Curdi, storia di un popolo al confine
Mentre la Turchia continua a rimanere ferma di fronte a Isis, la questione curda torna alla ribalta tra drammi e spinte autonomiste
di Antonio Ferrari da corriere.it
Se non si interviene subito e con determinazione, la città siriana di Kobane, abitata prevalentemente da curdi, rischia di diventare un’altra Srebrenica. L’incubo di un nuovo eccidio, che ripropone più a sud le feroci immagini dei massacri in Bosnia, immagini che sono scolpite nella memoria, è stato evocato da uno dei più attenti diplomatici internazionali: Staffan de Mistura, di origine svedese, inviato in Siria dal segretario generale delle Nazioni Unite. Kobane è simbolo di eroica resistenza, ma anche concreta testimonianza di troppi fallimenti e altrettanti tradimenti. Kobane ripropone per intero la tragedia di curdi, i più sfortunati abitanti del pianeta: sono poco meno di 35 milioni ma sono il più grande popolo al mondo senza un proprio Stato e senza alcun diritto all’autodeterminazione.
Un popolo al confine
Basta guardare uno dei tanti filmati postati sui social, oppure navigare sul web in cerca di immagini significative, per veder riprodotta la tragedia di Kobane accerchiata, come un fortino che rischia l’annientamento se non arrivano i soccorsi, cioè i “nostri”. Il problema è che non sappiamo più chi dovrebbero essere i “nostri”. In un interessante video trasmesso dall’Ypg (unità di difesa curda), segnalato e commentato dal nostro inviato Lorenzo Cremonesi, si sentono confusamente le voci di almeno due italiani che si sarebbero uniti ai combattenti curdi. Novità clamorosa, perché significherebbe che non sono soltanto i fanatici ad essere sostenuti da volontari occidentali. Ad organizzare l’assedio di Kobane, terza città sostanzialmente curda nel nord della Siria, vi sono gli uomini neri dell’Isis, il sedicente stato islamico di Al Baghdadi, che hanno già compiuto decine di massacri e ora, occupando ormai quasi la metà della città frontaliera,minacciano la vita di chi non è riuscito a fuggire: almeno 700 anziani. Di fronte, attraversata la frontiera, c’è la Turchia, che solo apparentemente è approdo salvifico. Ankara infatti ha deciso di sigillare i suoi confini con la Repubblica araba siriana per evitare che, in soccorso ai fratelli, vadano i guerriglieri curdi di Turchia, che continuano a identificarsi nel Pkk (partito dei lavoratori del Kurdistan), e sigle collegate. Ma il presidente turco Recep Tayyip Erdogan, il suo primo ministro Ahmet Davutoglou, e in generale gran parte dell’opinione pubblica, sia della maggioranza che dell’opposizione, ritengono il Pkk un gruppo terroristico. Quindi, Ankara è pronta a tutto pur di evitare che i combattenti curdi dei due Paesi confinanti si colleghino, alimentando e rinforzando i loro arsenali, facendo risorgere quindi il nazionalismo e il desiderio di indipendenza, che da sempre punteggia le aspirazioni di un popolo sfortunato. Ecco perché Erdogan, dopo aver sostenuto la necessità di entrare in guerra contro i terroristi, come chiedevano gli Stati Uniti e gli alleati della Nato, si guarda bene dal farlo, e resta su posizioni attendiste. E magari, sotto sotto, preferisce all’indipendentismo curdo la sfida feroce dei macellai dell’Isis. L’understatement che utilizziamo è soltanto un paravento per non dire papale papale che per il presidente turco lo stato islamico è quasi il benvenuto. In sostanza, lo ritiene assai meno pericoloso dei curdi in armi e del suo più acerrimo nemico, il presidente siriano Bashar al Assad.
