Sardine, grafi e repubbliche marinare. Teoria marittima del partito digitale
di Michele Mezza
È singolare che nella società della comunicazione stiano emergendo come modelli di comportamento politico proprio i pesci, noti per il loro mutismo. Le piazze sono acquari. Squali e sardine si fronteggiano cercando di imporre il proprio linguaggio, e con la propria imprevedibilità. Ed è l’imprevedibilità, nell’accezione di serendipity, sorpresa e stupore, il tratto saliente. Le piazze di Bologna e Modena, ma, in tutt’altro contesto, anche quelle di Barcellona, Hong Kong e Santiago, si riempiono di una folla che diventa momentaneamente soggetto politico assolutamente irriducibile a modelli e schemi. Assolutamente estraneo a logiche di partito, ma non avulso da strategie elettorali. A tutte le latitudini, in scenari ideologici e istituzionali assolutamente diversi fra loro, si riproduce questa identica caratteristica: noi siamo partito, non stiamo in un partito.
L’altro tratto che unisce, punto a punto, queste folle, è il loro linguaggio e comportamento reticolare. Più che il network la figura che sembra meglio descrivere queste realtà è il grafo. Intendo quella geometria che, come ci spiega Albert-László Barabási nel suo saggio Link (Einaudi) “disegna e connette il tracciato delle nostre interconnessioni”, collegando in uno spazio virtuale le scie che ognuno di noi lascia dietro di sé con il proprio browsing, il proprio muoversi on line. Il grafo si prolunga mettendo in relazione i cosiddetti legami deboli che costituiscono la vera trama di una rete larga. Ci spiega ancora Barabási che la società in rete è strutturata in clusters altamente interconnessi, o cerchie molto strette di amici, dove ovviamente si conoscono tutti. Pochi legami con l’esterno mettono in comunicazione questi clusters con il resto del mondo, evitandone l’isolamento… In sostanza questi clusters sono collegati l’uno all’altro da pochissimi legami deboli, stabilitisi fra persone che appartengono a diverse cerchie di conoscenze.
Questa è la nuova morfologia sociale dopo cinquant’anni di Internet, una struttura che ha permeato profondamente la società civile e quella politica, articolando in maniera completamente diversa dal secolo scorso la dialettica fra rappresentati e rappresentanti. Aldo Bonomi, uno dei più lucidi e continui scannerizzatori sociali parla di oasi nel deserto quando analizza i sussulti che si registrano nei territori, in cui si configurano comunità che non coincidono né con interessi né con culture, ma a volte addirittura con stati d’animo. Comunità momentanee circondate e assediate dalla sabbia del rancore sociale, il sentimento che esprime la rivolta dell’individuo.
In uno sciame, come ci dice il filosofo Byung-Chul Han, o un banco, se rimaniamo alla metafora ittica, la novità è proprio l’individuazione, che secondo l’intuizione di Antony Giddens è la tendenza culturale che pone l’enfasi sui progetti di un individuo come il principio cardine che orienta il comportamento di tale individuo, rimane visibile anche nella massa che si forma al momento. Questa sabbia rancorosa è stata il cemento dell’egemonia della destra. Si è discusso poco del brusco cambio di segno che la rete ha subito in questi ultimi dieci anni. Nel biennio 2009/2011 le piattaforme social erano considerate il motore delle rivoluzioni: le primavere arabe, Occupy Wall Street, gli Indignados, in Italia i grillini. Erano quelle che Manuel Castells definì in un suo report sul fenomeno “reti di indignazione e di speranza”. La mobilitazione politica che riempiva allora le piazze era promossa e in alcuni casi guidata dai social. Al Cairo Google fu incriminato come agitatore.
