Il Verlasce, un disco ovoidale planato su Venafro
di Francesco Manfredi-Selvaggi
L’anfiteatro non è un cerchio, bensì un’ellisse, ambedue figure geometriche pure di grande valore simbolico. La nettezza della sua geometria lo pone in contrasto con la maglia irregolare dell’impianto urbanistico di Venafro.
Parlascium è il termine che identifica l’anfiteatro in tanti insediamenti di origine romana e Verlasce ha una forte assonanza con questa parola. È comune a tutti i centri in cui è presente il problema del riutilizzo di tale struttura, difficilmente adattabile per altre destinazioni. Mentre per i teatri di epoca antica è possibile tuttora l’impiego in quanto è un’attività quella delle rappresentazioni teatrali ancora viva (vedi gli spettacoli che vengono ospitati in estate nei teatri di Pietrabbondante e di Altilia), gli anfiteatri sono diventati, a partire da un millennio e mezzo circa, deserti perché non si praticano più le lotte dei gladiatori né le venationes (le scene di caccia).
In effetti, la tipologia architettonica dell’anfiteatro assomiglia a quella degli stadi e, però, il campo da gioco non è adeguato. Gli anfiteatri così, spesso, risultano, e da tempo immemorabile, abbandonati per cui sono ridotti a rudere, vedi quello di Larino il quale, occasionalmente, solo per metà (si noti che l’etimologia di anfiteatro è che si tratta di 2 teatri) è stato usato per lo svolgimento di spettacoli teatrali. A Venafro fino a non molti decenni fa il Verlasce era occupato da depositi agricoli e ciò doveva aver comportato che venissero chiuse le arcate sul fronte posteriore, quello verso l’esterno, per garantire la sicurezza delle masserizie, arcate che caratterizzavano gli anfiteatri classici il più illustre dei quali è il Colosseo; gli ingressi ai magazzini sono nella corte centrale, dunque nel lato interno, cui si accede da semplici varchi, facili da proteggere.
Più probabilmente gli archi vennero murati già in età altomedioevale quando diversi anfiteatri si trasformarono in una specie di fortilizio. Tale fenomeno si è verificato lì dove l’anfiteatro è nell’area urbica, cioè non è suburbano come pure accade per la contrazione degli abitati alla fine dell’impero romano che portò diversi di essi a rimanere strutture isolate nell’agro, separate dagli aggregati insediativi che, ormai, si erano ristretti, dalla cinta muraria costruita in difesa contro aggressioni barbariche.
In ogni caso, gli anfiteatri, va evidenziato, erano posti al momento della loro edificazione sul perimetro dei Municipi, a contatto con le mura (è un teatro e non un anfiteatro, ma per via delle evidenti affinità, si ritiene utile citare quale esempio quello di Altilia cui si accede attraverso la “portella” direttamente dal suburbio). Allorché l’anfiteatro si viene a trovare nell’ambito extraurbano si preferisce demolirlo allo scopo di evitare che possa cadere in mano di eventuali assedianti i quali ne farebbero una sorta di testa di ponte per espugnare la città.
Se, invece, continua a ricadere in vicinanza delle mura che, a loro volta, continuano a coincidere con i confini cittadini l’anfiteatro viene ad assumere la funzione di fortezza. La sua forma circolare, o meglio ovoidale, permette di evitare che ci siano angoli morti e così di poter controllare i movimenti dei nemici consentendo di controbattere prontamente i loro attacchi. La linea curva del muro è la più idonea a respingere i proiettili di pietra o di piombo scagliati contro di esso. È, evidentemente, un avamposto militare e non la rocca in cui, appunto, si arrocca il feudatario che, invece, sta sul rilievo perché, data la morfologia del suolo, è maggiormente difendibile, il castello Pandone.
Quella esposta è ovvio è una ipotesi fra l’altro contraddetta dal fatto che non c’è traccia nell’anfiteatro di merlature, torri o altri apparati di difesa. L’anfiteatro non era immaginabile, per la sua unitarietà architettonica, che potesse venire scomposto in parti, eppure così è avvenuto a Venafro e altrove. Oggi lo si legge quale insieme di edifici, le rimesse agrarie di cui si è detto, una sorta di schiera edilizia. Tale suddivisione in più proprietà è stata favorita proprio dalla articolazione in settori della cavea con le pareti che li dividono coincidenti con i setti che sorreggevano gli spalti.
