Di frana in frana
di Francesco Manfredi-Selvaggi
È difficile riconoscere, a volte, se un terreno è franoso perché esistono anche le frane quiescenti che si possono riattivare.
Ci sono, nell’esperienza pianificatoria compiuta nel Molise, due modi differenti per stabilire la pericolosità a frana di un territorio. Il primo, anche temporalmente è quello contenuto nei piani paesistici basato sul riconoscimento della presenza di alcuni fattori predisponenti le frane (pendenza, caratteristiche geomeccaniche dei terreni, ecc.) che porta all’inclusione di una zona tra quelle suscettibili di franosità anche in assenza di qualsiasi fenomeno franoso. Il secondo è quello che impronta, o che dovrebbe improntare come vedremo, i piani d’assetto idrogeologico, PAI, per i quali sono scattate le «misure di salvaguardia» con la pubblicazione a marzo di quest’anno della delibera dell’Autorità di Distretto di «adozione».
Tale secondo modo consiste nella individuazione dei dissesti presenti ancorché non siano chiaramente leggibili (parleremo dopo di ciò). È un impegno particolarmente gravoso quello della ricognizione di tutte le emergenze idrogeologiche che è l’impostazione del PAI, ben più complesso di quello assunto dalla pianificazione paesaggistica che è quasi esclusivamente di elaborazione cartografica. L’ambizione del PAI è molto grossa visto il numero elevatissimo di episodi franosi (22.000 ?), presenti nel Molise per cui, lo commenteremo in seguito, tale obiettivo di verificare l’esistenza di movimenti del suolo non sarà pienamente raggiunto.
Per affrontare l’impegno che ci si è assunti, che si è definito ambizioso e che adesso chiamiamo gravoso, è stato effettuato uno sforzo altrettanto gravoso. Non vi è stato niente di superficiale e tanto meno improvvisato perché l’operazione di scovare, per così dire, le frane è durata molti anni. I PAI sono stati, infatti, preceduti dall’IFFI, progetto risalente agli inizi del millennio, acronimo che sta per Inventario Fenomeni Franosi Italiani.
L’esecuzione di questo lavoro che ha visto coinvolto anche il Servizio geologico regionale non è consistito solo nell’effettuazione di rilevamenti di campagna sugli areali franosi, troppi, in effetti, per essere visitati tutti, ma pure nella raccolta di informazioni sulle zone dissestate per poi procedere ai rilievi sul campo in ambiti circoscritti. Di grande ausilio sono state le foto aeree commissionate dalla Regione per la redazione della Carta Tecnica Regionale nel 1992.
Altre fonti, però di tipo indiretto, sono state le documentazioni rinvenute nelle biblioteche, negli archivi storici (di Campobasso e di Isernia), nella raccolta di giornali d’epoca conservata presso la Biblioteca Albino (purtroppo chiusa), nella cartografia antecedente all’attuale. Si sono, poi, consultati gli studi geologici a corredo degli strumenti urbanistici, le tavole d’analisi finalizzate al tema della stabilità del suolo contenute nella pianificazione paesaggistica, le relazioni tecniche redatte in occasioni di interventi di mitigazione del rischio idrogeologico.
Del resto non si sarebbero potute avere altre pretese in quanto in quel momento eravamo all’anno zero per la conoscenza delle frane per cui non era stato possibile utilizzare precedenti censimenti se non limitati a qualche area. Infine, si segnala la carenza di pubblicazioni scientifiche che saranno favorite dallo viluppo di un apposito settore di ricerca all’interno dell’Università del Molise di abbastanza recente costituzione. Per quanto finora detto, non sono scusanti, bensì difficoltà oggettive quelle che ostacolano una conoscenza completa sulle frane.
