Dopo la quarantena
Riceviamo e volentieri pubblichiamo l’intervento di Nicolino Civitella che arricchisce il dibattito che vogliamo stimolare su “Il Molise dopo il coronavirus”. Abbiamo già pubblicato articoli di Monsignor Bregantini, Antonio Ruggieri, Gino Massullo e Rossano Pazzagli
Sulla libera (e selvaggia) competizione di mercato come strumento risolutivo dei problemi economici e sociali, si è già detto e scritto molto e dunque non c’è bisogno di spendere in merito ulteriori parole se non quelle di una rinnovata sottolineatura che essa, ponendo a proprio fondamento il profitto e non la qualità di vita, genera vantaggi a favore di pochi e rende massa da manipolare tutto il resto della popolazione, alimentando ad un tempo uno sfrenato saccheggio delle risorse naturali le cui conseguenze possono rivelarsi perniciose per le stesse condizioni di vita dell’intera umanità.
Il coronavirus offre l’occasione per rilanciare l’allarme, e in taluni casi lo si fa con toni da pulpiti religiosi, con il malcelato sottinteso di una connessione tra pandemia in atto e neoliberismo, in altri casi lo si fa più semplicemente sollecitando o auspicando la rinuncia agli allettamenti dello sfrenato consumismo che ci risucchia nel suo gorgo di edonismo, per tornare a stili di vita più sobri, attenti ai godimenti dell’anima piuttosto che a quelli smodati dei sensi.
Da qui la richiesta alla politica di revocare al potere economico-finanziario la delega a governare i processi economico-sociali e di ricondurre a sé tale ruolo al fine di porre rimedio alle storture di sistema che quel potere provoca (disuguaglianze e tutto il resto).
È il caso di aggiungere che tra gli effetti del coronavirus oltre alla scontata e grave crisi economica, va verosimilmente annoverato, fra l’altro, un molto probabile recupero di una centralità di ruolo del potere pubblico e quindi della politica.
Se però ci si addentra nelle problematiche sollevate, ci si accorge che esse diventano più complicate di quanto non appaia.
Guardando per esempio al rapporto politica – economia, si può rilevare che se nell’area dei paesi occidentali nell’ultimo mezzo secolo si è assistito ad un progressivo sopravvento dell’economia sulla politica, ciò non è accaduto in Cina dove al collettivismo comunista è subentrato un solido capitalismo di stato. Per la Cina (il 20% circa della popolazione mondiale) non si può parlare di liberismo, nuovo o vecchio che sia, bensì di un dirigismo economico che entra nel gioco dei rapporti di scambio globali con finalità volte alla esclusiva o prioritaria difesa di interessi nazionali.
Dunque un sistema in cui la politica governa l’economia. Eppure il sistema produttivo è orientato non nella direzione della sobrietà degli stili di vita bensì in una direzione simile a quella dei paesi occidentali.
Ma ci sono tanti altri stati al mondo dove è il potere politico a governare quello economico. In Russia per esempio (e al riguardo sarebbe anche interessante rilevare qual è il rapporto politica-economia negli Usa). E in quale di questi l’attenzione è rivolta ai sobri stili di vita se non là dove ad imporlo è uno stato di necessità?
Ne deriva che il controllo della politica sull’economia non garantisce automaticamente scelte economico-sociali attente al benessere e alla qualità di vita dei cittadini.
Ora, mantenendo fermo il principio, ormai ampiamente invocato , dell’opportunità che debba essere la politica e non l’economia a governare le condizioni di vita dei cittadini (e forse, come si diceva, il coronavirus darà un prevedibile impulso in tale direzione), la politica deve elaborare un modello che assuma il connotato di un valore condiviso o almeno accettato.
La popolazione cinese presumibilmente accetta o condivide, nella sua maggioranza, il modello di vita che le viene proposto (come possiamo immaginare sulla scorta di quanto abbiamo vissuto noi al tempo del nostro boom economico), in virtù del radicale miglioramento delle condizioni economiche conseguite o dell’ebbrezza che offre il dinamismo economico sociale, o magari ancora per l’orgoglio di un paese che ha un suo peso di grande rilievo negli assetti geopolitici del pianeta ecc. o per tutte le cose messe insieme.
Possiamo presumere che le contestazioni potranno nascere quando la popolazione avvertirà sulla propria pelle eventuali storture insopportabili, come l’inquinamento, magari le condizioni di lavoro stressanti o magari anche le restrizioni alla piena libertà di pensiero e quant’altro ancora.
Ecco, quello che intendo è che un modello per essere un valore deve innervarsi nel tessuto vivo della società.
Nelle nostre società occidentali, a capitalismo maturo, come si definiscono, ma anche connotate da sistemi istituzionali di natura democratica, sperimentiamo, in particolar modo in Europa, una fase in cui i nostri tradizionali assetti economici e sociali hanno subito radicali trasformazioni che non potevano non riverberarsi sui tradizionali assetti della rappresentanza politica. A sintetizzare: società liquida, rappresentanza politica a sua volta liquida.
La politica, in questa sua condizione di liquidità, è incerta o sbandata e fa fatica ad elaborare efficaci modelli di reinterpretazione del mondo.
Così si lascia sopraffare dalla paura della globalizzazione che viene, a sua volta, associata al neoliberismo (e in effetti il neoliberismo ha trovato i suoi notevoli spazi di agibilità proprio nella globalizzazione), e sembra sbandare sulla stessa tenuta del sistema democratico.
