Curarsi in proprio
di Francesco Manfredi-Selvaggi
Non nel senso di rifiutare l’assistenza medica, cure fai da te, ma in quello di non servirsi delle strutture pubbliche per curarsi, optando di pagare di tasca propria la prestazione sanitaria erogata da organismi privati scelti autonomamente. Un ausilio all’adempimento dei Livelli Essenziali di Assistenza.
Nel ’92 nel nostro Paese si avviò la riforma del sistema sanitario che fu sancita dalla modifica della Costituzione del 2001 con la quale si è avuto il trasferimento di competenze alle amministrazioni regionali, o meglio, la compartecipazione tra lo Stato e le Regioni delle responsabilità; conseguenza di ciò è stato l’incrementarsi delle differenze all’interno del territorio nazionale con governi della sanità nelle varie Regioni non omogenei fra loro. Tanto sono diversi che diventa pure difficile metterli a confronto. Vi sono marcate disuguaglianze che penalizzano le realtà regionali più deboli.
Per cercare di colmare le distanze che separano le zone più sviluppate da quelle meno dotate in materia di salute l’autorità statale è intervenuta imponendo i Livelli Essenziali di Assistenza, un’articolazione dei LEP (P sta per prestazione) che sono compito precipuo del livello centrale il quale deve garantire a tutti i cittadini uguali servizi. La determinazione dei LEA, proprio per quanto detto prima sulla diversità della struttura sanitaria regionale, costituisce, in qualche modo, la definizione di una sorta di minimi comuni multipli, obblighi di assistenza ai quali le Regioni devono adempiere. In altri termini, i LEA costituiscono obiettivi vincolanti per i servizi sanitari regionali i quali per raggiungerli sono comunque autonomi nel come fare, nel modello organizzativo da adottare.
Un’autonomia non totale, però, poiché i LEA si rivolgono pure ai profili strumentali all’erogazione delle cure definendo in scala macro l’organigramma assistenziale, divisa nell’area ospedaliera, in quella distrettuale, in quella domiciliare e così via, cui le Regioni non possono discostarsi, bensì articolare in relazione alle specifiche esigenze del proprio territorio. Quasi che non si possa prescindere nella definizione dei LEA dagli aspetti, per così dire, pratici come sono quelli della gestione dell’assistenza: il diritto alla salute, in definitiva, si deve misurare con le capacità gestionali e, con uno scontato passaggio logico, con le risorse finanziarie a disposizione.
Tornando al punto dei LEA quali minimi comuni multipli è da intendersi che va assicurato all’utente un servizio di qualità accettabile, non del grado massimo assoluto. Annualmente, il Ministero della Sanità che ha il compito del monitoraggio richiede la compilazione di apposite schede da parte delle Regioni per verificare l’effettiva erogazione dei LEA limitandosi alla conoscenza della quantità delle prestazioni erogate e non del loro livello qualitativo. Forse sarebbe opportuno, magari attraverso un’indagine campionaria, effettuare la rilevazione della soddisfazione, utilizzando un temine del linguaggio delle tecniche di marketing, dei clienti.
Questi ultimi sono i pazienti che essendo i fruitori diretti delle prestazioni sono ben capaci di valutarle. Un diverso indicatore della soddisfazione dei cittadini è il dato sul numero di persone che scelgono di farsi curare a pagamento. Non rappresentano, secondo una lettura fondata su tale considerazione, i LEA un insieme di servizi di valenza sufficiente, mentre a difesa dei LEA si afferma il contrario e cioè che le prestazioni ivi previste sono qualitativamente appropriate e chi si rivolge al di fuori del sistema sanitario pubblico lo fa perché vuole qualcosa di diverso, non necessariamente migliore.
Di certo è che il 30% di quanto si spende per la salute riguarda le erogazioni assistenziali fornite dai privati e qui non stiamo parlando dei soggetti accreditati la cui attività è rimborsata dalle Regioni. Si paga di tasca propria, pressoché la generalità della popolazione, le cure dentistiche e le visite ginecologiche ed è proprio nel campo delle viste specialistiche che si ha il ricorso alla sanità privata non convenzionata con il pubblico. A totale carico delle famiglie vi sono, poi, i ricoveri in appositi centri residenziali di colui che è disabile o solo non autosufficiente; è ridotto il ricorso a istituti ospedalieri che non rientrano nella rete del servizio sanitario regionale.
