Pandemia ed eterotopia

di Raffaele K. Salinari

Negli anni ‘80 del secolo scorso Michael Foucault elaborò il termine «eterotopia» che, nella sua forma più essenziale, definisce «quegli spazi che hanno la caratteristica di essere connessi a tutti gli altri ma in modo da sospendere, neutralizzare, invertire l’insieme dei rapporti che essi rispecchiano o riflettono». Cinquant’anni prima, dall’altra parte del mondo, in Argentina e precisamente nel 1929, si spegneva, dopo una «imperiosa agonia» Beatriz Viterbo.

Questa splendida figura di donna era amata dallo scrittore forse più immaginifico della storia della letteratura fantastica, dunque “eterotopica” per eccellenza: Jorge Luis Borges che, intorno a lei e per lei, creò l’immagine dell’Aleph, il «microcosmo di alchimisti e cabalisti»: una sfera incredibilmente piccola e luminosa, rinchiusa in un angusto sottoscala, attraverso la quale «si riflettono ed emanano, in uno stesso momento e in uno stesso luogo, senza sovrapposizioni o scarti cronologici, tutti i luoghi e tutti i momenti esistenti e vissuti dal cosmo».

Eccoci allora, in piena pandemia da Covid-19, all’interno della più grande eterotopia mai conosciuta dalla nostra generazione, in cui, come dice Foucault, la presenza ubiquitaria del virus è in grado di «sospendere, neutralizzare, invertire l’insieme dei rapporti» facendoci vedere il resto del mondo, chiusi nello spezio della nostra casa, come da un Aleph borgesiano. Non a caso il grande filosofo della biopolitica – e non è forse la gestione della crisi sanitario-economica pienamente tale? – portava a esempio di luoghi eterotopici per eccellenza gli ospedali e i cimiteri.

E come negare che sono quelli, nella realtà del nostro quotidiano, i topos di riferimento? A questi luoghi “pieni” si contrappongono, però, altrettanti “vuoti”. Le strade, le città, le campagne. Anche questi, visti dalla lente del nostro Aleph personale, lo schermo televisivo o quello del computer, sembrano divenuti potentemente eterotopici: la realtà appare rovesciata e invertita, ci specchiamo in questo vuoto e vediamo, forse finalmente, noi stessi. Ci mettiamo la mascherina e ci togliamo la maschera. Ci curiamo e capiamo che siamo noi la malattia che la Natura vuole contenere, fermare, mettere in condizioni di nuocere di meno, se lo comprendiamo in tempo.

E allora, forse è vero che «è nel vuoto che avvengono le cose», come dice un’antica sentenza eraclitea. E oggi davanti al vuoto creato dal distanziamento sociale e dal blocco delle attività quotidiane, questa suggestione ci restituisce tutto il valore fondativo ed enigmatico della sovranità del silenzio. Anche nella benedizione invocata dal Papa per tutta l’umanità soffrente, l’umanità dimentica di se stessa, oramai prigioniera dietro il muro di esclusione che ha creato per tiranneggiare le altre forme create, ciò che ha colpito è stato il vuoto di Piazza San Pietro, l’assenza più che la presenza.

E di dare un senso, una prospettiva escatologica a questo vuoto che il gesto papale si è fatto carico, assumendo su di sé l’onere di invocare il perdono divino per ciò che siamo diventati, non solo per ciò che subiamo o meglio, il perdono perché subiamo a causa di ciò che siamo diventati. La potenza dell’invocazione è dunque la stessa del vuoto esistenziale dal quale nasce e si espande, nella speranza che da questa dissoluzione eterotopica si coaguli in ciascuno la consapevolezza – spaventosamente affascinante – che noi e il virus facciamo parte della stessa Esistenza.

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