Un fiume fuori di sé
di Francesco Manfredi-Selvaggi
Nel senso di fuori dal proprio alveo e ciò coincide con le alluvioni, una piaga per i territori di pianura così come lo sono le frane per quelli di montagna. La rabbia del fiume è dovuta alla violenza perpetrata su di esso dagli uomini
La problematica idrogeologica ha tante sfaccettature; una di queste è quella dei corsi d’acqua di pianura ed, in particolare, quando questi attraversano centri urbani. Il caso limite, nel senso che qui le questioni si esasperano, è quello del Calderari a Boiano. Prima, però, di vedere la negatività è giusto evidenziare che esso è una delle peculiarità della città, protagonista della sua storia con le attività idroesigenti sviluppatesi presso le sponde, sia artigianali (il lavaggio della lana, ad es.) sia agricole con le produzioni orticole. La cittadinanza da alcuni decenni se ne è accorta e così si è realizzata una bella passeggiata per goderne il percorso nell’abitato.
Si è organizzato anche un presepe vivente dagli amanti della canoa che da anni nel capoluogo matesino si sono costituiti in associazione per promuovere la conoscenza dell’ambiente fluviale. Detto, doverosamente, questo passiamo adesso a rilevarne le criticità. In un territorio piano un corpo idrico camminando lento a causa della scarsa pendenza cerca di formare anse mentre qui è in pratica rettilineo; pertanto il tracciato deve essere stato regolarizzato e il suo alveo, che se il terreno è piatto tipicamente è largo, quando non si ha, addirittura, l’impaludamento dei suoli circostanti, deve essere stato ristretto.
Il Calderari diviene quasi invisibile, percepibile solo dai ponti che lo scavalcano, anch’essi poco percepibili in quanto non si inarcano, non rappresentando discontinuità della strada (corso Amatuzio e via Fiumicello) su cui sono posizionati. È nascosto dai muri delle case che su di esso volgono i fronti meno curati. Non contenti di averne alterato il tracciato, banalizzate le rive (è stato risparmiato dalla creazione di argini sulle sponde, ma non c’era spazio ormai rivestite da cemento, si è pensato tra il ’70 e l’80 di ricoprirlo, di toglierlo del tutto dalla vista, quasi fosse un’ospite scomodo con la motivazione dell’odore sgradevole dell’acqua stagnante e degli insetti che lo popolano.
Si era affacciata anche l’idea di realizzare sulla platea cementizia che lo avrebbe dovuto richiudere un asse viario il quale avrebbe potuto pure “valorizzare” le particelle libere ai suoi fianchi trasformandole in lotti edificabili. Questa operazione si chiama tombinare ed era in voga in Italia in quel periodo. Il Calderari corre seguendo le curve di livello più basse della città e, pertanto, su di esso convergono i rivi minori e cioè il Fosso Spina e il Fosso S. Vito sul quale in precedenza affluiva il Ravone che dopo è stato fatto confluire sul Callora allontanando le acque che trasporta dall’agglomerato insediativo.
Per quanto riguarda quest’ultimo fatto è da evidenziare che l’intervento è stato eseguito nel 1980, epoca in cui le conoscenze in materia di idrologia, sulle quali si è basato il progetto delle opere di difesa idrauliche, non erano così avanzate come quelle odierne. Si dirà che il problema del Calderari è un problema specifico di un certo luogo e, invece, non è così perché i piani urbanistici privilegiano l’espansione edilizia nelle zone pianeggianti; di conseguenza è una situazione che rischia di diventare ricorrente appena l’area individuata nel PRG (o nelle Riclassificazioni, assai frequenti, effettuate dai Commissari ad Acta) è prossima ad un’asta fluviale.
Nei Piani di Assetto Idrogeologico (PAI) i quali si occupano di tutela dalle frane e dalle inondazioni, oltre che di salvaguardia della costa, sono stabilite misure per l’edificazione negli ambiti che possono essere investiti dalle piene dei principali fiumi molisani; tra questi vi è il Biferno il cui straripamento c’è la previsione che lambisca il cimitero boianese. Non sono state, invece, studiate le conseguenze della fuoriuscita dall’alveo dei piccoli corsi d’acqua che compongono quella rete idrica che converge sul Calderari, formata da torrenti provenienti dal Matese che, di certo, non suscitano preoccupazioni di alluvionamento nel tratto montano, ma che quando si ingrossano sono capaci di causare danni a valle ed è successo in passato, non riuscendo più le acque ad essere contenute nella sezione fluviale.
