Beni mobili in bene immobile, il museo

di Francesco Manfredi-Selvaggi

In genere le realtà museali molisane sono collocate in edifici di interesse storico, dal Museo Sannitico nel palazzo Mazzarotta nel capoluogo regionale, all’Antiquarium nell’ex convento di S. Maria delle Monache a Isernia alla raccolta museale contenuta nelle case sovrapposte al teatro di Altilia. Così gli oggetti esposti e la sede che li accoglie si esaltano a vicenda.

La bella chiesa del Beato Stefano a Sepino è diventata un bell’auditorium e non è l’unico caso nel Molise di edificio di culto trasformato in sala per convegni perché la stessa cosa è successa a Campobasso, Roccamandolfi, Vastogirardi, ecc.; non si sa se la trasformazione d’uso sia sempre legata alla necessità di avere un locale per incontri culturali, rappresentazioni teatrali e così via oppure sia stata, in qualche modo, la giustificazione per ottenere i finanziamenti per il restauro del bene monumentale.

Sono rare le architetture religiose utilizzate come spazi museali, succede solo a Trivento nella chiesa della Trinità, mentre tale destinazione appare maggiormente appropriata per i palazzi nobiliari, vedi il palazzo Mazzarotta che è la sede principale del museo molisano, il Museo Sannitico. Per il palazzo Colagrossi a Boiano la richiesta dei fondi per l’acquisto e il recupero, poi concessi dall’ex Cassa per il Mezzogiorno, al fine di adattarlo a raccolta di reperti archeologici non era dettata da un’esigenza autentica tanto che oggi accoglie le adunanze del Consiglio comunale e anche la collezione dei fossili raccolti sul Matese dal prof. Mainelli è sparita dai vani del pianoterra (in verità, vi è stata per poco tempo).

Non vi è mai nella nostra regione un edificio costruito appositamente per essere un museo, salvo quello dell’Homo Aeserniensis nella località La Pineta del capoluogo pentro presso il sito della scoperta dei resti paleontologici. La progettazione di un museo o, perlomeno, il suo dimensionamento è, in effetti, una faccenda complessa perché non si è mai abbastanza sicuri della quantità e tipologia di oggetti che dovrà ospitare.

Tanto più nei tempi attuali per cui gli oggetti di età antica da custodire in un museo non sono frutto di scavi archeologici programmati, non ve ne sono in corso qui da noi se non a Pietrabbondante la domus publica e il templio nel sito di Cantoni, vicino a Altilia, bensì di rinvenimenti casuali come è successo durante la realizzazione di un metanodotto in Alto Molise, negli agri di Vastogirardi e S. Pietro Avellana.

Quando nacquero le istituzioni museali, nel XX secolo, era abbastanza facile determinare il fabbisogno di spazio per contenerli in quanto il materiale archeologico venuto alla luce fino ad allora era davvero limitato, essendosi da poco avviate le ricerche riguardanti la città romana di Saepinum e il santuario italico ai piedi di m. Caraceno e non si era certi di ritrovamenti abbondanti. Bisogna poi considerare che i pezzi di pregio erano contesi dal mercato antiquario dove operavano acquirenti senza scrupoli quali quelli che vendettero la Tavola Osca e l’iscrizione Ad Calidium rispettivamente al British Museum e al Louvre; si tratta di manufatti di grandezza contenuta e, perciò, facilmente (e di nascosto) trasportabili all’estero, mentre quelli, a volte, di analoga qualità, di peso consistente rimasero, per così dire, in casa.

Tra le sedi in cui furono accolti vi è l’Antiquarium di Isernia che ha la natura di una rassegna di opere, per lo più risalenti all’epoca della dominazione di Roma, conclusa in sé stessa, non espandibile, un museo che si identifica nella raccolta medesima, un po’, per intenderci, alla stregua di una collezione di francobolli del passato ormai completata. Per tale tipo di musei che immaginificamente definiamo cristallizzati è possibile calcolare esattamente la superficie d’ingombro, per gi altri è impossibile tale è l’aleatorietà del numero e delle caratteristiche dei beni storici da inserire all’interno negli anni a venire.

