Quando le industrie scesero al sud
È ormai passato mezzo secolo dall’avvio dell’industrializzazione del Meridione. In quegli anni nel Molise “atterra” la FIAT e si realizzarono i 3 Agglomerati Industriali. Dopo la fase iniziale con diverse iniziative non si è fatto molto in tale comparto in termini di accrescimento delle unità produttive. Al contrario, alcune fabbriche hanno chiuso e i relativi capannoni stanno a ricordare “come eravamo”.
Alla fine degli anni ’60 l’Italia cominciò a cambiare direzione nel campo industriale. Fino ad allora non si era pensato ad altro che a creare nuove industrie, non importa se avessero congestionato le città del Settentrione, che erano il luogo bello pronto per l’installazione di attività produttive in quanto dotate di arterie di grande comunicazione, linee elettriche capaci di soddisfare le richieste della produzione, e così via.
Stavano per terminare gli anni del “boom economico” che si concluderanno definitivamente con la crisi petrolifera del 1972. In quel tempo era considerato non solo prioritario, bensì urgente, sostenere lo sviluppo delle imprese, a qualsiasi costo, senza guardare troppo per il sottile. Il Paese doveva proseguire lungo la strada del rilancio dell’economia la cui prima fase è stata quella della Ricostruzione post-bellica; non bisognava porsi dei dubbi e nessuno li esprimeva seppure li nutrisse.
Le perplessità erano solo quelle degli urbanisti per una crescita esponenziale delle aree urbane nelle quali era affluita popolazione del Sud che aveva trovato impiego nelle fabbriche e dove l’inquinamento ambientale dovuto all’emissione dei fumi dalle ciminiere cominciava ad avvertirsi. Forse questa situazione al limite, che stava, cioè, diventando insostenibile è ciò che spiega una certa inversione di rotta, quella di puntare all’industrializzazione del Meridione.
Da qui, peraltro, provenivano le masse operaie che lavoravano nelle aziende settentrionali e, quindi, lo spostamento degli stabilimenti nel Mezzogiorno era funzionale anche a ridurre l’emigrazione; questo era, ed è, seppure in forme diverse, un problema atavico che aveva preso avvio alla fine del XIX secolo e che non si era del tutto risolto, se parliamo dei flussi migratori diretti verso l’estero, neanche con l’offerta di occasioni lavorative nel “triangolo industriale”, una semplice valvola di sfogo.
Non è pienamente soddisfacente la spiegazione, per alcuni circondari meridionali in cui vi era una forte disoccupazione che poteva dar vita a fenomeni di criminalità, ad esempio la Campania, che l’occupazione fornita dalle unità produttive, servisse porre un argine a ciò; la nascita dell’Alfa Sud di Pomigliano d’Arco, proprietà delle Partecipazioni Statali, risponderebbe a tale logica.
Ancora di più, almeno in parte, non è condivisibile la rivendicazione del merito, per così dire, del trasferimento di industrie da su a giù, come la Fiat a Termoli, da parte dei rappresentanti politici di un dato territorio, nel nostro caso della cittadina adriatica la cui amministrazione era guidata in quel tempo dal prof. Girolamo La Penna, un politico di spicco. In generale, non si può dire che abbia condizionato particolarmente le determinazioni il calcolo elettoralistico, quanto piuttosto un disegno strategico.
Con la vicenda della Fiat, che tutt’oggi è la principale realtà produttiva del Molise, siamo entrati nel tema della formazione di un consistente settore secondario qui da noi. Formazione vera e propria perché in precedenza erano davvero sporadiche le presenze industriali nella regione. Le entità aziendali maggiori erano tutte del comparto agroindustriale; preesisteva il pastificio La Molisana che aveva una tradizione industriale notevole legata alla città di Campobasso che con il grano ha un lungo rapporto trovandosi al centro del medio Molise il quale ha sempre avuto una vocazione cerealicola ed erano di poco precedenti lo Zuccherificio e il Conservificio discendenti indiretti o parenti collaterali, ma comunque stretti, della grandiosa opera di bonifica che aveva “redenti” i terreni del Basso Molise sui quali erano impiantate le colture, le barbabietole da zucchero e i pomodori.
Di sicuro, c’erano pure altre imprese di trasformazione, ma di minore rilevanza. In definitiva, in quel lontano 1970 se non eravamo all’anno zero, poco ci mancava: è questa la data fatidica in cui si può collocare l’ingresso nel mondo industriale della regione, in verità vi si affaccia appena. Per il Molise costituisce la prima industrializzazione, mentre altrove, nella fascia superiore della nazione, in quel medesimo arco temporale si dà già avvio alla seconda (e poi alla terza quindi alla quarta, industria 4.0).