Migranti a Nord
Poveri curdi! Parlando anni fa con un dirigente palestinese, che lamentava la pigrizia del mondo nel riconoscere i diritti del suo popolo, mi capitò di rispondere: «Beh, voi almeno siete fortunati, perché tutti vi conoscono e vi rispettano. Provate a pensare ai curdi, che non interessano a nessuno!». Nel ricordare che la montagna che divideva due Paesi, la Turchia e l’Irak, ai tempi di Saddam Hussein, nascondeva la spiegazione di una grave ingiustizia, dissi che era inaccettabile che dal versante turco i combattenti curdi fossero tutti terroristi, mentre da quello iracheno fossero tutti intrepidi ed eroici soldati della libertà. La tragedia dei curdi è che sono un popolo disperso, anzi, sono le cinque più importanti minoranze di cinque diversi Paesi: rappresentano oltre il 10 per cento della popolazione turca, l’8 per cento di quella irachena, il 6 per cento di quella siriana, il 4 per cento dell’iraniana, e l’1,3 per cento di quella armena. Vi sono poi 800 mila emigrati in Europa, più della metà dei quali vive in Germania. Popolo di pastori, quello curdo, che si trovò a patire, fin dalle sue prime tracce nel tardo 14mo secolo, le contraddizioni a cavallo di due imperi: quello ottomano e quello persiano. L’unico momento in cui il sogno della riunificazione e di un proprio Stato si stava materializzando, anzi si era quasi realizzato, fu alla fine del primo conflitto mondiale. E precisamente a Sèvrès, dove i grandi si riunirono per decidere la distribuzione delle spoglie ottomane e per certificare gli equilibri segnati dall’esito della Grande Guerra. Pareva che tutti fossero d’accordo, in linea di principio, a far nascere un Kurdistan indipendente.
Da Sèvrès a Kobane passando per Diyarbakir
Era il 1920. In verità, i vincitori della guerra già stavano tramando per scomporre e ricomporre le loro ciniche alleanze. E poi vi era un problema socio-culturale di fondo: la distanza siderale tra i curdi autoctoni del mondo rurale e i curdi della borghesia, che si erano trasferiti in Europa, pretendendo di rappresentare al tavolo dei negoziati l’intero popolo. Il capo-negoziatore curdo, il brillante Sherif Pasha, era più un ricercato viveur (belle donne e gioco d’azzardo) che un ostinato difensore della causa. Ma il fallimento non fu colpa sua. Nel 1923, condizionate dal nuovo nazionalismo turco, rappresentato da Mustafà Kemal Ataturk, padre della Repubblica, le promesse di Sèvrès si sciolsero come neve al sole, e lo Stato svanì. Lo scenario, negli ultimi decenni, è simile: i guerriglieri curdi di Turchia, dopo le speranze che si erano diffuse con l’avveduta leadership di Turgut Ozal, il primo premier dopo l’ultimo colpo di Stato militare del generale Evren, hanno conosciuto nuove sconfitte. Ozal, con parziali origine curde, aveva creato un canale di dialogo per spingere alla trattativa il leader del Pkk Abdullah Ocalan, ospite in Siria e in Libano. Ma progetti falliti e violenze inarrestabili portarono al collasso. Ocalan fu catturato, dopo un’odissea che lo vide anche in Italia, e ora sconta l’ergastolo in un’isola nel mar di Marmara. In verità il leader turco-curdo aveva rinunciato ai sogni di indipendenza, accettando quell’autonomia che il presidente Erdogan si diceva (e si dice) pronto a riconoscere.
Le aperture sembravano serie, anche perché Ankara voleva evitare il contagio vincente dei curdi iracheni, gli unici che sembrano calamitare il sostegno del mondo. Sostegno che avrebbe rilanciato il sogno dell’indipendenza. Erdogan, pur di impedirne la realizzazione, è stato pronto a tutto, anche a favorire i macellai dell’Isis, che di fatto la Turchia ha riconosciuto come rappresentanti dello stato islamico di Al Baghdadi. Infatti, quando 49 dipendenti del consolato turco di Mosul furono catturati dai tagliagole con la bandiera nera, Ankara si fece guardinga con tutti: a cominciare dagli alleati della Nato. Si è capito il motivo quando vi è stato un interessante scambio di prigionieri: console e personale in cambio dei 180 prigionieri, pardon “ospiti”, appartenenti all’isis, feriti in combattimento, che la Turchia aveva deciso di accogliere, curare e assistere nei suoi ospedali. Il mondo freme di rabbia per le violenze dell’Isis, ma ben pochi agiscono per fermare finanziamenti e aiuti che continuano a raggiungere gli assassini del posticcio califfato. Kobane rischia di pagare il prezzo più alto, dopo tanti massacri e il sacrificio di Arin Mirkin, la sorridente soldatessa curda che si è fatta esplodere, trascinando nel baratro molti aguzzini, pur di non finire nelle grinfie degli assassini. Calamitando inusitata tenerezza e comprensione per una donna-kamikaze.
