Il Matese covo di briganti, un aspro monte
di Francesco Manfredi-Selvaggi
È uscito alla fine dello scorso anno un volume sul brigantaggio nel Molise. L’autore Teodorico De Blasio, essendo boianese ha dedicato particolare attenzione ai fatti che si sono svolti nell’area matesina. Alcune annotazioni a margine.
Per capire il brigantaggio, trattandosi di un fenomeno complesso oltre che duraturo persistendo nel Meridione d’Italia dalla fine del 1700 alla seconda metà dell’800, occorre individuare più temi di riflessione. Uno di carattere preliminare ed è quello che ha interessato essenzialmente il territorio rurale distinguendosi da altre forme di criminalità che invece si sono sviluppate prevalentemente nelle aree urbane. In particolare il brigantaggio ha avuto quale sede di elezione la montagna da cui i briganti partivano per compiere le loro scorrerie.
Le zone montane presentano condizioni logistiche ideali, prendi il Matese, per sfuggire alla cattura da parte delle forze di polizia, quali l’essere luoghi impervi, una copertura forestale estesa fatta di boschi, peraltro impenetrabili, valloni profondi e inaccessibili (a volte anche agli stessi briganti come nel caso delle gole del Quirino), la presenza di grotte (prendi la Grotta del Fumo che prende il nome dal vapore acqueo che proviene dall’interno dell’antro le cui pareti trasudano umidità e che la rende scarsamente percepibile dall’esterno) utilizzate come nascondigli.
La neve accumulata in queste cavità consente l’approvvigionamento idrico ai banditi i quali, altrimenti, non avrebbero modo di rifornirsi d’acqua data la scarsità di sorgenti in quota (Capodacqua, S. Egidio e poco più) a causa del carsismo che informa il massiccio matesino al quale si deve l’esistenza delle caverne, una sorta di corrosione della roccia dovuta all’acqua. L’assenza di fonti determina, inoltre, l’assenza di insediamenti insediativi in altitudine e, quindi, l’assenza di presidi stabili di sorveglianza del territorio, consentendo piena libertà di movimento alle bande di fuorilegge.
Non vi sono neanche, per le medesime ragioni, case sparse se non le rozze capanne in cui si riparano i pastori durante l’alpeggio. Per l’asprezza dei rilievi i percorsi sono assai accidentati rendendo difficile l’opera di repressione del banditismo. Le principali vie che permettono di raggiungere il versante opposto di questo gruppo montuoso sono quelle che lo scavalca a Sella del Perrone dove venne costruito un posto di guardia nel periodo della lotta al brigantaggio; (le torri di vedetta non sarebbero state utili perché la vista è impedita dagli alberi), trattandosi di un punto di passaggio obbligato, e quella che passa per le Fonti di S. Nicola dal nome di un antico monastero che qui sorgeva i cui frati, secondo una leggenda locale, nel medioevo depredavano i viandanti, per cui possono essere considerati briganti ante-litteram.
Le tane dei briganti sono i posti più impensati come gli alberi cavi di grandezza notevole: si racconta che dentro un faggio di enorme dimensione situato sul Colle Samuele, nei pressi di Campitelo, il capobanda, appunto Samuele, e i suoi 11 accoliti si spartiscono, addirittura a cappellate, le tante monete d’oro pagate dalla famiglia per ottenere il riscatto di Ignazio Tiberio. La pianta, che abbiamo detto era cariata, oggi non c’è più. I covi dovevano essere abbastanza capienti perché i briganti non agivano in maniera individuale bensì per bande perché così i gruppi, purché organizzati, hanno una forza superiore a quella del singolo.
Le comitive di briganti erano più d’una tanto era esteso il ribellismo alla metà del XIX secolo che il complesso montano del Matese era figurativamente appena capace di contenerle. La numerosità delle bande porta a denominare questo fenomeno brigantaggio. Un’altra considerazione è che i briganti, a differenza dei malviventi di città, sono dei professionisti nel senso che quando esercitano la professione di brigante non possono svolgere altro lavoro, mentre nei centri abitati si può fare l’operaio di giorno e il ladro di notte.
Invece, l’attività di brigante richiede che sia esclusiva non potendosi svolgere contemporaneamente ad altri impegni lavorativi; con un’espressione moderna esso è full time e non part-time. Infatti, le lavorazioni agricole, che sono quelle nelle quali all’epoca è coinvolta la quasi totalità della popolazione molisana, devono rispettare delle scadenze continue e precise, dall’aratura alla semina al raccolto e, poi, la potatura, la vendemmia, ecc. e questo non permette l’allontanamento dai campi per un lungo tempo e, specialmente, all’improvviso, magari per evitare l’arresto.
