Campobasso, araba fenice, e le macerie del 1805

di Francesco Manfredi-Selvaggi

Il capoluogo regionale colpito duramente dal sisma del terremoto del 26 luglio del 1805, il “terremoto di S. Anna”, vive agli inizi del XIX secolo un periodo di fervore edilizio. La ricostruzione porterà la città a dotarsi di moderne attrezzature civili sorte sopra i resti, espropriati, dei fabbricati ecclesiastici presenti nell’area urbana.

Campobasso ha approfittato in più occasioni di calamità naturali o di rivolgimenti politici per rinnovarsi. Così è stato con i terremoti, a cominciare da quello del 1348 che distrusse la chiesa di S. Maria de Fora la quale era di pertinenza di una badia, piccola, appartenente al monastero di Montecassino in località Foce, e quella di Camposarcone, anch’essa, dunque, in territorio rurale e anch’essa di proprietà come la badia, che come l’altra è anch’essa scomparsa, dei Benedettini; questo ordine monastico dovette avere un ruolo importante nel rafforzamento delle attività agricole nella “campagna campobassana” i cui prodotti sono stati famosi fin quasi ai nostri giorni.

La prima delle chiesette è stata ricostruita nell’ultimo secolo ab imis, dalla base, recuperando di quella antica il bel portale, mentre la seconda, della quale si vedevano dei pezzi ancora nel 1700, fu restaurata dall’Arcivescovo di Benevento, diocesi alla quale faceva parte questa porzione dell’agro, il cardinale Orsini che la dedicò alla Vergine del Rosario (lo ricorda una lapide su una parete). Un altro devastante evento tellurico fu quello del 1456 che distrusse il maniero medioevale il quale non fu semplicemente riattato da Cola di Monforte, ma rafforzato secondo i principi delle nuove tecniche militari.

L’abbandono del castello è dipeso, però, non dal comportamento della natura, bensì da un fattore umano, il subentrare degli spagnoli nel governo del Regno di Napoli che diventò Viceregno. Si ebbe quella che si chiama rifeudalizzazione la quale portò alla sostituzione della vecchia nobiltà con feudatari fedeli alla corona di Spagna, non più aspiranti a crearsi un proprio dominio come il Monforte, ma interessati solo alla rendita che potevano ricavare dal feudo; lo stile di vita dei baroni cambiò ed essi erano intenzionati ad abitare in residenze comode, non in cima ad un erto colle.

Il signore di Campobasso così edificò il Palazzo Cannavina, dal cognome degli ultimi proprietari, prima Salottolo dal nome di una famiglia “demanista”, che conserva in facciata il ricordo di quando era la sede del potere feudale, con lo stemma del casato marchesale che lo aveva posseduto. Le maggiori trasformazioni avvennero a seguito del sisma del 1805.

Gli edifici di culto della parte bassa dell’abitato, quella accanto alla quale si stava sviluppando il Borgo Murattiano, si rinnovarono, ambedue ad opera di Berardino Musenga, aggiungendo la cupola a S. Maria della Croce e ampliando la chiesa della SS. Trinità per i cui lavori il Regio Decreto del 25 agosto 1814 impose che il Comune dovesse inserire annualmente in bilancio «una somma proporzionata alle sue risorse, sino a che sarà terminata l’opera».

Queste architetture religiose hanno un valore simbolico in quanto ad esse facevano riferimento le due fazioni opposte dei Crociati e dei Trinitari. Più decisiva nel definire l’assetto urbano fu, però, un’altra categoria di bene ecclesiastico, i conventi. Per la loro scomparsa dal panorama cittadino in quanto tali fu più determinante delle scosse che li avevano danneggiati il provvedimento governativo di incameramento alla mano pubblica delle opere conventuali.

Le più significative attrezzature comunitarie, il Municipio e l’Ospedale, (ma ve ne sono anche altre come il Collegio Sannitico e, poi, la Prefettura, rispettivamente al posto dei conventi di S. Francesco della Scarpa e delle Carmelitane) sono il frutto della trasformazione di monasteri diventati demaniali che vennero recuperati per queste nuove destinazioni. L’autorità municipale è insediata lì dove prima c’era il convento dei padri Celestini; da subito si ricostruì la chiesa di S. Maria della Libera connessa al monastero, il quale dovendo essere molto grande, fu sfruttato, il suo sedime, per costruire intorno al 1875 il Palazzo di Città che incorporò il luogo cultuale.