Forse, ciò che deve aver determinato che nel PAI vi sono ambiti riconosciuti a propensione al dissesto dove è demandato al geologo che collabora con il progettista di stabilire il tipo di fenomeno meno franoso che vi insiste. Può apparire strana tale delega al libero professionista se non si tiene conto delle giustificazioni esposte sopra. Un approccio plausibile in queste situazioni mutuato da quello seguito dai piani paesistici è di scandagliare se si riscontrano nel sito oggetto di interesse cause predisponenti l’instabilità quali la formazione geologica, l’acclività del pendio, la presenza di corsi d’acqua che innescano l’evoluzione del versante, la sismicità, la vegetazione (per quest’ultima è opportuno far osservare che essa non va sempre a favore della stabilità del suolo potendosi avere casi nei quali tramite le radici l’acqua riesce a infiltrarsi nel sottosuolo favorendo lo sviluppo di una frana).
Lo stato di indeterminatezza sulla tipologia di dissesto in un certo contesto territoriale è determinato anche dalla complessità delle valutazioni richieste per stabilire se quella morfologia del suolo sia il segno indicatore di una frana “quiescente” o se sia la sua conformazione naturale. Basta il minimo avvallamento della superficie, un qualunque suo rigonfiamento a portare ad ipotizzare che si è di fronte ad un fenomeno franoso in quiescenza, o meglio in fase di quiescenza poiché è frequente che i corpi franosi alternino momenti di attività, peraltro di corta durata, con periodi invece prolungati di stasi.
Sono davvero rare le frane che sono perennemente in azione, neanche le “frane attive”, termine che identifica i veri e propri movimenti franosi, lo sono. Per trovare scoscendimenti che sono nella condizione di non potersi riattivare bisogna cercarli in quelli che si sono avuti in altre ere geologiche o se nel Quaternario nell’arco temporale della «grande glaciazione» e quale testimonianza di ciò vi sono i circhi glaciali, il più noto da noi è quello di m. Miletto, dove si è interrotta la produzione di detriti perché è mutato il clima, non più così gelido da provocare lo sgretolamento della roccia; discorso analogo per le falesie sulla costa legate ad un diverso livello delle acque marine dovuto allo scioglimento dei ghiacciai.
Esse si denominavano frane relitte e salvo queste non vi sono movimenti franosi che non dipendono, per essere compresi, dalla data di osservazione poiché quelle forme del suolo che apparivano stabili in un giorno, in un mese, in una stagione in quello successivo (o nel precedente) possono mettersi in moto. Che sia una frana quiescente ce lo rivela, a volte, pure il toponimo (ad esempio, lama o lamaturo) oppure delle testimonianze orali se non documenti del passato. Per ciò che si è cercato di illustrare il contributo del Geologo incaricato nella lettura del territorio per stabilire la franosità è essenziale.
Francesco Manfredi Selvaggi637 Posts
Nato a Boiano (CB) nel 1956. Ha conseguito la Maturità Classica a Campobasso e poi la laurea in Architettura a Napoli nel 1980. Presso la medesima Università ha conseguito il Diploma di Perfezionamento in Storia dell’Arte Medievale e Moderna e il Diploma di Perfezionamento in Restauro dei Monumenti. È abilitato all’esercizio della professione di Architetto e all’insegnamento di Storia dell’Arte nei licei e Educazione Tecnica nelle scuole medie. Dal 1997 è Dirigente, con l’attribuzione di responsabilità nei servizi Beni Ambientali (19 anni), Protezione Civile, Urbanistica, Sismica, Ambiente. Ha avuto un ruolo attivo in associazioni ambientaliste quali Legambiente Molise, Italia Nostra sezione di Campobasso e Club Alpino Italiano Delegazione del Molise. Ha insegnato all’Università della Terza Età del Molise ed è stato membro del Consiglio di Amministrazione della Fondazione dell’Ordine degli Architetti di Campobasso, occupandosi all’interno dello stesso del progetto di Archivio dell’Architettura Contemporanea. È Giornalista Pubblicista e autore di articoli, saggi e del volume La Formazione Urbanistica di Campobasso. Le ultime pubblicazioni sono: «Le Politiche Ambientali nel Molise» (2011) e «Problemi di tutela ambientale in Molise» del 2014.
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