“La Pace non è uno Stato Naturale”, parla il regista
di Francesco Montano
Intervista a William Mussini, regista e sceneggiatore del film “La Pace non è uno Stato Naturale”
In primavera uscirà il primo lungometraggio scritto e diretto dal regista William Mussini, prodotto da INCAS Produzioni, dal titolo “La Pace non è uno Stato Naturale”, un film ambientato in URSS ai tempi della Campagna di Russia. In questo film si affronta il tema della violenza umana: un argomento molto attuale e dalle molteplici implicazioni filosofiche…
Con questo film ho tentato di fare un primo passo per aprire una discussione; è una mia volontà, vorrei stimolare la riflessione per riportarci un po’ anche individualmente a riflettere su queste questioni. Non possiamo accontentarci di star bene, di avere quattro soldi in tasca, di distrarci continuamente con le tecnologie e i media, dobbiamo prendere coscienza di che cosa siamo e di come siamo arrivati ad esserlo; il benessere che adesso i Paesi occidentali hanno è probabilmente derivato da un’oppressione avvenuta a danno di altri popoli, vedi America Latina, l’Australia e l’Africa. Secondo me l’uomo medio non pensa quasi mai a questi argomenti e che fine fa la consapevolezza? La consapevolezza di sé e la considerazione degli altri che vivono su questo mondo? Penso alla “Società liquida” di Bauman, dove tutto viene diluito in informazioni digitali finalizzate al controllo delle masse, masse di consumatori colmi di isterie e psicosi.
Insomma è un tema che ti affascina e ti inquieta allo stesso tempo, mi sembra di capire; hai intenzione di approfondire anche in altri tuoi lavori futuri questo argomento?
In passato ci ho provato, mi piacerebbe: mi rendo conto che assolutamente non si esaurisce questo discorso con il film. Ho dato soltanto una mia impressione e un mio parere, vorrei certamente approfondire, sarebbe bello parlare dell’argomento della violenza magari dopo la visione del film, perché in realtà è un discorso che non è stato affrontato come si dovrebbe, nel senso che non si è risolto. L’umanità attualmente vive in una condizione di equilibrio precario, le superpotenze, dalla guerra fredda in poi, hanno un arsenale atomico che si contrappone. La deterrenza nucleare ci fa vivere in un sistema geopolitico che si basa sulla precarietà. Dalla Baia dei Porci in poi, sono stati diversi gli episodi che avrebbero potuto farci saltare per aria e neanche l’abbiamo saputo, quindi voglio dire che questo argomento è da proporre alle masse, le coscienze sono sicuramente addormentate in questo periodo di non belligeranza; soprattutto in occidente la pace sembrerebbe un dato di fatto, ma invece non lo è affatto.
In un’opera audiovisiva è importante anche la componente musicale: parliamo della colonna sonora.
Ho sempre posto grande attenzione alla musica nei miei lavori e in “La Pace non è uno Stato Naturale” a maggior ragione: è un film in cui si gioca molto sull’intensità emotiva degli attori e sulla fotografia, con poche parti parlate, per questo la musica è fondamentale. Ci tengo molto alla originalità della colonna sonora, per poter valorizzare maggiormente l’opera, per sottolineare al meglio le scelte di regia e di montaggio e questa volta ho collaborato in maniera decisamente proficua con il musicista Stefano Barbaresco. Il compositore è riuscito dal primo momento a comprendere quali fossero le mie intenzioni e le sue scelte musicali si sposano perfettamente con la ricerca che ho portato avanti nella realizzazione del lungometraggio.
Quanto tempo sono durate le riprese?