Una struttura laica che ingloba uno spazio religioso, tanto che all’esterno la cappella della Libera non ha un fronte autonomo essendo omogeneizzato il suo prospetto con quello del Comune. Il momento più interessante di questo fabbricato progettato dall’architetto Gherardo Rege è la sala consiliare la cui ampia superficie sarebbe stato difficile coprire con una volta data l’altezza di interpiano contenuta per cui egli fece ricorso ad un soffitto piano sostenuto da un reticolo di travi (le quali si sostenevano mutuamente non essendoci all’epoca travi di grande luce).

L’altra zona del volume edilizio che ha rilievo architettonico è quella dove sta lo scalone che conduce ai piani superori; questa lunga scalinata è stata disegnata dall’ingegner Giuseppe di Tommaso dopo la seconda guerra mondiale durante la quale, durante l’occupazione tedesca, la scala originaria era stata distrutta da un incendio. Passiamo all’ospedale, oggi c’è la Direzione generale dell’Asrem, che sta lì dove stava il convento di S. Maria delle Grazie.

I danni prodotti dal terremoto del 1805 costrinse i religiosi a sloggiare; essi furono ospitati dai confratelli del convento di S. Giovanni dei Gelsi, monastero che pur’esso, come l’altro, costruito agli inizi del XV secolo aveva resistito allo scuotimento sismico; per accogliere i correligiosi venne aggiunta pure un’ala destinata a “dormitorio”. Insieme ai frati vennero trasferiti i libri tra i quali diversi testi di medicina perché S. Maria delle Grazie aveva una funzione ospedaliera che l’architettura eretta al suo posto viene a confermare.

Traslocano opere d’arte e cioè quadri (tra i quali uno su tela raffigurante Nostra Signora delle Grazie), arredi per quanto fossero recuperabili dalle macerie. Si dice che fu spostato a S. Giovanni dei Gelsi pure l’ossario. Fu Giuseppe Bonaparte a decidere dell’accorpamento dei due monasteri, disponendo nel contempo che il sedime di S. Maria delle Grazie diventasse un suolo comunale. Il resto delle infrastrutture civili, dal carcere al macello alla stazione ferroviaria, sono opere ex novo situate su terreni liberi ai margini dell’agglomerato abitativo. Ricapitolando, il capoluogo regionale sfrutta per la sua crescita le disgrazie, la serie dei movimenti tellurici, facendo in modo che, come sosteneva Gian Battista Vico, le cose negative volvessero in opportunità.

Francesco Manfredi Selvaggi645 Posts

Nato a Boiano (CB) nel 1956. Ha conseguito la Maturità Classica a Campobasso e poi la laurea in Architettura a Napoli nel 1980. Presso la medesima Università ha conseguito il Diploma di Perfezionamento in Storia dell’Arte Medievale e Moderna e il Diploma di Perfezionamento in Restauro dei Monumenti. È abilitato all’esercizio della professione di Architetto e all’insegnamento di Storia dell’Arte nei licei e Educazione Tecnica nelle scuole medie. Dal 1997 è Dirigente, con l’attribuzione di responsabilità nei servizi Beni Ambientali (19 anni), Protezione Civile, Urbanistica, Sismica, Ambiente. Ha avuto un ruolo attivo in associazioni ambientaliste quali Legambiente Molise, Italia Nostra sezione di Campobasso e Club Alpino Italiano Delegazione del Molise. Ha insegnato all’Università della Terza Età del Molise ed è stato membro del Consiglio di Amministrazione della Fondazione dell’Ordine degli Architetti di Campobasso, occupandosi all’interno dello stesso del progetto di Archivio dell’Architettura Contemporanea. È Giornalista Pubblicista e autore di articoli, saggi e del volume La Formazione Urbanistica di Campobasso. Le ultime pubblicazioni sono: «Le Politiche Ambientali nel Molise» (2011) e «Problemi di tutela ambientale in Molise» del 2014.

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