Si è appena detto “beni” che, in prevalenza, in una realtà museale sono “mobili”, secondo la terminologia della legislazione sul patrimonio culturale, anche se non è raro imbattersi durante la visita in lacerti di “beni immobili”. L’installazione di questi ultimi è un’ardua impresa avendo, poco senso collocarli in una vetrina come si fa per tutto il resto. Un esempio illuminante che abbiamo a portata di mano sono i riquadri di pavimento musivo provenienti dall’area del tempietto sannita di S. Giovanni in Galdo appesi alla parete di un corridoio della Prefettura di Campobasso nella zona di rappresentanza.

Premesso che la conservazione in situ seppure encomiabile non era proprio fattibile a pena del loro deperimento e che la scelta di trasportarli nel Palazzo del Governo dovette dipendere dal fatto che prima il Museo Sannitico non aveva locali adeguati, allocato com’era al piano terra dell’Istituto Tecnico, si rileva, comunque, che la disposizione in verticale, come fossero quadri, e la suddivisione in pannelli distinti, separati fra loro, di quello che era un piano di calpestio unitario non rende giustizia del mosaico.

Il campo della musealizzazione delle testimonianze archeologiche, lo dimostra pure il caso appena illustrato, è assai ampio. Un erudito del posto, Bonifacio Chiovitti, seguendo un modo, o meglio una moda, in voga nell’800 curò l’allestimento del giardinetto che sta alle spalle del Comune di Bojano “arredandolo” con ritrovamenti della Bovianum Vetus, un piccolo museo archeologico all’aperto, operazione consentita dalla materia di cui sono costituiti questi elementi (iscrizioni, rocchi di colonne, bassorilievi tombali, tra gli altri) che è la pietra, non soggetta ad alterazione a causa degli agenti atmosferici, operazione sconsigliata per la terracotta.

Per Altilia si è proposta alcuni decenni fa la creazione di un parco archeologico il quale ha la funzione soprattutto, come si conviene ad un parco, di proteggere quanto è emerso in superficie del Municipio romano e, nel contempo, i settori dell’insediamento non ancora esplorati, quindi una tutela “preventiva”; le strade del castrum, il cardo e il decumano, vennero reinterpretate come una specie di gallerie espositive, percorrendo le quali, aiutati dalle tabelle descrittive, si osservano le emergenze artistiche che compongono la città.

Ad Altilia, in corrispondenza della summa cavea del teatro, vi è uno spazio museale che, però, non è dedicato a questo centro, bensì al sito di S. Pietro in Cantoni; a Pietrabbondante a differenza di come ci sarebbe da attendere il museo sta lontano dal santuario e così, in definitiva, in ambedue le aree manca un’entità museale nella quale gli oggetti in essa custoditi siano in diretto contatto con il sito da cui provengono favorendo, in questa maniera, la loro contestualizzazione.

Francesco Manfredi Selvaggi645 Posts

Nato a Boiano (CB) nel 1956. Ha conseguito la Maturità Classica a Campobasso e poi la laurea in Architettura a Napoli nel 1980. Presso la medesima Università ha conseguito il Diploma di Perfezionamento in Storia dell’Arte Medievale e Moderna e il Diploma di Perfezionamento in Restauro dei Monumenti. È abilitato all’esercizio della professione di Architetto e all’insegnamento di Storia dell’Arte nei licei e Educazione Tecnica nelle scuole medie. Dal 1997 è Dirigente, con l’attribuzione di responsabilità nei servizi Beni Ambientali (19 anni), Protezione Civile, Urbanistica, Sismica, Ambiente. Ha avuto un ruolo attivo in associazioni ambientaliste quali Legambiente Molise, Italia Nostra sezione di Campobasso e Club Alpino Italiano Delegazione del Molise. Ha insegnato all’Università della Terza Età del Molise ed è stato membro del Consiglio di Amministrazione della Fondazione dell’Ordine degli Architetti di Campobasso, occupandosi all’interno dello stesso del progetto di Archivio dell’Architettura Contemporanea. È Giornalista Pubblicista e autore di articoli, saggi e del volume La Formazione Urbanistica di Campobasso. Le ultime pubblicazioni sono: «Le Politiche Ambientali nel Molise» (2011) e «Problemi di tutela ambientale in Molise» del 2014.

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