Nei paesi del comprensorio matesino l’agricoltura la si pratica congiuntamente alla pastorizia. Nella stagione estiva gli uomini con le loro greggi si trasferiscono sulle praterie dell’altopiano: dovendo sorvegliare ed accudire gli animali in modo costante è impossibile che si vada via anche se per pochi giorni per compiere qualche scorreria. A proposito dell’alpeggio si segnala la disposizione del comando militare di zona che vietava a chiunque e, quindi, anche ai pastori di portare con sé, salendo sui monti, scorte alimentari per paura che fossero destinate ai briganti ai quali bisognava “tagliare i viveri”.
C’era, infatti, una certa complicità tra le persone del ceto popolare e i compaesani che facevano i fuorilegge. I nemici erano rappresentati non solo dagli stranieri, l’esercito piemontese, ma pure dalla classe borghese e con questa affermazione siamo passati ad un ulteriore argomento, quello della connotazione politica del brigantaggio. Tale movimento se non ha caratteristiche di rivolta rivoluzionaria contiene, sicuramente, tratti del ribellismo.
Per spiegare bene quest’aspetto bisogna partire da lontano, dal 1805 allorché fu abolito il feudalesimo e i terreni vennero privatizzati e sottratti all’uso comune, qualcosa di simile a quanto raccontato nelle Terre del Sacramento con le lotte dei contadini che rivendicavano i loro antichi diritti sulla tenuta ecclesiastica passata in proprietà a un possidente locale. I “galantuomini” che sostituiscono il feudatario praticano l’enclosure, la recinzione dei campi, sul modello inglese, la quale diede avvio alla rivoluzione industriale e così la comunità rimase esclusa dalla fruizione, seppure parziale, di queste superfici agricole.
La borghesia sposa il liberalismo che significa anche assenza di lacci e lacciuoli nella gestione dei fondi agrari, contrapponendosi all’ancien regime con i suoi privilegi riservati all’aristocrazia e le limitatissime garanzie assicurate ai piccoli coltivatori e dà inizio, sotto tale bandiera, al processo di unificazione nazionale, successivo bersaglio dell’azione violenta dei briganti. L’Unità d’Italia significa anche la formazione di una entità statuale fortemente centralizzata come non si era mai vista prima, all’epoca del Regno delle Due Sicilie.
Lo Stato che nasce si connota per il rilevante peso attribuito all’apparato burocratico (di per sé ostile agli strati sociali inferiori che, analfabeti, non comprendono gli atti amministrativi) manifestandosi nelle nuove province con il Palazzo della Prefettura, architetture imponenti quale quella di Campobasso. Il conflitto diventa impari e il brigantaggio viene sconfitto, si sta per dire del tutto, come poterono sperimentare Cafiero e Malatesta, anarchici che propugnano l’abolizione dello Stato con la Banda del Matese che sul finire di quel secolo tentarono di far insorgere, ma inutilmente, i discendenti dei briganti contro l’autorità statale.
Francesco Manfredi Selvaggi645 Posts
Nato a Boiano (CB) nel 1956. Ha conseguito la Maturità Classica a Campobasso e poi la laurea in Architettura a Napoli nel 1980. Presso la medesima Università ha conseguito il Diploma di Perfezionamento in Storia dell’Arte Medievale e Moderna e il Diploma di Perfezionamento in Restauro dei Monumenti. È abilitato all’esercizio della professione di Architetto e all’insegnamento di Storia dell’Arte nei licei e Educazione Tecnica nelle scuole medie. Dal 1997 è Dirigente, con l’attribuzione di responsabilità nei servizi Beni Ambientali (19 anni), Protezione Civile, Urbanistica, Sismica, Ambiente. Ha avuto un ruolo attivo in associazioni ambientaliste quali Legambiente Molise, Italia Nostra sezione di Campobasso e Club Alpino Italiano Delegazione del Molise. Ha insegnato all’Università della Terza Età del Molise ed è stato membro del Consiglio di Amministrazione della Fondazione dell’Ordine degli Architetti di Campobasso, occupandosi all’interno dello stesso del progetto di Archivio dell’Architettura Contemporanea. È Giornalista Pubblicista e autore di articoli, saggi e del volume La Formazione Urbanistica di Campobasso. Le ultime pubblicazioni sono: «Le Politiche Ambientali nel Molise» (2011) e «Problemi di tutela ambientale in Molise» del 2014.
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