Non si è ancora completato il processo di pianificazione che ha portato al varo dei PAI, la vincolatività dei quali è stringente solo per le superfici a maggior Rischio (R4), non ancora per le altre (R3 e seguenti), il compito è affidato adesso alle Autorità di Distretto che hanno inglobato quelle di Bacino (la nostra si occupava del bacino interamente regionale, Biferno e di quelli a confine con le regioni limitrofe Trigno e Fortore). In Italia sono stati individuati 8 Distretti Idrografici. Quelli che interessano la nostra regione sono il Distretto dell’Italia Centrale cui afferisce il Sangro e il Distretto Centro Meridionale che contiene tutte le altre aste fluviali, tanto quelle cui era preposta l’Autorità di Bacino interregionale che aveva sede a Campobasso, quanto quella di “rilievo nazionale” del Volturno.
L’unico criterio seguito in tale suddivisione del territorio nazionale sembra essere quello climatico che è, poi, quello delle precipitazioni atmosferiche. Il clima, di certo, varia passando dal nord al sud della penisola, quindi in senso longitudinale, ma cambia anche tra il versante adriatico dove è di tipo continentale a quello tirrenico che è mediterraneo. Quest’ultimo interessa una porzione della provincia di Isernia perché la catena appenninica qui da noi è spostata verso il Tirreno. Non si è tenuto conto nella delimitazione dei Distretti quella amministrativa (il Distretto Centrale comprende una porzione, sia pure minima, della Regione Molise) né quella dell’unitarietà del governo della risorsa idrica come dimostra il fatto che le acque del Rio Torto, affluente del Sangro, dopo aver alimentato 2 centrali idroelettriche si sversano nel Volturno a Colli.
Del resto continuare ad utilizzare una ripartizione per bacini idrografici ha poco senso dal punto di vista gestionale poiché in un territorio come il nostro così orograficamente frammentato essi sono di estensione ridotta. Le valli che si trovano nel Molise formate dal Volturno e dal Fortore non hanno un’ampiezza consistente, comparabile con quella che esse acquistano rispettivamente in Campania e in Puglia. Riassumendo la complessità della governance dei corsi d’acqua, in particolare per scongiurare le alluvioni, è notevole e ciò vale tanto alla scala micro, vedi il Calderari, quanto a quella macro la quale non è più costituita dal Bacino, bensì dal Distretto.
Francesco Manfredi Selvaggi645 Posts
Nato a Boiano (CB) nel 1956. Ha conseguito la Maturità Classica a Campobasso e poi la laurea in Architettura a Napoli nel 1980. Presso la medesima Università ha conseguito il Diploma di Perfezionamento in Storia dell’Arte Medievale e Moderna e il Diploma di Perfezionamento in Restauro dei Monumenti. È abilitato all’esercizio della professione di Architetto e all’insegnamento di Storia dell’Arte nei licei e Educazione Tecnica nelle scuole medie. Dal 1997 è Dirigente, con l’attribuzione di responsabilità nei servizi Beni Ambientali (19 anni), Protezione Civile, Urbanistica, Sismica, Ambiente. Ha avuto un ruolo attivo in associazioni ambientaliste quali Legambiente Molise, Italia Nostra sezione di Campobasso e Club Alpino Italiano Delegazione del Molise. Ha insegnato all’Università della Terza Età del Molise ed è stato membro del Consiglio di Amministrazione della Fondazione dell’Ordine degli Architetti di Campobasso, occupandosi all’interno dello stesso del progetto di Archivio dell’Architettura Contemporanea. È Giornalista Pubblicista e autore di articoli, saggi e del volume La Formazione Urbanistica di Campobasso. Le ultime pubblicazioni sono: «Le Politiche Ambientali nel Molise» (2011) e «Problemi di tutela ambientale in Molise» del 2014.
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