I nuovi ospedali e ora i nuovissimi
di Francesco Manfredi-Selvaggi
Quelli attuali sono in sostituzione dei vecchi, ma in futuro anch’essi andranno rinnovati
Lasciando da parte le strutture ospedaliere costruite prima della seconda guerra mondiale che sono il vecchio ospedale di Termoli, quello di Campobasso adibito ora a sede dell’Asrem (addirittura risalente, seppure rifatto ex-novo a seguito del terremoto del 1805, al XVI secolo sovrapponendosi al monastero di S. Maria delle Grazie, adibito anch’esso a funzioni sanitarie), quello di Isernia, forse quelli di Larino e di Venafro, gli ospedali molisani, i “nuovi” ospedali hanno un’età media ormai di mezzo secolo.
Un caso a sé è rappresentato da Agnone dove continua a funzionare l’ospedale storico, mentre quello nuovo è rimasto incompiuto. Quest’ultimo del quale sono stati realizzati solo il telaio e i solai è davvero grande, come del resto altre edificazioni ospedaliere moderne. Da un lato si potrebbe definire uno spreco il suo mancato completamento, ma, dall’altro, pensando alla sua datazione, risalente com’è agli anni 70, ormai remota, non è il caso di avere rimpianti perché anch’esso, similmente agli impianti ospedalieri coevi, avrebbe sofferto della difficoltà di adeguarsi alle esigenze di cura contemporanee.
Quasi tutti i nostri ospedali per la loro impostazione distributiva e tecnica, si pensi alla sicurezza sismica, devono, in qualche modo, essere aggiornati per stare al passo con le notevoli evoluzioni che si sono avute negli ultimi decenni in campo sanitario. Non è che siano obsolescenti, va precisato, ma, di certo, necessitano di un adeguamento tecnologico e funzionale e neanche è corretto dire che non siano stati fatti in questi anni interventi di miglioramento degli spazi e degli apparati fisici, oltre che del macchinario biomedico, finalizzati a raggiungere gli standard di assistenza ospedaliera attuali, ma essi si sono inseriti in una organizzazione, pure architettonica, impostata su una concezione dell’ospedale del passato, seppure recente, in parte superata.
Le azioni compiute si sono piuttosto addizionate le une alle altre, motivate a volte dall’urgenza, in assenza di un organico quadro di riferimento da seguire. Una porzione dei problemi, lo si è già accennato, deriva dall’età anagrafica degli ospedali, dalle scelte progettuali che vennero effettuate al momento della loro fondazione e che condizionano ancora oggi la vita che vi si svolge dentro, come, peraltro, accade per qualsiasi architettura. Non si deve credere, però, che se avessimo un ospedale tutto nuovo le cose, e per cose si intendono le attività, cambierebbero completamente; il rischio è che si riprodurrebbero, se non si afferma una differente mentalità, le metodiche lavorative in vigore adesso.
Tanto vale allora, fin quando non si modifica la visione sui servizi da offrire e sul sistema di erogazione, procedere alla riqualificazione invece che a costruire ex-novo ospedali. Ciò a prescindere dalla questione, non secondaria, della scarsità dei finanziamenti disponibili. È necessario imparare ad usare in maniera differente la struttura fisica adattando i percorsi assistenziali, che si andranno a definire in relazione agli avanzamenti della scienza medica alla configurazione spaziale. Una radicale trasformazione si imporrà quando, o meglio qualora si andassero a cambiare gli assetti organizzativi.
I nostri ospedali sono articolati in reparti e neanche per il prossimo futuro è previsto il loro raggruppamento in dipartimenti. È connaturata al modello dipartimentale la flessibilità delle strutture tanto intese come settori di attività mediche quanto in senso fisico. La suddivisione per reparti favorisce la specializzazione del personale sanitario e ciò è positivo, mentre è negativa la eccessiva parcellizzazione, per così dire, del sapere accentuata da processi di “filiazione” che portano, mettiamo, la cardiologia a ripartirsi in più unità, dall’emodinamica alla cardiodiagnostica.
