Nicoletta Dosio: la Resistenza non si arresta
Ieri, a 73 anni, Nicoletta Dosio è stata arrestata dopo la condanna ad un anno di reclusione per i fatti del 2012, quando un gruppo di attivisti No Tav aveva forzato un casello autostradale durante le proteste per la costruzione della Torino-Lione. Nicoletta ha rifiutato i domiciliari, dichiarandosi pronta al carcere. Continuando a credere nelle sue battaglie fino alla fine.
Di seguito ripubblichiamo l’intervista realizzata da Michele Colitti con lei nell’aprile del 2017, uscita sull’edizione cartacea de Il Bene Comune.
Ex insegnante, Nicoletta Dosio è una militante da sempre: condannata agli arresti domiciliari, ha deciso, serenamente, di evadere da casa sua per partecipare a diversi presidi di solidarietà contro gli attivisti No Tav processati. Una scelta politica contro quel “sistema” che utilizza i tribunali come strumento di repressione.
Presso la sala Alphaville Ex-Onmi di Campobasso, è stato proiettato il documentario di Carlo Amblino “Archiviato. L’obbligatorietà dell’azione penale in Valsusa”, evento di autofinanziamento per la prossima edizione della fiera della piccola e media editoria organizzata da Altrolibro: in questa occasione abbiamo avuto il piacere di parlare con Nicoletta e ne è venuta fuori una testimonianza autentica del suo impegno, fino ai momenti più drammatici legati ai cantieri per la Tav Torino-Lione. Tutto senza retorica, un invito ad una riflessione genuina sui valori della solidarietà e della libertà individuale e collettiva
Molto spesso, leggendo di lei, si fa riferimento in termini legali alla parola evasione. E anche il movimento No Tav viene tirato in causa quando si cammina su quella linea sottile che divide i concetti di legalità e giustizia e di violenza e non violenza. Pensa che ci sia una strategia di delegittimazione in atto nei suoi confronti? Si sente una perseguitata dalla magistratura?
Combattiamo contro un sistema che noi chiamiamo “partito trasversale degli affari” che sul nostro territorio significa Tav, altrove TAP; significa Europa/fortezza che taglia fuori coloro che hanno territorio e vita devastati dalla guerra e dallo sfruttamento. Quel sistema ha vari aspetti e vari strumenti ed il tribunale è più che mai uno di questi, così come le carceri sono il modo in cui si risponde ai bisogni sociali, luoghi di emarginazione e controllo e le leggi che dovrebbero essere in sintonia con la Costituzione, sono sempre più in mano ai potenti che dei territori e della vita di tutti vorrebbero fare merce vile da usare secondo i loro interessi.
La magistratura quindi oggi è un vero e proprio strumento d’intimidazione nei suoi confronti?
La Costituzione garantiva l’indipendenza della magistratura, adesso è solo uno degli strumenti della repressione che ci vorrebbe tutti schiavi. Noi non accettiamo questa situazione, cercheremo di contrastare questo sistema di sfruttamento, opponendoci anche fisicamente, con le barricate reali oltre che con le barricate di documenti. Per quanto mi riguarda, ho deciso di dire no a questo sistema che non si fa più neppure solo tribunale che sentenzia ingiustamente, ma si fa anche legge di oppressione preventiva esaltata dall’ultimo decreto Minniti che vuole emarginare il dissenso politico e sociale: non si fa più la lotta alla povertà, ma ai poveri, agli ultimi.
Che sono “accettati” solo quando decidono di subire.
Quando si ribellano invece, si interviene con leggi e decreti illegittimi ed illegali se è vero che la Costituzione garantisce il diritto alla circolazione, allo studio, alla salute etc…, tutti diritti che oggi non esistono più.
Come vive il fatto di essere diventata un simbolo di resistenza e disobbedienza civile?