Gli impulsi che salgono dalla realtà sono contrastanti: insieme al grido di allarme per i rischi ambientali e le crescenti disuguaglianze sociali, ci sono gli addebiti alla globalizzazione individuata come causa del crescente malessere economico-sociale all’interno dei singoli stati dove per reazione si può assistere all’insorgere di pulsioni che rivendicano soluzioni di tipo nazionalistico.
Sovranismo vs globalizzazione, uno scontro che peraltro rischia di trascinare nel baratro lo stesso progetto di unità europea che già di per sé stenta a prendere quota per effetto degli squilibri economici che sono presenti al suo interno, e ancor più per effetto di un retaggio che ci ingabbia dentro categorie mentali ancora troppo pervicacemente legate ad egoismi nazionali.
Ma la globalizzazione è un processo di riassetto dei tradizionali equilibri economico sociali e quindi geopolitici a livello mondiale, un riassetto che, date le condizioni (sviluppo tecnologico ecc.) è difficile da bloccare. Il problema, allora, è quello di governarlo. Teoricamente dovrebbe essere governato da un’istituzione politica globale che però al momento non solo non è in alcun modo ipotizzabile ma è del tutto al di là di ogni possibile immaginazione.
Il che significa seguire altre strade. Certo non quella di ricorrere ai nostri tradizionali nazionalismi dell’Otto-Novecento, piuttosto occorre immaginare un governo del processo globalizzazione che passi attraverso la formazione di grandi aree geopolitiche, che di fatto si vanno già assestando, e qui è evidente tutta la fragilità dell’UE come area geopolitica capace di porsi come soggetto adatto a concorrere allo scopo.
Ecco, in tale ottica il processo di integrazione europea andrebbe non ostacolato (assecondando i subdoli tentativi delle grandi potenze, interessate a trasformare l’Europa in tanti piccoli cortili di casa) ma accelerato, e ciò nell’interesse di tutte le popolazioni del vecchio continente.
La politica dovrebbe spendersi molto di più su questo tema seguendo strade più ardite, per esempio ricercando convergenze politico-culturali tra partiti dei vari paesi appartenenti ad una medesima famiglia politica (peraltro solo attraverso questa strada sarebbe possibile portare direttamente nelle istituzioni europee le istanze dei cittadini, attualmente mediate dai governi), e ciò in considerazione del fatto che il progetto di costruzione europea sicuramente va inserito come elemento prioritario nella costruzione di quel modello cui si faceva prima riferimento.
E per restare in tema di modello, trovo estremamente interessante quanto scritto da Gino Massullo nel suo intervento apparso il 22 u.s. su questa pagina.
Massullo, nel ritenere prioritaria la riaffermazione dei partiti come strumenti di lotta politica e consapevole della necessità che la politica abbia il suo radicamento nella società, ipotizza un partito capace di fondare la propria rappresentanza su un nuovo blocco storico a livello planetario, nazionale ed anche locale, con specifico riferimento anche al Molise.
Ma quali i vari interessi sociali che potrebbero convergere a formare questo nuovo blocco storico?
Ed ecco qui ad indicarne una serie. Per esempio “Tutte le lavoratrici e i lavoratori non più disposti a barattare la salute in cambio di lavoro; tutti quegli agricoltori, vecchi e nuovi, che hanno compreso che il loro ruolo, la loro stessa possibilità di produrre reddito, passa per un agricoltura multifunzionale capace di emanciparsi dalle multinazionali delle sementi e dalla dipendenza dal settore della distribuzione(…) Tutti i giovani professionisti coinvolti in attività connesse alle nuove tecnologie che possono trovare collocazione, in particolare nelle aree interne, senza forti impatti ambientali e sociali; tutti gli imprenditori interessati alla produzione di beni ed alla creazione di lavoro e non alla speculazione finanziaria; Tutti quelli convinti che la diffusione dell’automazione consente e richiede una revisione degli orari di lavoro nella direzione di lavorare meno lavorare tutti; tutti quelli che sono convinti che pagare le tasse non è soltanto eticamente e legalmente giusto ma necessario per garantire servizi pubblici adeguati, per non dover morire per assenza di posti letto negli ospedali alla prima epidemia; tutti quelli convinti che una società più frugale nei consumi privati e più ricca di servizi pubblici sia migliore. Tutti gli intellettuali non compromessi con l’ordine dominante. Siamo pochi? Non credo. Ci servono soltanto strumenti di aggregazione.”
Una elencazione certamente esemplificativa sulla quale sembra anche pesare l’ombra della difficile contingenza del momento, ma essa credo voglia limitarsi ad indicare un percorso che può essere suscettibile di ulteriori ampliamenti e articolazioni. L’esemplificazione va comunque nella giusta direzione, ossia in quella della elaborazione di un modello. Solo che il tutto richiede solide elaborazioni politico-culturali che siano a loro volta traducibili in slogan di bandiera capaci di mobilitare le sensibilità sociali, tipo il movimento di Greta Thunberg. E a me in proposito viene a mente anche il ’68, per rimanere sulla scia della conflittualità sociale che a ragione Massullo evoca nel suo articolo come fattore atto ad innervare nel tessuto sociale nuovi valori.
Una breve nota di appendice per il Molise.
La grave crisi economico-sociale che inevitabilmente si svilupperà nella fase immediatamente successiva a quella della pandemia in atto, in questa regione, già stremata dalla precedente crisi del 2008, avrà effetti… Ognuno provi a dire la sua.
Credo che bisognerà abbandonare la pia illusione che la salvezza possa arrivare dai tratturi. Anche a voler essere generosi con tale illusione, la sola titolazione dei progetti messi in campo ne stronca alla radice ogni germoglio.
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