Campobasso. Vicenda del detenuto che ha tentato l’evasione: analisi e riflessioni
di Anna Maria Di Pietro
Non è la prima volta che un detenuto tenta l’evasione dal carcere. Siamo abituati, navigando in internet, a vedere scene di fuga e inseguimenti rocamboleschi che sembrano scene di un film. Questa volta, però, è capitato vicino a noi e il video è diventato subito virale. Certo, è solo una sequenza dei fatti, non conosciamo il “prima”, ma qualche riflessione va fatta alla luce di un’analisi empirica dei fatti, senza toccare l’etica e la morale, ma basandosi sul diritto di un Paese civile come l’Italia.
La sequenza della ripresa amatoriale mostra il fuggitivo che, spalle alla recinzione del penitenziario, viene accerchiato dai tre agenti. Dunque, la sua breve corsa era ormai terminata. Il reo, con le mani alzate in segno di arresa, viene colpito da un agente e cade a terra, mentre lo stesso gli sferra un calcio. Disarmato, debole e con problemi di deambulazione, visto che poco prima aveva usato delle stampelle per muoversi, non ha reagito neppure quando si è visto puntare la pistola caricata al momento. Ora, ci si chiede se l’uso di tutta quella forza tramutatasi in atti violenti, sia stata davvero necessaria.
Qualcosa non torna, perché l’uomo non aveva altra via di fuga, braccato com’era dai tre in divisa, che avrebbero potuto ammanettarlo e riportarlo in cella. Questo bisognava fare, semplicemente. Ciò che fa più riflettere, però, è il fatto che l’agente, nel puntare la pistola, non abbia minimamente pensato a un’eventuale reazione dell’uomo che, magari, nel tentativo di difendersi, afferrando la pistola, avrebbe causato la fuoriuscita di un proiettile, mettendo a repentaglio anche l’incolumità dei passanti. In fondo, i fatti sono accaduti in pieno giorno.
La vicenda è sicuramente complicata, ma questi comportamenti risultano deplorevoli se inquadrati nel nostro ordinamento giuridico. Stonano con i principi della Costituzione, volti a tutelare la vita anche dal punto di vista della dignità e, nello specifico, tale atto di forza cozza con l’art.27 che parla della funzione rieducativa della pena. E, allora, ci si chiede come si possa rieducare con esempi contrari, usando violenza e “offendendo chi ha offeso”. Senza voler fare un saggio di diritto, questi atteggiamenti stridono con tutti i principi dello stato di diritto.
La violenza, quando viene esercitata in nome e per conto delle istituzioni di uno Stato democratico, sfocia nel sopruso e non rappresenta più la riparazione del vulnus, cioè dell’offesa, ma è semplicemente un atto arbitrario. Se ad ogni azione corrisponde una reazione, quest’ultima è risultata spropositata. L’accaduto ha aperto un acceso dibattito. Si è parlato di reazione dettata anche dalle condizioni difficili in cui gli agenti si trovano a operare all’interno delle carceri, con penuria di personale, situazioni difficili da gestire e altre problematiche.
Questa denuncia va di sicuro accolta, ma certamente non giustifica un atteggiamento che sembra, a questo punto, una combinazione di vendetta, punizione, espiazione ed esibizione. Tutto questo, nel pieno rispetto di chi, ogni giorno all’interno delle carceri svolge un lavoro difficile e nel pieno rispetto delle regole, e senza voler giustificare il tentativo di fuga del detenuto che ha compiuto un ulteriore reato. Una semplice riflessione per far ritornare alla mente i casi in cui le violenze sui detenuti si sono spinte oltre, fino a provocarne la morte. Il caso Cucchi ne è l’emblema.
Anna Maria Di Pietro90 Posts
Nata a Roma (Rm) nel 1973, studi classici, appassionata lettrice e book infuencer, si occupa di recensioni di libri e di interviste agli autori, soprattutto emergenti.
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