“THE AMERICANS” di ROBERT FRANK
L’altro volto dell’america
Nella triste occasione della dipartita del grande artista statunitense, ripubblichiamo un articolo di Marinella Ciamarra realizzato a margine della presentazione del volume “The americans – l’altro volto dell’America” realizzata a febbraio 2015 a cura del centro per la fotografia Vivian Maier
di Marinella Ciamarra
C’era una volta Tom Waits che leggeva a perdifiato i poeti Beat. Che faceva risuonare Kerouac nei suoi versi, nelle sue scale blues, nella sua America dolente di perdenti ed emarginati. I battutti rain dogs di bettole e bordelli. Quelli di DeAndrè, anche.
“Well, I’m walking on down Virginia Avenue/ Trying to find somebody to tell my troubles to. /Harold’s club is closing, and everybody’s going on home:/ What’s a poor boy to do?[…] ”
Lo spirito di Kerouac è in una delle sue case, il motel Tropicana, frequentato da musicisti come Jim Morrison e Janis Joplin (nel suo ultimo viaggio) e in futuro dagli Eagles, Tom Petty, Stenie Nicks, Lindsey Buckingham e Ramones. Droga e sesso selvaggio. Dove Handy Warhol ambienta il suo film Heat. È l’America cantata, gridata, graffiata dalla sua voce roca e arcana come una corrispondenza che viene dal profondo.
È la stessa America vissuta per immagine dal fotografo Robert Frank nel suo libro “The Americans”, nato alla fine degli anni ’50. Frank scardina l’America borghese, patinata, moralista, mostrando con le sue foto l’altra faccia della medaglia del sogno americano, fatta di vagabondi, stazioni di servizio, sobborghi e sottoculture. Anche lui, come Waits, ama i poeti beat. Stringe una salda amicizia con Kerouac, sia umana che professionale. Nel 1958 fanno un viaggio on the road insieme, verso la Florida, e Kerouac gli scrive l’introduzione per l’edizione americana al libro The Americans.
Il 15 febbraio scorso, un’attenta e interessata platea, presso il centro culturale Ex Onmi di Campobasso, ha avuto il piacere di calarsi tra le pagine del libro del fotografo Robert Frank, magistralmente presentato con competenza e passione dal giornalista e critico fotografico Sandro Jovine, già redattore presso la Editrice Reflex e direttore a Milano della rivista “Il Fotografo”. Forte della sua esperienza di docente di Storia della Fotografia a Roma presso l’ISFCI e di Fotogiornalismo e Comunicazione visiva presso la John Kaverdash Accademia di Fotografia, Sandro Jovine ha illustrato la trama intessuta dalle splendide foto di Frank, con richiami, per analogia o opposizione, a volte evidenti a volte meno, e che vanno a costituire una sorta di romanzo in bianco e nero della storia dell’America. Quella “altra”, quella di Tom Waits e di Kerouac, o di Charlie Parker, “The bird”, che con le sue note bebop è la linfa vitale e modello di riferimento di poeti come Lucien Carr, Allen Ginsberg, William Burroughs, Lawrence Ferlinghetti, Gregory Corso, Neal Cassady…La Beat Generation. I ribelli. I Poeti. I Maudit. I cantori dall’anima “battuta” e “beata” del ritmo, della vita on the road, del sesso libero dai pregiudizi, della droga, dei valori umani, della coscienza collettiva. Fratelli degli hipster degli anni ‘40, gli esistenzialisti statunitensi, che vivevano la loro vita circondati dalla morte, annientati dalla guerra atomica o strangolati dal conformismo sociale, e che decidevano di “divorziare dalla società, vivere senza radici e intraprendere un misterioso viaggio negli eversivi imperativi dell’io”, anime erranti portatrici di una speciale spiritualità.
Nel 1959 Robert Frank realizza la più nota collaborazione con la Beat Generation. Infatti, insieme al pittore Alfred Leslie, dirige il suo primo film, Pull My Daisy. Scritto e narrato da Jack Kerouac e interpretato, tra gli altri, da Allen Ginsberg e Gregory Corso, il film sarà considerato il padre del New American Cinema, la cui pratica estetica viene comunemente associata ad un territorio di confine fra le Arti visive ed il Cinema.
Robert Frank, svizzero ed emigrato negli Stati Uniti per seguire le sue ambizioni fotografiche, si inserisce in quella che era un’epoca di profondo cambiamento, dove le aspettative e gli stessi uomini si stavano modificando radicalmente. Nel 1955 è il primo fotografo europeo a ricevere la borsa di studio annuale promossa dalla Fondazione Guggenheim di New York. Con i soldi ricevuti viaggia per tutti gli Stati Uniti dal 1955 al 1956, riprendendo oltre 24 mila fotografie attraverso le quali si assiste all’evoluzione di uno stile e di un linguaggio, mentre lavora “direttamente sulla vita, usando la pelle della gente”. Quando fa ritorno a New York, Frank sceglie trecento negativi da stampare e divide le immagini in categorie come simboli, automobili, città, gente, insegne, cimiteri e altri ancora e pensò di “dividere il libro in sezioni ognuna con una bandiera all’inizio”.