La logica dei dipartimenti, nonostante che anch’essi siano articolati per specialità mediche, seppure ad una scala superiore a quella dei reparti, è profondamente differente. Per spiegare tale differenza bisogna far riferimento a qualcosa di concreto come potrebbe essere l’iter seguito dall’ammalato di tumore che nella fase diagnostica e in quella terapeutica rimane sotto la responsabilità del medesimo clinico il quale gestisce, per quel caso, il percorso sanitario in maniera trasversale ai professionisti preposti alla diagnosi e alla cura che devono integrarsi fra di loro, superando la strutturazione gerarchica, sia la logistica (dal posto letto fino alla seduta chemioterapica).
Per ogni patologia potrebbe essere disegnato uno specifico percorso. L’istituzione dei dipartimenti aiuta a fare ciò in quanto si associa ad un modo di lavorare in cui è insita l’idea di integrazione, integrazione che va perseguita pure tra dipartimenti diversi ai quali, rimanendo al caso esposto, fanno capo di solito l’area diagnostica e l’area terapeutica. In definitiva, il dipartimento costituisce una forte innovazione nell’organizzazione ospedaliera che si dovrà tradurre anche in una diversa disposizione spaziale. Ribadendo quanto affermato prima, in attesa di ospedali appositamente concepiti, rimanendo, dunque, in uso gli impianti ospedalieri esistenti è con essi che bisogna confrontarsi per il loro adattamento funzionale all’impostazione dipartimentale.
Vi sono, in effetti, margini per adattare la disposizione interna di manufatti in cemento armato a nuove funzioni in quanto è facile modificare le partizioni dei locali, trattandosi di semplici divisori e non setti portanti i quali costituiscono l’ossatura delle vecchie strutture ospedaliere; per queste ultime è difficile ipotizzare riconversioni tali da soddisfare le esigenze curative del giorno d’oggi e, per fortuna che esse sono collocate dentro gli abitati, a differenza dei nuovi ospedali, per cui è facile immaginare altre funzioni.
Finora si è parlato di innovazioni organizzative, ma altrettanto importanti sono quelle tecnologiche le quali pure determinano trasformazioni significative nell’assetto distributivo di un ospedale. L’evoluzione delle tecnologie biomedicali è caratterizzata, essendo dipendente dalla ricerca i cui esiti, per antonomasia, non sono preventivabili, da un alto tasso di imprevedibilità, oltre che essere improvvisa, per cui è abbastanza arduo starci dietro in termini di adeguamento del layout architettonico. Una strumentazione diagnostica multifunzionale, ad esempio, rende superate le macchine per diagnosi destinate ai singoli esami con vantaggio rilevante rispetto al tema del recupero di superficie utile che si rende libera per l’eliminazione di laboratori superflui e non solo.
Francesco Manfredi Selvaggi645 Posts
Nato a Boiano (CB) nel 1956. Ha conseguito la Maturità Classica a Campobasso e poi la laurea in Architettura a Napoli nel 1980. Presso la medesima Università ha conseguito il Diploma di Perfezionamento in Storia dell’Arte Medievale e Moderna e il Diploma di Perfezionamento in Restauro dei Monumenti. È abilitato all’esercizio della professione di Architetto e all’insegnamento di Storia dell’Arte nei licei e Educazione Tecnica nelle scuole medie. Dal 1997 è Dirigente, con l’attribuzione di responsabilità nei servizi Beni Ambientali (19 anni), Protezione Civile, Urbanistica, Sismica, Ambiente. Ha avuto un ruolo attivo in associazioni ambientaliste quali Legambiente Molise, Italia Nostra sezione di Campobasso e Club Alpino Italiano Delegazione del Molise. Ha insegnato all’Università della Terza Età del Molise ed è stato membro del Consiglio di Amministrazione della Fondazione dell’Ordine degli Architetti di Campobasso, occupandosi all’interno dello stesso del progetto di Archivio dell’Architettura Contemporanea. È Giornalista Pubblicista e autore di articoli, saggi e del volume La Formazione Urbanistica di Campobasso. Le ultime pubblicazioni sono: «Le Politiche Ambientali nel Molise» (2011) e «Problemi di tutela ambientale in Molise» del 2014.
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