Brecht diceva “beato quel popolo che non ha bisogno di eroi”. Ma io non mi sento un eroe, anzi, questo termine mi imbarazza spesso. Lasciando perdere la mia persona e la mia figura, mi pare evidente che c’è un bisogno reale di ribellarsi; la decisione che ho preso, non da sola, ma con il sostegno morale e fisico di tutto il movimento, cioè quella di evadere, l’ho usata per far conoscere meglio la nostra battaglia e per prendere posizione contro questo regime sempre più fascista.
Vorrei che non fossero necessari i simboli, ma ho sempre valutato e agito con serenità perché continuo a pensare che il mio gesto possa essere utile se troverà supporto da parte di molti, perché il problema è sempre quello dei rapporti di forza. Quello che ho fatto non è diverso dai nostri sabotaggi in Clarea o dalla nostra vita quotidiana dove rifiutiamo esplicitamente non solo la Tav, ma tutto il sistema. Non c’è da gioire, ma nemmeno da preoccuparsi: si va avanti con grande umiltà sapendo che da soli non siamo niente, ma tutti insieme siamo una vera forza.
In un contesto di privatizzazioni e sfruttamento di ogni tipo dei beni comuni, la sua esperienza ci può insegnare che anche lotta, i territori, la solidarietà, le “reti” sociali sono un patrimonio collettivo? Il clima di repressione, paradossalmente, potrebbe aver ridato dignità a dei valori che in qualche modo si stavano sgretolando?
Assolutamente, sono valori da riscoprire, il vero antidoto alla guerra tra poveri: il sistema è forte solo se riescono a dividerci. Dobbiamo ricordare e riscoprire la forza della fratellanza: esistono dei legami più forti della famiglia di sangue e sono legami di lotta che ti rendono responsabile di chi è vicino a te e che accrescono infinitamente la consapevolezza. Il movimento è un insieme di tante storie diverse che sono confluite insieme, quello che era patrimonio e consapevolezza di qualcuno, diventa di tutti. Se questo non è un bene comune…
Muos, No Expo, No Ponte, No dal Molin, Brennero, in Puglia con il TAP, ma anche in Grecia, o in Spagna. Il vostro simbolo è diventato così riconoscibile da superare il concetto stesso di lotta alla Tav, assumendo quello più ampio di lotta all’ingiustizia sociale che minaccia le comunità e i territori. Sentite la responsabilità di scrivere una parte della storia contemporanea di questo Paese?
Sentiamo sicuramente la responsabilità insieme alla consapevolezza di non essere da soli: la nostra bandiera è diventata un simbolo perché tanti sono venuti ad aiutarci. Sentiamo più che mai di non poter cedere perché il fatto di poter vincere qualche volta e di poter anche semplicemente resistere, diventa una speranza per tutti. L’orgoglio della nostra lotta si unisce al senso di fratellanza e di riconoscenza per gli altri che hanno deciso di sostenerci venendo a vedere, a vivere quella collettività rinata, meravigliosa, che non è stata programmata a tavolino, ma è nata spontaneamente.
Qualcuno sostiene che è anche comprensibile, date le ridotte dimensioni della nostra valle, ma forse si ignora che in questo luogo esistono delle tradizioni popolari, non solo folkroristiche, legate alle lotte storiche: le montagne furono il teatro della Resistenza, i giovani di oggi hanno padri, fratelli e nonni che erano i ribelli di allora e poi le lotte operaie. Nel 1971, proprio in una delle fabbriche della valle dove si producevano dei pezzi per le armi, tutti gli operai firmarono un documento con il quale si rifiutarono di costruire strumenti di morte, perché il concetto stesso di lavoro era nobilitato dal fatto che dovesse servire per vivere e non per causare sofferenze o stroncare vite altrui.
Questo è uno dei capisaldi delle rivendicazioni No Tav, ovvero rifiutare il fatto che la grande opera sia fonte duratura di posti di lavoro, quando sappiamo per certo che le condizioni di lavoro nei cantieri sono al limite, oltre alle ripercussioni future sulla salute degli operai ora coinvolti.