Con quelle 83 immagini (89 nell’edizione americana introdotta da Kerouac) tratte dal viaggio americano e pubblicate nella prima edizione francese nel 1958 di Les Américains, Frank si proponeva la distruzione di un mito che stava nascendo e che ancora oggi in alcuni Stati degli States è duro a morire, quello degli Stati Uniti da cartolina, un paradiso pittoresco dall’anima profondamente “bianca”, puritana e perbenista, rigorosa e moralista, morigerata nei costumi e pervasa da un forte senso di formale pietas e devozione.
Il critico Sandro Jovine ha guidato così la sua platea assorta, in un percorso volto ad insegnare come “leggere” il libro e come collegare i numerosi elementi che vi entrano in gioco. L’inconscio tecnologico, la casualità, lo spazio e il tempo, la serialità, i dettagli, i volti, le prospettive, le luci e le ombre…Le immagini diventano concetti che talvolta non hanno bisogno di spiegazioni, la fotografia rispetta l’assurdità dei fatti, dove – apparentemente – non c’è nulla che attiri l’attenzione.
“La fotografia non mostra la realtà, mostra l’idea che se ne ha” conferma il fotografo americano Neil Leifer. L’opera di Frank, con le sue immagini spesso volutamente sgrammaticate e che creano un senso di disagio allo spettatore, diviene un fenomeno sociale, assume un valore semantico. E analogico. Ritornano così le parole di Tiziano Terzani, secondo il quale fotografare vuol dire cercare nelle cose quel che uno ha capito con la testa.
La grande foto è l’immagine di un’idea.
L’evento di presentazione del capolavoro di Robert Frank – “The Americans” – è stato organizzato dal neonato “Centro per la fotografia Vivian Maier”, associazione culturale no profit dedicata alla promozione e alla diffusione della cultura fotografica sul nostro territorio.
Il nome a cui fa riferimento il centro è quello della fotografa statunitense Vivian Maier, anticipatrice della tendenza della “street photography “, a cui lo stesso Robert Frank appartiene, genere fotografico che mira a riprendere i soggetti in situazioni spontanee e in luoghi generici, per catturarne le interazioni sociali, al fine di evidenziare in maniera artistica alcuni aspetti della società. Una sorta di naturalismo e verismo letterario per immagini. L’inquadratura e il tempismo sono degli aspetti chiave di quest’arte, il cui scopo principale consiste nel realizzare immagini còlte in un momento decisivo o ricco di pathos. In alternativa, uno street photographer può ricercare un ritratto più banale di una scena come forma di documentario sociale. Vivian Maier scattò moltissimi autoritratti, caratterizzati dal fatto che non guardava mai direttamente verso l’obiettivo, utilizzando spesso specchi o vetrine di negozi come superficie riflettente della vita quotidiana di città come New York, Chicago e Los Angeles. La sua vita può essere paragonata a quella della poetessa americana Emily Dickinson, che scrisse le sue riflessioni e le sue poesie senza mai pubblicarle, a volte nascondendole in posti impensati, dove furono ritrovate dopo la sua morte. La vasta quantità di negativi della fotografa Maier (si è calcolato che si aggirino attorno ai 150.000, spesso neanche sviluppati) è stata scoperta meno di dieci anni fa per la tenacia di un giornalista americano, John Maloof.
I soci del “Centro per la fotografia Vivian Maier”: Massimo Di Nonno (Presidente), Luigi Grassi (vicepresidente) e Simone Di Niro (segretario) definiscono l’associazione, formata da fotografi professionisti e da persone che hanno fatto della passione per la fotografia un percorso di vita, un centro di aggregazione e di riferimento per lo sviluppo di ricerche e studi per l’immagine contemporanea.
Il CFC nasce, infatti, con un forte desiderio di dialogo, collaborazione e confronto con le realtà associative locali e nazionali. L’obiettivo, come ha dichiarato il Presidente Massimo Di Nonno nell’introduzione della lecture del critico Jovine sulle immagini di Frank lo scorso 15 febbraio, è quello di far crescere l’associazione attraverso due direttive principali: quella dell’organizzazione di mostre ed eventi, aperti anche alla collaborazione di chiunque abbia un progetto, un’idea, un suggerimento da proporre, e l’altra direttiva, quella didattica, volta a far sì che uno staff di professionisti altamente qualificati possano mettere a disposizione le proprie competenze in corsi e seminari al servizio della comunità.
A tal proposito, partirà il 2 marzo un Laboratorio di Fotografia a cura di Luigi Grassi (www.luigigrassi.com) specializzato in Fotografia presso l’Accademia di Belle Arti di Napoli e con alle spalle una vasta serie di collaborazioni fino alla recente menzione, nel gennaio di quest’anno, come uno dei dieci migliori giovani artisti del momento nella tradizionale rassegna di “Insideart” che gli dedica, sulla rivista n.101, la sezione “Portfolio”. L’obiettivo del Laboratorio è quello di portare a conoscenza degli studenti le proprietà dei materiali sensibili alla luce e insegnare le basi dello sviluppo fotografico. Un percorso teorico-pratico costruito intorno alla scoperta del linguaggio fotografico, dove gli allievi prenderanno coscienza delle azioni da svolgere all’interno del laboratorio di stampa, portando avanti progetti e interessi personali.
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