La rete sembrava irrimediabilmente uno strumento di accelerazione della democrazia. Castells analizzando molecolarmente questi movimenti parlava di “un potere esercitato tramite la costituzione di significati nell’immaginario collettivo”. Lo strumento era il sistema di connessione sociale, dove, ancora Castells, “la comunicazione diventava processo di condivisione dei significati tramite lo scambio d’informazioni”. Ma proprio per la centralità che assumeva la piattaforma, anzi il linguaggio che i sistemi social determinavano, bisognava costruire spazi di autonomia. Scriveva profeticamente Castells “il contropotere si realizza mediante la riprogrammazione dei network”. Senza riprogrammazione decide l’arbitraggio dell’algoritmo. Anzi decide il suo proprietario. Dopo qualche anno, siamo nel 2016, cambia completamente segno e funzione della rete. I proprietari di quelle piattaforme vendono l’anima a Trump che usando il microtargeting di Google e Facebook disegna il suo grafo sociale, spostando chirurgicamente i voti essenziali per vincere negli stati contendibili. Non è una guerra stellare, o un’operazione puramente tecnologica. È politica concentrata, direbbe Lenin.
Si usa esattamente il ribellismo sociale del ceto medio radicalizzato, non dissimile da quello che contestava Wall Street o i partiti spagnoli e i satrapi arabi, rovesciandone il significato. Come ci spiega Christopher Wylie, il giovane programmatore che ha elaborato l’algoritmo di Cambridge Analytica: “si cambia la democrazia cambiando il senso comune della gente”. La materia prima è sempre la stessa: disagio sociale che può diventare indignazione civile, come nel 2011, o rancore anti elitario, come nel 2016. Poi venne la Brexit, e poi le elezioni in Francia, Spagna e Italia, la rete è diventata il manganello della reazione.
Solo la destra oggi è capace di fare partito nella società digitale. Brad Parscale, il coordinatore della campagna elettorale di Trump, nella sua polemica contro Twitter che ha deciso, insieme a Google, di non veicolare più la propaganda elettorale individuale, tipo Cambridge Analytica, ha tronfiamente affermato “solo la destra oggi sa come organizzare il consenso sulla rete”. Difficile dargli torto: globalmente la destra può limitarsi ad utilizzare l’immediatezza sociale del mood rancore + riconoscimento individuale. Il collante che ricompone i mille frammenti in un movimento di opinione e dunque elettorale è la sicurezza, sia sociale, contro la globalizzazione, sia personale, contro le migrazioni. Da Casa Pound alle associazioni corporative professionali, alle realtà territoriali privilegiate, queste sono le sardine reazionarie, il filo nero che li unisce è l’identità etnica come rassicurazione patrimoniale.
Mentre a sinistra manca una narrazione che possa consolidare e integrare le impennate di indignazione civile. Un partito di individui, come è oggi il Pd, non riesce a parlare a folle di individui, come sono le piazze indignate. Rimane la barriera del partito, di una macchina di potere che senza missione storica, la rivoluzione o la socializzazione della ricchezza, si mostra come solo scalata di carriera dei suoi dirigenti. Eppure sono forti le tensioni che potrebbero spingere a sinistra i banchi di pesci irrequieti. Proprio l’analisi delle rivolte del 2011 permetteva a Castells di individuare due forti dorsali culturali che ancora sembrano segnare in profondità i ceti urbani emancipati e indignati.
La prima è l’identificazione con la città. I movimenti di protesta sociale collettiva, dimostra l’esperienza di quegli anni, si rendono visibili occupando gli spazi urbani, rivendicando la propria centralità e rappresentanza della città: Bologna siamo noi, gridavano a Piazza Grande, We are the city, scrivono a Hong Kong. La mobilitazione di competenze e saperi, la materia prima di cui sono fatti oggi i cittadini, indica quale sia la reale smart city.