Una delle tante favole che ci vengono raccontate. La valle economicamente si è impoverita e l’autostrada, oltre ad aver portato via terreno, ha portato via anche la possibilità di intendere il lavoro più a misura d’uomo e sappiamo bene che fine hanno fatto tutte le conquiste ottenute faticosamente negli scorsi decenni con misure come il Jobs Act. Rifiutiamo il lavoro che uccide chi lo fa, devasta il territorio circostante e mette a repentaglio la salute di chi ci vive: bisogna ritornare ad un concetto alto di lavoro, nobile e, d’altronde, abbiamo visto benissimo che il maxi sondaggio del terreno non solo ha creato poco lavoro, ma gli operai erano costretti a stare in gallerie a 40° piene di umidità, circondati da amianto e uranio con un monitor al collo.
Immaginate le ripercussioni future per la salute e poi la beffa: finito il sondaggio, più della metà di loro è stata licenziata. Hanno provato a metterceli contro, dicendo che noi eravamo contro gli operai, ma noi rifiutiamo la lotta tra poveri, perché siamo convinti che esistono gli schiavi perché esistono i padroni, però è anche vero che esistono i padroni perché continuano ad esistere gli schiavi. Naturalmente, questo è un discorso che può trovare riscontro in una società solidale, dove ognuno si prende la responsabilità dell’altro e nel nostro movimento siamo riusciti a metterlo in pratica: i nostri avvocati ci difendono gratuitamente perché altrimenti sarebbe dura sostenere una situazione che vede più di mille indagati e duecento condannati e poi abbiamo anche messo in piedi una specie di cassa di solidarietà per aiutare i compagni in carcere e gli altri che perdono il lavoro.
La nostra lotta guarda ad un altro mondo, ad un diverso modello di sviluppo.
A proposito del modello di sviluppo, è stato presentato un libro dell’ANSA in collaborazione con Telt, la società incaricata di costruire e gestire l’opera. Sette capitoli che raccontano le vicende dei cantieri dal 1990 al 2016. Durante la presentazione, a Torino, il ministro Graziano Delrio ha parlato di Tav come opera fondamentale per lo sviluppo ed entro l’anno, in Val di Susa, dovrebbero aprire due nuovi cantieri. Secondo lei è giunta a maturazione la consapevolezza che questo modello di sviluppo non è più sostenibile?
Sicuramente; è sotto gli occhi di tutti che non è più sostenibile. E’ necessario ripartire dai bisogni reali, dal basso, dalla tutela dei territori: questo è un mondo dove qualcuno è costretto a vivere in corridoi di traffico che servono ai grandi capitali che delocalizzano dove si può sfruttare meglio e dove si può inquinare di più. Noi abbiamo del progresso e dello sviluppo l’idea che aveva Benjamin, il famoso Angelus Novus di Klee che ha sguardo fisso e il volto impaurito, con le ali che non gli servono per volare perché un vento contrario lo blocca.
Davanti a lui si accumulano i detriti della storia, morti, le devastazioni, e vorrebbe fermarsi per rimettere in sesto le cose, ma non lo può fare perché questo vento glielo impedisce: questo vento si chiama progresso e noi pensiamo che questo vento debba essere fermato per ricreare una vita che sia dignitosa partendo dal basso, partendo da quelle che sono le realtà locali. Ma non si tratta di una visione nimby della realtà; semplicemente sappiamo che potremo salvarci solo andando tutti nella stessa direzione, facendoci carico dei bisogni degli altri e non per carità, ma perché è assolutamente indispensabile la lotta contro la povertà intesa come oppressione, come subordinazione, come schiavitù. Questa convinzione ci permette di affrontare con serenità tutte le difficoltà, compresi i tribunali.
Grazie per il tempo che ci ha dedicato.
Grazie a voi.
Michele Colitti30 Posts
Nato a Campobasso nel 1985, ha studiato Media e Giornalismo presso l'Università "Cesare Alfieri" di Firenze. Collabora con la rivista "Il Bene Comune" dal 2010. Giornalista pubblicista dal 2014.
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