Non uno, ma poli ambulatori
di Francesco Manfredi-Selvaggi
Gli ambulatori devono diventare più grandi per consentire loro di fornire prestazioni più complesse. Nel settore pubblico gli ambulatori extra ospedalieri sono raggruppati insieme a costituire prima poliambulatori e oggi Case della Salute; la differenza tra queste due ultime strutture sanitarie è che nelle seconde sono previsti anche posti di degenza.
Vi sono due possibili strategie nella programmazione delle attività ambulatoriali che sono, la prima, quella di una diffusione delle sedi in cui svolgerle nel territorio e, la seconda, quella della loro concentrazione in pochi punti. Si tende, comunque, sia nell’una sia nell’altra visione a raggruppare nello stesso ambulatorio, il quale allora si chiama poliambulatorio, il maggior numero di branche mediche. Per ogni singola branca occorre un ambulatorio grande: questo è quello che vuole il servizio sanitario nazionale e, a cascata, regionale che consente alle aziende private di convenzionarsi con il pubblico solo se superano una certa dimensione.
I piccoli laboratori gestiti da un unico biologo, per intenderci, sono destinati a scomparire. Del resto, ciò è un processo ineluttabile perché le nuove tecnologie delle quali occorre dotarsi sono molto costose e per ammortizzare il loro acquisto serve una consistente quantità di prestazioni da erogarsi. Oggi i servizi diagnostici, una tra le attività ambulatoriali più comuni, richiedono attrezzature di notevole livello tecnologico, per stare al passo con gli avanzamenti della scienza. Si pensi a tale proposito alla diagnostica per immagini (Rx, TAC, Ecografia, ECG, ecc.).
Il peso più rilevante, però, negli ambulatori è quello delle analisi di laboratorio, di tipo chimico quanto microbiologico che costituiscono l’80% delle prestazioni eseguite, contro il 5% delle diagnosi per immagini. Meno impegnativo in termini di macchinari biomedicali è un altro settore tradizionale degli ambulatori che è costituito dalle visite specialistiche, le quali potrebbero svolgersi pure a domicilio, cioè con il medico che raggiunge la casa del paziente; l’assistenza domiciliare sta, peraltro, sempre più, prendendo piede, eseguendosi in loco, in alternativa ai punti deputati, i prelievi, il monitoraggio della pressione, anche con l’holter, e l’imaging leggero, i raggi X e l’esame ecografico.
Per le tecniche diagnostiche pesanti (in contrapposizione a leggero), invece, come le risonanze magnetiche e le TAC non bastano neanche i presidi ambulatoriali ordinari necessitando di personale di alta qualificazione, oltre che trattandosi di macchinari di prezzo elevato. La specialistica ambulatoriale comprende prestazioni in campo riabilitativo e la somministrazione di terapie, le quali, medicina fisica e riabilitazione, rappresentano il 4% del totale del lavoro svolto negli ambulatori. Le percentuali che si sono riportate sopra sono destinate a cambiare progressivamente per via del processo di deospedalizzazione in corso diventando ambulatoriali quelle che adesso sono prestazioni ospedaliere.
All’interno della logica aziendale di una ASL l’ambulatorio assurgerà ad un ruolo primario. Prestazioni, comprese delle chirurgiche, vengono trasferite in regime ambulatoriale per cui gli ambulatori hanno facoltà di attivare tra l’offerta di discipline anche la chirurgia. Un’evoluzione ulteriore degli ambulatori non ospedalieri e perciò dei poliambulatori, è la creazione, prevista dal POS, piano operativo straordinario, della nostra regione delle Case della Salute le quali rispondono ad un diverso modello di assistenza territoriale che non si limita ai servizi ambulatoriali, ma che include, nel medesimo ambito, la degenza.
Fatta salva quest’ultima le prestazioni ambulatoriali corrispondono a quelle indicate in un decreto ministeriale del 1996 che ne elenca ben 1702. Alle Regioni è permessa l’erogazione di prestazioni aggiuntive e qui da noi così sono diventate 1732. Tale numero coincide con il 2% in più di quelle fissate a scala nazionale, ben poca cosa se confrontato con le percentuali della Lombardia, il 20%, del Veneto, il 25%, delle Marche, il 31%, fino a quella dell’Emilia Romagna che è il 34%. Il Molise, va detto, essendo una Regione in Piano di Rientro, allo stesso modo delle altre nell’identica situazione, non poteva proprio andare oltre.
Discorso analogo vale per le tariffe associate alle prestazioni sempre da quel DM del ’96 che si denomina Nomenclatore. Alle prestazioni è annesso il tariffario: le amministrazioni regionale in PdR hanno generalmente adottato le tariffe massime ministeriali. L’obiettivo del contenimento della spesa viene perseguito anche attraverso i controlli sulle tariffe applicate dagli “erogatori”, in particolare quelli privati, da parte della Regione prima di procedere al rimborso. Si è rilevato attraverso le verifiche condotte che i comparti nei quali c’è un rischio di non “appropriatezza” delle prestazioni svolte sono le visite degli specialisti, il laboratorio analisi, la terapia fisica strumentale, i farmaci della fascia economicamente superiore.
L’inappropriatezza delle prestazioni dipende a volte dall’inappropriatezza delle prescrizioni dei medici di base o dei medici specialisti e, non è esclusa, proprio dall’ampiezza del ventaglio delle prestazioni offerte che rende difficile individuare con precisione nel Nomenclatore la prestazione da inserire in ricetta, potendo succedere che una certa analisi clinica sia definibile in differenti modi o che sia a cavallo tra due tipologie di prestazioni contenute in questo documento.
In definitiva, riprendendo il filo del discorso che è quello se è opportuno disseminare gli ambulatori nel contesto territoriale oppure se puntare alla formazione di entità dimensionalmente consistenti, che è inevitabile siano in termini numerici limitate, è da riconoscersi che la complessità delle funzioni assegnate all’ambulatorio impone che esso abbia una adeguata taglia che, per via del deficit finanziario in cui versa la sanità molisana, non riusciamo a garantire ovunque.
Francesco Manfredi Selvaggi633 Posts
Nato a Boiano (CB) nel 1956. Ha conseguito la Maturità Classica a Campobasso e poi la laurea in Architettura a Napoli nel 1980. Presso la medesima Università ha conseguito il Diploma di Perfezionamento in Storia dell’Arte Medievale e Moderna e il Diploma di Perfezionamento in Restauro dei Monumenti. È abilitato all’esercizio della professione di Architetto e all’insegnamento di Storia dell’Arte nei licei e Educazione Tecnica nelle scuole medie. Dal 1997 è Dirigente, con l’attribuzione di responsabilità nei servizi Beni Ambientali (19 anni), Protezione Civile, Urbanistica, Sismica, Ambiente. Ha avuto un ruolo attivo in associazioni ambientaliste quali Legambiente Molise, Italia Nostra sezione di Campobasso e Club Alpino Italiano Delegazione del Molise. Ha insegnato all’Università della Terza Età del Molise ed è stato membro del Consiglio di Amministrazione della Fondazione dell’Ordine degli Architetti di Campobasso, occupandosi all’interno dello stesso del progetto di Archivio dell’Architettura Contemporanea. È Giornalista Pubblicista e autore di articoli, saggi e del volume La Formazione Urbanistica di Campobasso. Le ultime pubblicazioni sono: «Le Politiche Ambientali nel Molise» (2011) e «Problemi di tutela ambientale in Molise» del 2014.
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