Dall’altra parte, un’altra opzione rimane sospesa ma irremovibile nel cielo dei nuovi movimenti di protesta: la rivendicazione a condividere la deliberazione. La petulante domanda di leadership, di forme di rappresentanza delegata che i media continuamente propongono a quelle piazze è del tutto fuori tempo. Non è una attempata e del tutto inattuale moda della democrazia diretta, una edizione rivista e corretta del siamo tutti delegati, ma è una concreta e praticale domanda di partecipazione simultanea, contemporanea ai decisori, che cresce nelle vene delle nostre città, così come dilaga a Copenaghen, a Barcellona, a Vienna e a Budapest. Quando leggiamo che in quelle città la destra è stata fermata, retrocede, si incaglia, non è un’alleanza antifascista che si muove, ma una moderna ed efficiente richiesta di autogoverno immediato. La rete la rende possibile, la competizione globale ne seleziona le capability, le professioni e le strutture di ricerca ne affinano il know how.
Le reti orizzontali e multimodali – scriveva Castells nel saggio citato – sia su internet che negli spazi urbani creano unità, punto chiave per il movimento, perché è tramite la compartecipazione che si supera la paura e si scopre la speranza. Non si tratta di comunità, perché quest’ultima indica una serie di valori condivisi, e questo è un impegno continuo del movimento, perché molti vi entrano spinti da motivazioni ed obbiettivi personali. L’unità del momento invece è lo strumento della deliberazione, dell’auto governo su quell’obbiettivo. Non solo, conclude Castells, i fini non giustificano i mezzi, ma i mezzi danno corpo al fine.
Il mezzo è allora un partito delle momentanee unità, un partito che federa le differenze, che sconta base sociale e maggioranze diverse su singoli temi, che si adatta alla battaglia delle idee, diventandone mezzo e non fine. Dalla legge di fine vita alla riforma fiscale, dalla TAV all’ambiente si possono accostare interessi e individuazioni diverse, costruendo movimenti attivi, conflittuali, che trasparentemente portino in piazza le proprie ragioni. Nel partito decide chi confligge non chi detiene le tessere. Se vogliamo rimanere nei marosi di questi giorni diciamo un partito che sia una repubblica marinara, anzi tante repubbliche marinare, legate a strategie, alleanze, obbiettivi e linguaggi diversi, ma unite dall’indispensabilità dell’autonomia, della libertà e della civiltà. Le repubbliche marinare furono una straordinaria alternativa agli imperi teologici, alle gerarchie dinastiche e alle signorie baronali. Furono luoghi di lotta politica e di guerre di autonomia, dove la libertà si costruiva ogni giorno, cambiando campo a volte, ma sempre assicurando la massima partecipazione alla propria popolazione.
Un partito deve essere un apparato ideologico o una macchina politica che si offre come strumento di volontà che si raccolgono spontaneamente? Diciamo un partito come incubatore di start up e non come ingegnerizzazione di una grande fabbrica. Il motore di questa strategia può essere la città come piattaforma, e la deliberazione come condivisione. Ancora Bonomi propone come percezione sociale da condividere la fondazione di comunità come discorso e pratica che rovescia l’ordine del discorso nel rapporto fra economia e società. È l’altra faccia delle repubbliche marinare. Ma ci vuole anche un obbiettivo che faccia intendere come si arriva a interferire con il potere, come ci si affranca dagli imperi.
Ci vuole una spinta al conflitto sociale che metta nel mirino il nuovo principio di autorità che è oggi la potenza di calcolo e il nuovo ordinatore sociale che è l’arbitraggio dell’algoritmo. Se sono i mezzi che danno corpo ai fini, allora per una generazione nata sulla libertà in rete la condivisione degli algoritmi e la trasparenza dei data base è il programma minimo per il proprio successo personale e della propria città. Tre sono dunque le parole cardine di una possibile rinascita democratica: individuazione, come dignità del progetto personale; città, come luogo dell’autonomia e della libertà; riprogrammazione, come mezzo che prefigura il fine dell’eguaglianza e della trasparenza. Come recita il Talmud: se non son io per me chi lo sarà mai? Ma se io sono solo per me chi sono mai io?
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