Non difendo Riace. Vi chiedo solo di andare lì per guardare con i vostri occhi
di Ilaria Bonaccorsi
Poi sbaglierò. L’ho fatto molte volte, ma questa volta convintamente vi dico che immaginare Mimmo Lucano che distrae due milioni di euro per fini personali, come afferma oggi Luigi D’Alessio procuratore capo di Locri intervistato da Repubblica, mi fa davvero sorridere non fosse uno dei troppi orrori di questo giornalismo/politica che ingoiamo quotidianamente da anni. Ad agosto ero a Riace e in questo mondo strano dove tutto è diventato privilegio, dove tutto è squilibrato in alto e in basso, dove tutto ha un lato che non si vede, la cosa che più mi ha impressionato di quel luogo e di quella gente è che era tutto lì.
Senza privilegi. Non c’era niente dietro, neanche quelli che mugugnavano contro Lucano e il suo modello, era tutto in piazza: il disordine, la speranza, la povertà, quella strana rinascita, la mescolanza, un mistero. Lo chiamerei così, il mistero di Riace. Io non ho capito mentre ero lì perché quel modello funzionasse, forse neanche se funzionasse, so che partita di lì non ho più dimenticato Riace. È come se si fosse messa dentro, in un angolino della mia pancia o del mio cuore a lavorare in un altro modo, silente, ma forte.
Difendere Lucano, difendere il modello Riace… io non difendo nessuno. Ascolto giornalisti urlare e mostrare cartelli con su scritto frasi strampalate che non si sono neanche presi la briga di fare quel viaggio decisamente poco “comodo” perché Riace è scomoda, è lontana. È bella, ma è fuori, niente alberghi, niente aria condizionata, niente lussi, niente segnale, niente Wi-Fi se non fosse per un piccolo bar in piazza che a volte lo accende. Riace è fuori dal sistema. Ti obbliga a stare lì. A confonderti e a ripartire diverso. E non c’è tempo.
Io non difendo nessuno, vi chiedo solo, come vi chiedevo ad agosto, di andare lì. Di fermare il vostro tempo, persino le vostre teste storte o stanche, “di portare i vostri corpi” come Sandro Veronesi ha scritto a Roberto Saviano qualche mese fa invece che su una nave di qualche Ong per il Mediterraneo, a Riace. Una grande nave sulla terra. Una terra strana. Un po’ Fitzcarraldo forse. Ha tentato di scavalcare le montagne Lucano, lo ha fatto a modo suo, lo ha fatto aggirando le leggi degli uomini (di questi uomini, da Umberto Bossi a Gianfranco Fini) nel nome di un sogno.
«Chi sogna può muovere le montagne» aveva detto Werner Herzog mentre girava Fitzcarraldo, la storia di un uomo che voleva costruire un grande Teatro dell’Opera a Iquitos, un piccolo villaggio amazzonico. E per farlo decise di portare una grande nave su per la montagna. Una follia. Quella di Fitzcarraldo e quella di Herzog che per quattro anni ha stretto i denti, insieme alla sua troupe, pur di raccontare quella storia. E a chi gli chiedeva perché non mollasse tutto, rispondeva che non voleva vivere senza sogni. «Se io abbandonassi questo progetto sarei un uomo senza sogni, e non voglio vivere in quel modo. Vivo o muoio con questo progetto.» diceva Herzog, ecco Mimmo Lucano lo immagino un po’ così in questi tempi grigi. Niente mezzi termini, niente mezze misure. Vivo o muoio con questo progetto.
Un errore? O più errori? È possibile. Il dibattito è diventato se un sindaco possa porsi al di sopra della legge. Non ci ha mai girato intorno Lucano, già dalla prima volta che lo avevo incontrato a Roma per la presentazione di Mimì Capatosta di Tiziana Barillà: “se la legalità non è giusta…” diceva “ preferisco essere giusto”. Facendoci capire che era pronto a tutto, niente mezzi termini, niente mezze misure, niente mezze leggi. Già allora avevo avuto un brivido di paura, mi ero chiesta quanto tempo avesse ancora quell’omino strano.
Cosa potesse rappresentare e quanto potesse scatenare non per il “modello”, non per Riace fin troppo disgraziata ma per quella strana umanità lì. Senza niente. Senza privilegi. Così frontale. Così stranamente giusta. Ecco, è durato sino ai primi di ottobre. Avevo sottovalutato la violenza e la sua fretta. Oggi Tomaso Monatanari su il fatto quotidiano cita due passi Piero Calamandrei che pensavo di scrivervi anche io per rispondere (almeno tentare) all’unico problema che sembra porsi la nostra informazione. Se sia giusto o meno aggirare delle leggi (sbagliate) per un buon fine.
Nell’arringa in difesa di Danilo Dolci, processato nel 1956 per resistenza e oltraggio a pubblico ufficiale, istigazione a disobbedire alle leggi e invasione di terreni, Calamandrei disse: “Anche oggi l’Italia vive uno di questi periodi di trapasso, nei quali la funzione dei giudici, meglio che quella di difendere una legalità decrepita, è quella di creare gradualmente la nuova legalità promessa dalla Costituzione”. E concluse: “Vorrei, signori Giudici, che voi sentiste con quale ansia migliaia di persone in tutta Italia attendono che voi decidiate con giustizia, che vuol dire anche con indipendenza e con coraggio questa causa eccezionale: e che la vostra sia una sentenza che apra il cuore della speranza, non una sentenza che ribadisca la disperazione”. Ed il senso di queste parole, lo spiega bene Montanari oggi, è che sì: si può violare la legge, e però attuare la Costituzione.
Michael Rocchetti ieri ha disegnato uno dei suoi Scarabocchi per Riace. Ha citato Garibaldi. L’episodio lo conoscete, i libri di Storia lo racconterebbero così: «Colonne garibaldine a cui si sono aggiunte alcune centinaia di “picciotti” siciliani si trovano davanti a circa 3 mila soldati borbonici. A Calatafimi, a poca distanza dalle rovine di Segesta, si svolge una battaglia che vede “le camice rosse” opporre una straordinaria resistenza contro le forze nemiche superiori di numero e meglio equipaggiate. Il generale Nino Bixio propone la ritirata ma Garibaldi non è d’accordo e rivolto a Bixio pronuncia la celebre frase: “Qui o si fa l’Italia o si muore”».
Fonte: il salto.net
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