Complessivamente abbiamo lavorato un anno e qualche mese: la sceneggiatura prevede un’ambientazione in tutte le stagioni ed abbiamo girato anche con la neve (quella vera), con tutte le difficoltà tecniche e logistiche che si possono immaginare, non potevamo permetterci effetti speciali, anche per una scelta artistica. Ritengo che lavorare in maniera indipendente significhi lavorare anche indipendentemente dai finanziamenti e spesso bisogna avere il coraggio di sperimentare senza restare necessariamente legati all’aspetto economico. Questo è un lavoro voluto da me e realizzato artigianalmente, grazie soprattutto ad un impegno condiviso da tanti (attori, tecnici, storici, costumisti, artisti di altre discipline) che hanno offerto gratuitamente la propria opera.
Pensavo alla scena di quando il personaggio interpretato da Michele Di Cillo fa il bagno in un lago in Polonia, nella prima fase della Campagna di Russia: ci sono effetti speciali che lasciano intendere una ferita, ma mai in maniera didascalica, evitando di mostrare esplicitamente le scene di battaglia e del ferimento…
Come nei film horror: una volta che hai visto il mostro sai che cosa aspettarti. Più incisive sono spesso le immagini che non vedi nel film, ma che si formano nella mente, in poche parole: c’è la guerra, la violenza, la morte, ma non vediamo tutto ciò, bensì lo percepiamo…
La fotografia del film è molto ben studiata; per esempio nei dialoghi iniziali la luce proviene dalle spalle dei protagonisti e non permette di “leggere” perfettamente i loro volti: perché questa impostazione?
È una mia scelta di regia, un controluce che introduce gradualmente lo spettatore nella scena. Io sono di quei registi che preferiscono la luce naturale, quindi in una situazione del genere c’è solo la luce che filtra dalla finestra, luce naturale per tutto il film, non ho mai usato altre fonti artificiali. Ho girato il film con la stessa ottica, un 50 mm, il che tecnicamente comporta due cose: la prima è che tutto il film è coerente, hai cioè la stessa visione prospettica, la stessa aberrazione, ogni obiettivo ha una propria caratteristica, non usi di colpo un grandangolare, ma ti allontani usando sempre la stessa ottica. È sempre un discorso di distanza, quell’obiettivo ha un diaframma molto ampio e quindi riesco a far entrare molta luce che riduce la profondità di campo, il soggetto negli spazi corti quindi risalta, sono queste precise scelte stilistiche.
Parliamo della scena finale, senza svelarne il contenuto, ma solo il suo valore simbolico…
È l’ultimo smacco che l’umanità fa a se stessa, il fare la guerra, uccidere per qualsiasi motivo è abominevole e noi invece, nel corso dei secoli, l’abbiamo reso accettabile, plausibile con parole come eroismo, sacro, patria, onore… Il finale di fatto insinua una provocazione: c’è un’altra strada percorribile, essa conduce allo stravolgimento totale della cultura dominante.
William Mussini
Francesco Montano206 Posts
Nato a Campobasso nel 1984, laurea in Antropologia Culturale alla Sapienza. Collaboratore dal 2015. Ricerche a Lima, Roma e Campobasso. Pubblicazione relativa alla ricerca a Roma per la prevenzione e lo studio dei fenomeni di aggressività e bullismo: “la visione dei mondi nell’infanzia: rappresentazioni sociali bambine correlate alla costruzione della salute”; dal titolo: Narrazioni dall’infanzia su salute, corpo e amicizia. Ricerche etnografiche in tre scuole romane. Progetto realizzato grazie al contributo economico dell’istituto Montecelio, agenzia regionale per la comunicazione e la formazione; pubblicato a Roma nel 2009. Presentazione relativa alla ricerca a Lima: “Ananias: lotta all’abbandono scolastico mediante un programma di diagnosi e rieducazione per bambini/e con problemi di apprendimento”, realizzato dal CIES, in collaborazione con l’associazione peruviana Amigos de Villa, dipartimento di storia, culture, religioni – università degli studi di Roma “La Sapienza” e cofinanziato dal ministero Affari Esteri – DGCS e dalla regione Lazio. Roma 2012.
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