La teoria del Molise anonimo in tutti i sensi
L’articolo di ieri, «La teoria del Molise senza speranza», ha scatenato una serie di commenti sui social che hanno evidenziato la necessità di una visione e di una programmazione del futuro del nostro territorio, per quanto riguarda l’accoglienza e il turismo, meno improvvisata e maggiormente collegata a tutte le altre attività economiche o di servizio pubblico (si veda, in questo senso e solo come esempio, «Un’idea per il Molise»).
Dispiace molto che tra i commenti – tutti ritenuti degni di considerazione, anche quelli più aggressivi – ce ne siano alcuni in forma anonima, postati con falsi profili. In genere, l’anonimato viene utilizzato quando si ha paura delle reazioni da parte di chi è oggetto di critica. «Il Bene Comune» o il sottoscritto non hanno mai messo in atto azioni violente contro chi ha affermato opinioni diverse dalle proprie, né gestiscono assunzioni o incarichi così da poter decidere ritorsioni contro chi si propone nel dibattito, anche in maniera aggressiva, con tesi contrarie a quelle da loro sostenute.
L’anonimato viene utilizzato anche in quelle situazioni imbarazzanti in cui si cerca di difendere le persone care o se stessi e, in quel caso, l’esposizione delle proprie tesi in prima persona possono essere subito attaccate perché espresse da persona di parte. Se fosse questo il caso, però, vorremmo suggerire non c’è niente di male a scrivere una cosa di questo tipo: “la mia opera (o quella di mio figlio, o quella del mio amico, o quella del mio fidanzato…) è bella e chi la definisce brutta ha torto”. Magari spiegando perché, sostenendo la propria tesi con argomentazioni logiche.
Va detto subito che l’articolo di ieri non era una critica all’autore del video. Non sappiamo chi sia e non abbiamo voluto saperlo prima di scrivere, pur correndo il rischio di criticare il lavoro di un amico o di un conoscente. I lavori artistici, secondo noi, non vanno criticati perché soggettivi: vanno commentati, interpretati. E ciò gratifica l’autore perché sente l’attenzione degli altri sulle cose che crea. Certo, si può dire liberamente “mi piace” o “non mi piace” o prodursi in una recensione, che possa servire all’autore senza denigrarlo, ma la soggettività così peculiare dell’espressione artistica o dei tentativi di avvicinarsi all’arte, soprattutto in realtà piccole come la nostra, dovrebbero essere comunque sostenuti.
L’articolo, dunque, non era una recensione ma un commento molto critico nei confronti di chi ha commissionato il video. Chi viene delegato a spendere i soldi di una comunità deve mettere in conto la critica. Non solo quella delle opposizioni, quando esistono, ma anche quella dell’opinione pubblica, dei giornalisti che sono chiamati a questo compito e dei cittadini che li hanno delegati, con il voto, a spendere i soldi delle loro tasse.
Perché commissiono questo video? Quali obiettivi deve raggiungere? Come valuto il raggiungimento degli obiettivi previsti? Quali sono le cose che la persona incaricata di realizzarlo deve evitare e quali deve comunque inserire nella narrazione (per rispettare il mio mandato e non i miei gusti personali)? Queste sono le domande che dovrebbe porsi chi commissiona un’opera pubblica o elargisce contributi per un evento. Non soltanto nel caso di un video ma anche di un palazzo di rappresentanza, di una statua, di un concerto, di una strada, di una sagra di paese…
Qualcuno ha scritto che, criticando tutto, si rischia di non crescere come territorio. Noi, invece, siamo convinti del contrario. Criticando – non in maniera unilaterale ma argomentando le proprie tesi – si cresce: ecco perché negli ultimi quarant’anni non siamo cresciuti. Perché abbiamo barattato l’anestesia del nostro giudizio critico con il posticino per il figlio, con l’incarico per il nipote, con la quiete che dà l’ignavia.
Qualcuno ha scritto che l’articolo è scandaloso. Siamo d’accordo. Se un articolo non scandalizza non serve a niente. E, anche qui, lo scandalo non va riferito a chi ha realizzato il video ma a chi ha distrutto il territorio e poi cerca di far passare come vera una realtà che vera non è.
Qualcun altro ha scritto che l’articolo è “muffa”. Gratificante anche questa attestazione di stima: la muffa si produce solo su cose buone; inoltre, è tipica di cose vecchie, antiche… un attestato di coerenza, dunque, alle cose che ripetiamo da tanto tempo.
Siamo convinti da oltre trent’anni – anche se ormai non ci
speriamo più – che il Molise possa cambiare solo se faremo nostra la responsabilità
dell’impegno intellettuale, se eviteremo il silenzio quando esprimere la nostra
opinione potrebbe causare danni o fastidi, se eviteremo di esprimerla solo per
difendere i nostri cari o il nostro orticello.
E, per evitare che l’orticello rimanga almeno
dignitoso, dovremmo evitare di esprimerci in forma anonima. Non c’è niente di
più degradante.
Giovanni Petta76 Posts
È nato nel 1965 in Molise. Ha pubblicato le raccolte poetiche «Sguardi» (1987), «Millennio a venire» (1998) e «A» (2016); i romanzi «Acqua» (2017), «Cinque» (2017) e «Terra» (2021) ; il saggio giornalistico «L'Italia delle regioni, il Molise dei ricorsi» (2001) e, con lo pseudonimo di Rossano Turzo, «TurzoTen« (2011) e «TurzoTime» (2016). Allievo di Mogol, ha inciso «Non crescere mai» (1993), «Trema terra trema cuore» (single, 2003), «Il bivio di Sessano» (2012). Ha diretto le testate «Piazzaregione» e «L'interruttore». Ha coordinato l'inserto molisano de «Il Tempo».
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