Orientarsi in ospedale
di Francesco Manfredi-Selvaggi
Per le notevoli dimensioni della struttura i percorsi sono molto lunghi. Essi connettono le numerose funzioni che compongono l’organismo ospedaliero
È proprio difficile progettare un ospedale. Esso, infatti, è un organismo molto complesso comprendendo al suo interno uno svariato numero di funzioni, ciascuna delle quali ha proprie esigenze spaziali. Si è detto delle funzioni, ma iniziamo non trattando queste bensì le componenti che le tengono insieme, cioè i percorsi. Contraddicendo, in qualche modo, quanto si è appena annunciato cominciamo dall’esaminare le soluzioni alternative ai collegamenti lineari, in verità una sola alternativa che è la “piazza” coperta; essa è un modo di congiunzione delle articolazioni funzionali della struttura del tipo areale.
Nel Molise abbiamo l’esempio dell’atrio della Cattolica il quale costituisce, oltre che un luogo di incontro, il fulcro distributivo del nosocomio. Tale atrio è un vasto ambiente a tutta altezza che figurativamente rimanda alle grandi gallerie urbane ottocentesche (es. quelle di Napoli e quella di Milano). È una sorta di padiglione d’ingresso che ha una autonomia formale rispetto al resto del fabbricato sottolineata anche dal fatto che si presenta come un volume a sé stante che fuoriesce quasi fosse semplicemente accostato, dal corpo principale dell’ospedale.
I vantaggi che si colgono sono quelli di una facilità di orientamento per frequentatori dell’istituto sanitario e di riduzione dei corridoi a volte veri e propri labirinti. Poiché gli ospedali, pure i nostri, sono planimetricamente, almeno ai livelli più bassi, assai estesi le percorrenze hanno lunghezze notevoli; nel Cardarelli si ha un camminamento davvero tortuoso per raggiungere dall’ingresso gli ascensori che portano ai reparti. Nel suo sviluppo il percorso non è affiancato da servizi i quali potrebbero renderlo interessante alla stregua di una strada interna poiché questi, l’ufficio prenotazioni, il bar, la cappella, sono tutti concentrati all’entrata.
Appare come un percorso unidirezionale indirizzato com’è quasi esclusivamente al blocco elevatori meccanici-scale senza che nel suo svolgimento si incontrino diramazioni per servire sezioni dell’ospedale (salvo un paio di casi). Si potrebbe conferire gradevolezza al cammino arricchendo le pareti che lo contornano pressoché libere da porte con opere d’arte magari di artisti locali. In impianti architettonici così grandi come sono gli ospedali è pressoché inevitabile che si abbiano corridoi, più o meno larghi, di estensione consistente, a meno che non si adottino schemi di distribuzione delle funzioni centralizzati come quello impiegato nella Cattolica.
I disagi sono sia per il personale, sia per i pazienti sia per i visitatori. Non sono immaginabili, per gli alti costi, tapis roulant, mentre sono fattibili sistemi di trasporto automatico per ogni tipo di materiale, dai medicinali ai pasti alla biancheria che potrebbero viaggiare in appositi condotti. Le distanze ridotte servono a risparmiare pure sulle canalizzazioni impiantistiche. È comunque da evidenziare che il tema dell’atrio non è del tutto in antitesi a quello dei percorsi poiché questi ultimi devono necessariamente confluire in un medesimo punto, l’accesso all’ospedale che è unico (almeno quello per il pubblico e i malati, se non per il personale medico e infermieristico, all’emergenza essendo d’obbligo riservare un’entrata autonoma).
Smentendo ancora ciò di cui si è parlato nell’incipit ci si sofferma su un ulteriore elemento, in verità più di uno, connettivo dell’apparato ospedaliero che è il patio. Intorno ai patii che sono fonti di luce si sviluppano le unità sanitarie. Essi insieme all’illuminazione assicurano l’areazione naturale la quale contribuisce ad avere condizioni igieniche idonee all’interno e, quindi, a ridurre i rischi d’infezione che minacciano la vita ospedaliera. Per tale motivo queste corti non possono essere troppo ristrette altrimenti non si ha circolazione d’aria; è la ventilazione che consente di evitare il ristagno dei miasmi.
