Ospedale a 3 stelle

di Francesco Manfredi-Selvaggi

L’attribuzione di un punteggio sulla qualità, anche architettonica dell’ospedale, qualcosa di simile a ciò che già esiste per gli alberghi, stimola il miglioramento della struttura da parte dei gestori.

La normativa nazionale fissa i requisiti che le strutture ospedaliere devono possedere in termini “strutturali, tecnologici, impiantistici e organizzativi”, termini, appunto, usati nella direttiva statale, requisiti minimi che le Regioni hanno facoltà di renderli più restrittivi o, perlomeno, di specificarli in relazione alle aspettative di servizi sanitari del proprio territorio. In altri termini le amministrazioni regionali, possono introdurre ulteriori prescrizioni per ottenere standard di qualità superiori, valide tanto per gli ospedali pubblici che per quelli privati che intendono conseguire l’“accreditamento”, obbligatorio per l’esercizio dell’attività di cura.

Ne consegue una differenziazione dei parametri da tenere in conto da parte delle aziende sanitarie a seconda delle regioni dove hanno sede; di fronte a questa situazione di diversificazione delle regole da rispettare c’è chi auspica la creazione di un’entità unica preposta alle procedure di accreditamento e, quindi, disposizioni uguali per tutta la penisola. Si è dell’opinione che convenga mantenere l’autonomia delle regioni in questo campo le quali nel redigere il regolamento per l’accreditamento tengono in conto la realtà delle organizzazioni assistenziali nel senso che alcune misure possono andare bene per apparati di consistenti dimensioni (i complessi ospedalieri romani) che, invece, in quell’area non esistono né sono ipotizzabili (gli ospedali molisani).

Un’annotazione marginale a proposito della taglia degli istituti di cura è che con un decreto ministeriale del 2015 è stata introdotta una soglia di “accreditabilità” per le cliniche private di 60 posti letto, al di sotto della quale ad esse non è consentito stipulare convenzioni con il servizio sanitario regionale; per le strutture pubbliche il limite è di 120 posti letto. L’unificazione per l’intero Paese delle caratteristiche qualitative degli organismi ospedalieri per potersi accreditare non è, lo si è detto, auspicabile, mentre sarebbe opportuno l’attribuzione di un punteggio per misurare di quanto essi si avvicinano al livello di pregio ottimale, una sorta di attribuzione di stelle come si fa per gli alberghi.

È da precisare che ciò non avrebbe senso se ci si riferisse solamente alla scala regionale. Di seguito, si offrono alcuni spunti per stabilire il grado di valore degli interni architettonici. Un primo tema è quello della luce che deve essere naturale. Bisogna garantire il più possibile l’illuminazione naturale che significa anche il soleggiamento; in questo modo si concorre al benessere psicologico dei pazienti i quali possono godere della vista dell’ambiente circostante e, se a letto, del cielo e, nello stesso,tempo, si contribuisce al risparmio energetico riducendo il ricorso ai sistemi di condizionamento e di illuminazione artificiale.

La luce proveniente dall’esterno è benefica non solo per le stanze di degenza, ma pure per gli ambulatori, di solito ospitati in locali privi di aperture, fatto che li rende opprimenti; per essi può essere sufficiente la luce fornita dalle corti presenti all’interno dell’ospedale. L’illuminazione diretta è preferibile, salvo a modularne l’ingresso nelle ore più calde e nella stagione estiva senza dover ricorrere alla ventilazione artificiale per refrigerare gli spazi. Occorrono, pertanto, infissi abbastanza sofisticati, dalle finestre a taglio termico per impedire la dispersione di calore ai frangisole comandati automaticamente.

Un’altra tematica è quella dei corridoi che nelle strutture ospedaliere, poiché grandi, sono solitamente lunghissimi. Sono intesi, il più delle volte, alla stregua di semplici condotti destinati al transito delle persone il che li rende noiosi, se non addirittura alienanti. Ci passa tantissima gente durante la giornata per raggiungere i parenti o amici ricoverati, per sottoporsi ad esami diagnostici, per ricevere visite specialistiche con passo spedito, senza effettuare soste per riposarsi nonostante la lunghezza del percorso da compiere e, pertanto, vengono visti quasi in modo ostile.