L’industrializzazione va ad interessare un territorio vergine nel quale è forte il carattere agricolo per cui i molisani quello stesso capannone che al Nord era ormai una cosa “acquisita” accettata nel modo di sentire collettivo, dovette sembrare come un oggetto singolare, alla cui visione non erano abituati. Seppure rimase per un po’ lo stupore negli occhi dei corregionali non si fece resistenza, bensì si stabilì una convivenza pacifica con quelle inconsuete sagome. Divennero familiari, insieme ai grandi volumi pure gli sfiatatoi, gli sbuffi di vapore, la ragnatela di tubi messi in bella vista negli opifici chimici.
L’Agglomerato Industriale della Valle del Biferno ha ben tre stabilimenti di questo tipo, classificati “industrie a rischio di incidente rilevante”, una sorta di piccolo distretto chimico, sulla cui pericolosità l’opinione pubblica è stata sensibilizzata solo recentemente da forze che si oppongono al progetto proposto di ampliamento di uno di essi, la Momentive. Non è una questione di prima o seconda industrializzazione (che traslate nello spazio sono, comunque, coeve per quanto detto) la preoccupazione dell’impatto ambientale delle opere che si manifesta oggi, per entrambe, per l’affermarsi nelle comunità di una coscienza ecologica.
Per tale aspetto, dunque, le fasi, la numero 1 e la n. 2, si assomigliano perché pur se avvengono in zone differenti sono contemporanee. La “nostra” prima industrializzazione si presenta migliore della loro prima industrializzazione (il partire in ritardo può avere risultati positivi) la quale ultima ha rappresentato un momento convulso per quella fretta di mettere in moto continue iniziative imprenditoriali, a volte in maniera scoordinata, disordinata, lo si è descritto al principio, che aveva nei decenni ’50 e ’60 la società italiana.
L’industrializzazione che si voleva esportare al Sud, facendo tesoro dell’esperienza, compresi gli errori, di quanto avvenuto al Nord doveva essere, invece, pianificata per cui fu anticipata da una serie di lavori di infrastrutturazione, innanzitutto la strada a scorrimento veloce, un tratto è la Bifernina, che collega i poli produttivi, di Pozzilli, Campochiaro e Termoli, che vengono dotati di servizi appropriati, quindi di una “preindustrializzazione”. Rispetto alla prima industrializzazione che ha riguardato il Nord Italia, quella nostrana differisce anche per il non avere quale ubicazione di riferimento la collocazione urbana.
Il bacino di manodopera non può coincidere qui con un singolo centro, neanche con uno dei principali poiché hanno tutti una consistenza demografica ristretta. È su una base comprensoriale che si riesce a raggiungere la soglia di individui da occupare in fabbrica. Questo territorio ha il più alto indice di ruralità della nazione e ciò ha portato, qualche imprenditore, fu una caratteristica della Pantrem, ad introdurre il sistema del lavoro a commessa a domicilio nelle tante case sparse della campagna molisana, svolto dalle donne.
C’è anche l’operaio mezzadro che alterna i turni lavorativi in azienda con le pratiche agricole, una modalità consentita dalla struttura famigliare delle microimprese.
Francesco Manfredi Selvaggi637 Posts
Nato a Boiano (CB) nel 1956. Ha conseguito la Maturità Classica a Campobasso e poi la laurea in Architettura a Napoli nel 1980. Presso la medesima Università ha conseguito il Diploma di Perfezionamento in Storia dell’Arte Medievale e Moderna e il Diploma di Perfezionamento in Restauro dei Monumenti. È abilitato all’esercizio della professione di Architetto e all’insegnamento di Storia dell’Arte nei licei e Educazione Tecnica nelle scuole medie. Dal 1997 è Dirigente, con l’attribuzione di responsabilità nei servizi Beni Ambientali (19 anni), Protezione Civile, Urbanistica, Sismica, Ambiente. Ha avuto un ruolo attivo in associazioni ambientaliste quali Legambiente Molise, Italia Nostra sezione di Campobasso e Club Alpino Italiano Delegazione del Molise. Ha insegnato all’Università della Terza Età del Molise ed è stato membro del Consiglio di Amministrazione della Fondazione dell’Ordine degli Architetti di Campobasso, occupandosi all’interno dello stesso del progetto di Archivio dell’Architettura Contemporanea. È Giornalista Pubblicista e autore di articoli, saggi e del volume La Formazione Urbanistica di Campobasso. Le ultime pubblicazioni sono: «Le Politiche Ambientali nel Molise» (2011) e «Problemi di tutela ambientale in Molise» del 2014.
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