Non hanno, dunque, la proporzione dei cavedi nonostante che questi vuoti li richiamano perché non sono frequentabili dalle persone. Non possono essere, d’altra parte, neanche troppo vasti alla stregua di autentici cortili, in quanto si dilaterebbe la superficie di piano, determinando l’allontanamento delle funzioni e il conseguente incremento dei percorsi che le tengono insieme. I patii, beninteso, sono presenti quando il nosocomio ha un prevalente sviluppo orizzontale il quale è un ostacolo al bisogno di illuminare naturalmente gli ambienti che stanno al centro.
Infine, si evidenzia l’apporto che forniscono i patii all’immagine del fabbricato perché cavità che alleggeriscono la imponente massa edificata dell’ospedale specie in una veduta dall’esterno (è ovvio, dall’alto). Con l’esclusione dei reparti di degenza che hanno una necessità di collocazione specifica, il resto delle attività sanitarie è bene che sia disposto ad un medesimo livello poiché ciò facilita, mettendo in contatto le funzioni, la comunicazione fra le parti. Inoltre con una disposizione in orizzontale delle stesse si ha l’economicità di funzionamento dell’ospedale con l’abbattimento delle spese di gestione per la minimizzazione degli spostamenti, la compattazione degli impianti, ecc.
Da non trascurare il fatto che se le unità funzionali sono situate sullo stesso piano è più facile non dovendo andare sopra e sotto, per i visitatori e per i ricoverati orientarsi. Questa è una cosa non da poco nell’ottica di rendere l’ospedale una struttura accogliente per gli ammalati, per chi va a fare loro visita e pure per chi ci lavora. L’ospedale non va inteso quale “macchina per guarire”, finalizzata esclusivamente alla somministrazione di cure mettendo in secondo piano il benessere psicofisico degli ospiti. Come si è visto pur partendo dall’assunto che le funzioni sanitarie sono gli input determinanti della progettazione ospedaliera si è proceduto ad approfondire l’analisi delle cosiddette condizioni al contorno (percorsi, patii, sviluppo planimetrico) che le supportano e ne consentono lo svolgimento.
Francesco Manfredi Selvaggi637 Posts
Nato a Boiano (CB) nel 1956. Ha conseguito la Maturità Classica a Campobasso e poi la laurea in Architettura a Napoli nel 1980. Presso la medesima Università ha conseguito il Diploma di Perfezionamento in Storia dell’Arte Medievale e Moderna e il Diploma di Perfezionamento in Restauro dei Monumenti. È abilitato all’esercizio della professione di Architetto e all’insegnamento di Storia dell’Arte nei licei e Educazione Tecnica nelle scuole medie. Dal 1997 è Dirigente, con l’attribuzione di responsabilità nei servizi Beni Ambientali (19 anni), Protezione Civile, Urbanistica, Sismica, Ambiente. Ha avuto un ruolo attivo in associazioni ambientaliste quali Legambiente Molise, Italia Nostra sezione di Campobasso e Club Alpino Italiano Delegazione del Molise. Ha insegnato all’Università della Terza Età del Molise ed è stato membro del Consiglio di Amministrazione della Fondazione dell’Ordine degli Architetti di Campobasso, occupandosi all’interno dello stesso del progetto di Archivio dell’Architettura Contemporanea. È Giornalista Pubblicista e autore di articoli, saggi e del volume La Formazione Urbanistica di Campobasso. Le ultime pubblicazioni sono: «Le Politiche Ambientali nel Molise» (2011) e «Problemi di tutela ambientale in Molise» del 2014.
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