Potrebbero essere definiti i corridoi, per qualche verso, un non-luogo, l’assenza di alcuna caratterizzazione spaziale e, invece, i corridoi si prestano ad essere dei momenti (almeno dei momenti, cioè orari in cui sono ammessi i visitatori) significativi della vita dell’ospedale, arricchendo l’esperienza che si fa della frequentazione dello stesso. Sulle pareti di questi elementi connettivi soggetti a così intenso transito andrebbero disposte delle opere d’arte, non delle riproduzioni delle stampe di paesaggi per renderli piacevoli e non esclusivamente un fatto funzionale.

Ovviamente si sta parlando dei camminamenti destinati ai visitatori o a coloro che devono essere sottoposti a controlli medici oppure che devono fare analisi cliniche, i quali sono indipendenti da quelli degli ammalati. Le percorrenze di quanti vengono a trovare i degenti sono autonome da quelle degli ospiti del nosocomio nel tratto che va dall’entrata del nosocomio fino al blocco scala e ascensori, mentre nell’ambulacro del reparto diventano miste e qui i movimenti si rallentano lasciando più tempo all’osservazione delle immagini poste lateralmente.

Un ulteriore punto critico che si associa naturalmente a quello appena esposto è l’ingresso dell’ospedale il quale può essere considerato il fulcro di tutto l’organismo, dal quale si diramano i vari percorsi, seguendo uno schema più o meno ad albero. L’entrata è un episodio estremamente rilevante tanto più perché è unico; la sua unicità dipende dall’esigenza di controllare gli accessi e, così, proteggere l’intimità, se non addirittura l’incolumità dei malati (vi sono porte secondarie, di servizio, per i materiali). Nella Fondazione Giovanni Paolo II il passaggio dal fuori al dentro è mediato, e esaltato, da una vasta hall che ha un’altezza pari a 2 piani.

Un vano molto grosso, dunque, in cui è difficile il mantenimento di un clima costante ed assicurare il ricambio d’aria, ma ne vale la pena perché la piazza con tanto di fontana che in essa è racchiusa è davvero gradevole, rendendo la permanenza degli assistiti dentro la struttura sanitaria, se non piacevole (sarebbe troppo!) perlomeno non triste. La facciata di questa entrata è costituita da una superficie a vetro la quale viene a costituire, per le sue dimensioni, il “segno” che connota il manufatto architettonico; occorrono appositi dispositivi, del tipo tende, per evitare la dissipazione termica dovuta alla vetrata ed assicurare la temperatura confacente ad un soggiorno di individui che vi sostano in vestaglia.

Francesco Manfredi Selvaggi645 Posts

Nato a Boiano (CB) nel 1956. Ha conseguito la Maturità Classica a Campobasso e poi la laurea in Architettura a Napoli nel 1980. Presso la medesima Università ha conseguito il Diploma di Perfezionamento in Storia dell’Arte Medievale e Moderna e il Diploma di Perfezionamento in Restauro dei Monumenti. È abilitato all’esercizio della professione di Architetto e all’insegnamento di Storia dell’Arte nei licei e Educazione Tecnica nelle scuole medie. Dal 1997 è Dirigente, con l’attribuzione di responsabilità nei servizi Beni Ambientali (19 anni), Protezione Civile, Urbanistica, Sismica, Ambiente. Ha avuto un ruolo attivo in associazioni ambientaliste quali Legambiente Molise, Italia Nostra sezione di Campobasso e Club Alpino Italiano Delegazione del Molise. Ha insegnato all’Università della Terza Età del Molise ed è stato membro del Consiglio di Amministrazione della Fondazione dell’Ordine degli Architetti di Campobasso, occupandosi all’interno dello stesso del progetto di Archivio dell’Architettura Contemporanea. È Giornalista Pubblicista e autore di articoli, saggi e del volume La Formazione Urbanistica di Campobasso. Le ultime pubblicazioni sono: «Le Politiche Ambientali nel Molise» (2011) e «Problemi di tutela ambientale in Molise» del 2014.

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