Pecore stanziali e non transumanti

di Francesco Manfredi-Selvaggi

Le loro cugine, le capre, non si sono mai spostate, invece, di molto dai posti di origine. Se si vogliono sviluppare questi allevamenti è necessario incrementare le aree a pascolo.

Nel secolo scorso si sono registrate trasformazioni, in ogni campo, dall’ambiente, all’economia fino al paesaggio, come in nessun’altra epoca della storia. Ciò è avvenuto anche nell’agricoltura dove a seguito dell’introduzione di nuove tecnologie si può parlare di un’autentica rivoluzione. I mezzi a disposizione del coltivatore sono molto superiori a quelli del passato. C’è l’introduzione di moderni ritrovati, quali i concimi e diserbanti chimici, ma soprattutto si ha l’affermazione della meccanizzazione nelle pratiche colturali.

Ciò ha rappresentato sicuramente un progresso, anche se nello stesso tempo si è rivelato un’arma a doppio taglio per il settore primario delle aree interne nelle quali l’acclività dei terreni sconsiglia l’utilizzo di macchine agricole in quei terreni con elevata pendenza, condannandoli all’abbandono. Hanno contribuito pure alla marginalizzazione degli ambiti pedologicamente più svantaggiati le politiche messe in campo a partire dalla fase della ricostruzione post bellica con il piano Marshal seguita, con continuità, dall’avvio della programmazione agricola comunitaria (PAC) per giungere quasi al termine del precedente millennio.

Il modello di sviluppo agricolo che si perseguiva è stato quello della massimizzazione della produzione sacrificando quelle varietà che non potevano fornire grossi quantitativi da immettere sul mercato, sia interno sia estero. Non vi è stata, in definitiva, in questi decenni una grande considerazione per le tipicità che, invece, è emersa in seguito, quando, però, il contesto rurale favorevole per tali specie andava sparendo per l’inselvatichimento di larghi tratti della campagna (a cominciare da quelli, lo si è già detto, con orografia più complessa).

Un destino analogo segna anche la zootecnia la quale si svincola quasi dai pascoli, terreni sui quali, così, si vanno affermando, essenze arboree; questo fenomeno clamoroso davvero è legato all’alimentazione in stalla delle bestie, non più sui prati. Tirando le fila delle riflessioni finora condotte vediamo che gli spazi aperti nei territori scarsamente appetibili per l’impianto di colture vanno restringendosi con l’avanzamento della macchia boscosa e anche come conseguenza dello scarso interesse oggi verso superfici da lasciare libere per il pascolamento.

Di certo non per quello dei bovini in quanto stiamo parlando di terreni più o meno scoscesi dove essi non si trovano a loro agio, mentre sono idonei per gli ovini e caprini che si adattano meglio a condizioni del suolo poco favorevoli. Le capre e le pecore sono capaci di sfruttare meglio (delle mucche) le parcelle più povere accontentandosi delle erbe spontanee che faticosamente vi crescono. Vi sono diverse ragioni a favore del mantenimento o ripristino di tali particelle erbose. Una di queste è che esse sono elementi capaci di diversificare l’immagine del paesaggio che nella fascia alto collinare sta diventando monotono per via di una copertura arborea pressoché continua.

Il paesaggio senza queste chiazze di vegetazione prative subisce una forte semplificazione. Una seconda motivazione strettamente collegata alla prima, è che si sta alterando l’assetto storico dei quadri paesaggistici nei quali convivevano campi, pascoli e distese boschive. Un terzo ordine di giustificazione per la conservazione dei prati-pascolo è in merito alle valenze ecologiche. La Direttiva Habitat del ’92 attribuendo loro il ruolo essenziale di corridoi ecologici quando inclusi nei SIC. Un quarto aspetto da tenere in conto è in riguardo alla loro redditività.

Si è avuta nei tempi recenti una rivalutazione del latte specialmente di pecora (anche se, purtroppo, il prezzo è troppo basso per remunerare i costi di produzione suscitando in Sardegna lo scorso anno vivaci proteste). I formaggi ovini e caprini sono molto richiesti. Per quanto riguarda il latte di capra viene apprezzata la sua qualità dietetica. Il consumo di carne di queste due razze di ruminanti è aumentato di molto e non è limitato solamente alle occasioni festive o alla ricorrenza pasquale.

Va evidenziato, incidentalmente, che la popolazione ovina è presente quasi esclusivamente nel centro e nel meridione d’Italia e, quindi, non soffre la concorrenza né degli allevamenti del settentrione né del resto del nostro continente con il vantaggio che l’Europa non ha imposto, così come ha fatto per il latte vaccino, le “quote latte” lasciando, quindi, la possibilità di incrementare la produzione del latte in questione. Un vantaggio ulteriore dell’allevamento di capre e pecore è che da esso si può trarre concime organico per fertilizzare gli appezzamenti dedicati all’agricoltura biologica e a quella biodinamica.

Quest’ultimo riferimento chiama in causa una questione centrale che è che l’allevamento di ovini e caprini ha senso se orientato verso una produzione con standard qualitativi elevati, tanto della carne quanto del latte, e, in aggiunta, se il contesto paesaggistico in cui si pratica e che la caratterizza, è ben salvaguardato. Dunque, bisogna evitare la costruzione di stalle troppo grandi che richiamano una zootecnia intensiva e non legata alla tradizione locale.

È ammessa la presenza di laboratori caseari, appare scontato, e di locali per l’allestimento di ecomusei, cosa invece non ancora diffusa presso le aziende zootecniche. Anche per la pastorizia, alla stessa maniera dell’agricoltura, c’è bisogno di attivare la cosiddetta multifunzionalità per cui nell’unità aziendale oltre alle attività zootecniche si propongono momenti di educazione ambientale, ci si impegni a favore di persone con svantaggi psichici e fisici impegnandoli in lavoretti agricoli e tanto altro ancora. L’intero sistema economico del posto riceve vantaggi dalla pastorizia i cui formaggi arricchiscono la proposta gastronomica, e, di conseguenza, i negozianti di prodotti tipici e i ristoratori.

Francesco Manfredi Selvaggi637 Posts

Nato a Boiano (CB) nel 1956. Ha conseguito la Maturità Classica a Campobasso e poi la laurea in Architettura a Napoli nel 1980. Presso la medesima Università ha conseguito il Diploma di Perfezionamento in Storia dell’Arte Medievale e Moderna e il Diploma di Perfezionamento in Restauro dei Monumenti. È abilitato all’esercizio della professione di Architetto e all’insegnamento di Storia dell’Arte nei licei e Educazione Tecnica nelle scuole medie. Dal 1997 è Dirigente, con l’attribuzione di responsabilità nei servizi Beni Ambientali (19 anni), Protezione Civile, Urbanistica, Sismica, Ambiente. Ha avuto un ruolo attivo in associazioni ambientaliste quali Legambiente Molise, Italia Nostra sezione di Campobasso e Club Alpino Italiano Delegazione del Molise. Ha insegnato all’Università della Terza Età del Molise ed è stato membro del Consiglio di Amministrazione della Fondazione dell’Ordine degli Architetti di Campobasso, occupandosi all’interno dello stesso del progetto di Archivio dell’Architettura Contemporanea. È Giornalista Pubblicista e autore di articoli, saggi e del volume La Formazione Urbanistica di Campobasso. Le ultime pubblicazioni sono: «Le Politiche Ambientali nel Molise» (2011) e «Problemi di tutela ambientale in Molise» del 2014.

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