L’altezza è solo di 2 piani in quanto i nostri setti, dovendo seguire l’andamento delle gradonate, sono triangolari: per ottenere che fungessero da pareti di case le quali sono rettangolari si dovette decidere di “cimare” la zona superiore del triangolo. Si è adoperato l’anfiteatro per scopi legati all’agricoltura e non per abitazioni, come pure sarebbe stato teoricamente possibile, se non fosse per l’ubicazione di questo monumento distante dall’ambito residenziale. Bisogna aggiungere a questo proposito che si sarebbero incontrate difficoltà per l’illuminazione dei vani riducendosi la vivibilità degli spazi, poiché l’anfiteatro ha uno spessore del suo corpo di circa 20 metri; la luce del sole non raggiungerebbe, infatti, il cuore della casa.
Mentre per un magazzino è bene che le aperture siano limitate in quanto si abbassa il rischio di furto, per un alloggio no e l’assenza di bucature nel lato posteriore dell’anfiteatro, se n’è parlato, rende inservibile un pezzo della superficie. A meno che non si vogliano ripristinare le arcate (se la loro presenza venisse storicamente dimostrata) il problema della mancanza di luci sul retro rende difficile l’adattamento quale centro per attività culturali di questa antica costruzione. L’anfiteatro è composto, oltre che dal pieno, il volume edificato, dal vuoto, il grande piazzale che, anzi, ne costituisce una porzione rilevante.
Non va considerato esclusivamente uno slargo di pertinenza dell’opera, pur risultando confinato, chiuso com’è tutt’intorno dal fabbricato, con scarsa comunicazione con la rete viaria circostante: si presta ad essere una piazza anche perché pianeggiante della quale ha bisogno il quartiere in cui è situato, di elevata densità costruttiva privo di piazze ad eccezione di quella della stazione.
Si vuole evidenziare, infine, il valore dell’architettura in questione che prescinde dall’elevato, cioè dalla qualità del manufatto fisico, ma che va cercato nella definizione del disegno planimetrico, che è una ellisse, un segno forte ben distinguibile nell’insieme urbanistico. La pianta ellissoidale che conforma tale enorme fabbricato ne fa un punto di riferimento, nonostante la sua ubicazione abbastanza marginale, nell’organismo insediativo. Per troppi secoli, non unicamente i “secoli bui” del medioevo esso è stato trascurato misconoscendo le sue valenze storiche.
Francesco Manfredi Selvaggi645 Posts
Nato a Boiano (CB) nel 1956. Ha conseguito la Maturità Classica a Campobasso e poi la laurea in Architettura a Napoli nel 1980. Presso la medesima Università ha conseguito il Diploma di Perfezionamento in Storia dell’Arte Medievale e Moderna e il Diploma di Perfezionamento in Restauro dei Monumenti. È abilitato all’esercizio della professione di Architetto e all’insegnamento di Storia dell’Arte nei licei e Educazione Tecnica nelle scuole medie. Dal 1997 è Dirigente, con l’attribuzione di responsabilità nei servizi Beni Ambientali (19 anni), Protezione Civile, Urbanistica, Sismica, Ambiente. Ha avuto un ruolo attivo in associazioni ambientaliste quali Legambiente Molise, Italia Nostra sezione di Campobasso e Club Alpino Italiano Delegazione del Molise. Ha insegnato all’Università della Terza Età del Molise ed è stato membro del Consiglio di Amministrazione della Fondazione dell’Ordine degli Architetti di Campobasso, occupandosi all’interno dello stesso del progetto di Archivio dell’Architettura Contemporanea. È Giornalista Pubblicista e autore di articoli, saggi e del volume La Formazione Urbanistica di Campobasso. Le ultime pubblicazioni sono: «Le Politiche Ambientali nel Molise» (2011) e «Problemi di tutela ambientale in Molise» del 2014.
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