello, soprattutto oggi che i confini sono messi in discussione per non dire scomparsi a causa dalla globalizzazione».
Il Popolo è un’invenzione?
«Una costruzione. E per questo ha sempre bisogno di essere definito. Perché definire significa dare un nome e un confine. La definizione ci permette di comunicare».
C’è però un problema. Gli immigrati sono l’Altro, il nemico che ci invade. Ma non li possiamo bandire perché il dispositivo del capitalismo richiede l’immigrazione.
«Gli immigrati servono ai populisti sia come forza lavoro, sia come un fenomeno che aiuta a definire il Popolo, a tracciare appunto il confine tra il Noi e gli Altri».
Ha usato la parola confine, molto cara ai sovranisti…
«Attenzione, il sovranismo e il populismo non sono la stessa cosa. Il sovranismo è solo una componente del populismo. In Italia, i due partiti al governo sono populisti, ma il M5S non è sovranista».
Permetta una suggestione. Il Grande fratello: dove uno vale uno ed è il pubblico a decidere direttamente chi esce e chi resta. Forse è una delle origini dell’ondata populista. E forse ancora prima vengono i funerali di Lady Diana, “principessa del popolo”?
«Belle metafore. Rocco Casalino, il vincitore del Grande Fratello presiede la comunicazione di Palazzo Chigi. C’è però un paradosso nel dispositivo della disintermediazione. Si vuole comunicare senza mediazione? Ma la comunicazione è mediazione. Anche il digitale è un medium. Per questo io parlo della comunicazione immediata e della società immediata».
Immediato, significa che è stato abolito il tempo.
«Significa la contemporaneità tra espressione, volontà e decisione. Ma vuol dire anche non mediare, ma come dicevo, non si può non mediare».
Altro paradosso. Il populismo promette di realizzare molte cose, attraverso un’azione politica. Ma come diceva Zygmunt Bauman, viviamo in un’epoca in cui il potere ha divorziato dalla politica, ragione per cui i politici possono promettere solo cose che non sono in gradi di attuare.
«Alla fine diventeranno nemici di se stessi. C’è un’antinomia. Da un lato, nella narrazione populista il Popolo appunto, è puro, immacolato, vittima delle lobby e dei corrotti e potenti. E loro, i populisti sono Altro rispetto a chi comanda. Dall’altro lato, sono i populisti a comandare. Brutalmente: il populista comanda contro il potere, per cui è allo stesso momento contropotere e potere. Il problema di questi soggetti è che in fin dei conti combattono contro se stessi».
E allora potrebbero tentare di mandare per aria la globalizzazione, visto che è la globalizzazione la causa del divorzio tra potere e politica.
«Lei sta ragionando. Loro no. Loro devono continuare a parlare, non possono star fermi. È l’antipolitica che pratica la politica. Ma l’antipolitica è plurimorfa, fluida, cambia perché è immediata. Il Popolo esiste se lo reinventi ogni minuto. E quindi alla fine da costruttore diventi distruttore. Devi avere sempre una nave di una Aquarius come icona».
Viene in mente Moby Dick di Melville.
«Esatto. Una nazione inchiodata, per giorni e giorni a inseguire una barca».
Il futuro della sinistra?
«Finché non ci saranno nuovi valori, nuovi obiettivi, nuove fratture, non si avrà possibilità di costruire una sinistra. La sinistra nasce dalle fratture; tra lavoro e capitale, fra classi sociali. Il Popolo invece non conosce fratture. Il populismo è contestuale alla mancanza del futuro e del passato».
Sta dicendo che il populismo è l’estrema conseguenza del neo-liberalismo, dell’abolizione del futuro come agire collettivo?
«Sì. Il futuro è già passato. Ma torniamo alla sinistra: per dire verso dove si va si deve indicare da dove si viene. La società immediata (come la chiamo io) ha rimosso il passato e la storia e e per questo non ha futuro. La sinistra ha accettato questo principio, per cui non vedo come farà a rinascere».
Il Popolo ha rimosso la memoria?
«Se hai la memoria non sei più un Popolo, perché la memoria è rielaborata attraverso il ricordo. Ma il ricordo è parziale, individuale. Il ricordo è la selezione di ciò che voglio ricordare oppure di rimuovere».
Fonte: L’Espresso
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