Se si va in ospedali privati, anche collocati fuori regione è per sottoporsi ad operazioni chirurgiche che, una volta effettuate, si immaginano risolutive della patologia e non si è dell’opinione, per malattie croniche (non vi è, lo si avverte, una definizione condivisa di cronicità) le quali comportano fasi di ricovero, in genere più di uno, prestazioni ambulatoriali, trattamenti farmacologici, degenza, presso il proprio domicilio. Quando si sceglie di ricoverarsi presso l’ospedale dell’Asl di appartenenza è, inoltre, per la vicinanza al luogo di residenza, oltre, ovviamente, alla considerazione che non vi sono spese da sostenere; se pure fosse esclusivamente per il fatto che nelle “corsie” delle strutture pubbliche troviamo ricoverati in gran numero i componenti dei ceti svantaggiati, per il principio di equità, è indispensabile che l’offerta dell’ospedalità pubblica sia alla pari con quella privata, migliorando l’attrattività in termini di livello di assistenza reale percepito.
Al privato così come agli enti ospedalieri extraregionali ci si rivolge, in aggiunta, quando le liste di attesa presso l’ospedale regionale sono troppo lunghe e ciò avviene, specialmente, se l’intervento da eseguire ha carattere di urgenza. È da dire che per accorciare i tempi di attesa una soluzione, non certamente, comunque, risolutiva, sarebbe quella di contingentare le visite che si svolgono in regime di intramoenia. È cosa difficile da attuarsi da malato, e dall’altra quello del diritto alla salute, lesiva degli interessi di quanti vogliono avvalersi della possibilità di ricevere un trattamento assistenziale ritenuto migliore, assumendosene il costo. In generale, la competitività è positiva spingendo gli organismi sanitari a migliorare le loro performances; se, invece di adottare il punto di vista degli erogatori ci si mette nei panni di un cittadino non è giusto limitare la facoltà di scelta del posto in cui curarsi.
Due precisazioni finali: i servizi a pagamento (la denominazione out of pocket usata a scala internazionale ci fa capire che sono diffusi nel mondo) non vanno confusi con quelli erogati dagli istituti privati accreditati e che chi è molto anziano è esente dal ticket per cui la differenza di spesa rispetto a individui di altra età accedendo all’out of pocket maggiore. L’out of pocket sgrava dall’incombenza di prestare cure in qualche modo il servizio pubblico che è in affanno specie nelle regioni in disavanzo e permette formalmente di essere adempiente ai LEA.
Francesco Manfredi Selvaggi645 Posts
Nato a Boiano (CB) nel 1956. Ha conseguito la Maturità Classica a Campobasso e poi la laurea in Architettura a Napoli nel 1980. Presso la medesima Università ha conseguito il Diploma di Perfezionamento in Storia dell’Arte Medievale e Moderna e il Diploma di Perfezionamento in Restauro dei Monumenti. È abilitato all’esercizio della professione di Architetto e all’insegnamento di Storia dell’Arte nei licei e Educazione Tecnica nelle scuole medie. Dal 1997 è Dirigente, con l’attribuzione di responsabilità nei servizi Beni Ambientali (19 anni), Protezione Civile, Urbanistica, Sismica, Ambiente. Ha avuto un ruolo attivo in associazioni ambientaliste quali Legambiente Molise, Italia Nostra sezione di Campobasso e Club Alpino Italiano Delegazione del Molise. Ha insegnato all’Università della Terza Età del Molise ed è stato membro del Consiglio di Amministrazione della Fondazione dell’Ordine degli Architetti di Campobasso, occupandosi all’interno dello stesso del progetto di Archivio dell’Architettura Contemporanea. È Giornalista Pubblicista e autore di articoli, saggi e del volume La Formazione Urbanistica di Campobasso. Le ultime pubblicazioni sono: «Le Politiche Ambientali nel Molise» (2011) e «Problemi di tutela ambientale in Molise» del 2014.
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