3 Comments
Gianni Sartori
24 Dicembre 2020 at 15:04ARMENI E CURDI UNITI NELLA LOTTA PER L’AUTODETERMINAZIONE
(Gianni Sartori)
Capita ancora ogni tanto. Meno spesso di prima, ma capita.
Qualcuno “che ha studiato” – non avendo evidentemente altri argomenti per screditare la strategia adottata dai curdi in Rojava – tira fuori dal cappello la questione degli Armeni. Ed è anche capitato che mi venissero a citare una vecchia intervista del 2006 a Baykar Sivazliyan, armeno, docente universitario autore di numerosi libri sia sugli armeni che sui curdi (con cui è in ottimi rapporti da sempre).
Peccato che nell’intervista in questione le affermazioni di Baykar non andassero in quella direzione. Al contrario, intendeva riconoscere al Parlamento curdo in esilio – che aveva espresso un rammarico sincero – il merito storico di aver denunciato le responsabilità di alcuni curdi (una conseguenza indiretta dell’organizzazione feudale curda dell’epoca) nel genocidio degli armeni. Fornendo, quantomeno, una conferma delle ben più pesanti responsabilità turche (una “chiamata in correo” diciamo). Del resto -spiegava Baykar Sivazliyan – non è che agli armeni interessi condannare tutti i turchi odierni “a prescindere” per quello che hanno fatto i loro antenati. Si tratta invece di riconoscere, ammettere una buona volta le responsabilità dello Stato e dei dirigenti turchi dell’epoca.
E magari chiedere anche scusa, già che ci siamo.
Come lo so? Semplicemente perché conosco Baykar da anni e l’intervista citata a sproposito era una delle mie.*
La questione ora rischia di riproporsi e quindi mi sembra opportuno anticipare eventuali rimostranze.
Mentre gli armeni del Nagorno-Karabakh sono costretti ad abbandonare le loro case e mentre si profila il pericolo concreto di un ennesimo etnocidio (culturale, ma non solo) per mano degli azeri con il sostegno di Ankara, da più parti vengono lanciati appelli per “salvare gli Armeni di Artsakh”.
Ottimo, anche se tardivo. Purché non rimanga solo un benevolo auspicio.
Altri, i curdi per esempio, non avevano aspettato tanto per esprimere la loro concreta solidarietà al popolo armeno. Coerentemente con la pacifica convivenza sperimentata sia in Anatolia che nel Caucaso per millenni. Una convivenza incrinata soltanto all’epoca delle guerre turco-russe, propedeutiche agli eventi del 1915. Se ancora oggi qualche armeno rinfaccia ai curdi (o meglio, a una parte dei curdi) il ruolo di collaborazionisti nel genocidio non ha tutti i torti. Così come qualche curdo non dimentica altre ingiustizie subite – magari di minor gravità – per mano degli armeni (e degli azeri ovviamente). Ossia la deportazione di centinaia di migliaia di curdi dal “Kurdistan Rosso” quando si spartirono la regione.
Ribadisco. Attualmente i curdi, la stragrande maggioranza dei curdi, si rammarica profondamente per il ruolo di alcuni esponenti del loro popolo nel genocidio ordinato dal regime ottomano. Collaborazione che comunque avvenne in aperto contrasto con quanto richiesto dai notabili curdi riuniti nel Movimento Xoybun (di cui facevano parte anche molti armeni) che auspicava un Kurdistan indipendente a fianco di uno Stato armeno.
Curdi e armeni, due popoli perseguitati, forzatamente minorizzati, sia massacrandoli direttamente, sia frantumandoli tra vari stati. Come i curdi vengono perseguitati (principalmente da Ankara, ma anche Teheran non scherza) sia in Bakur che in Rojava e Rojhilat (e anche in Bashur naturalmente, talvolta con la colpevole complicità di altri curdi), così gli armeni oggi si ritrovano sottoposti alla doppia persecuzione di Turchia e Azerbajian.
Per quanto riguarda i curdi, un caso limite è quello di Afrin, il cantone curdo contro cui nel 2018 si erano scatenate le milizie mercenarie siriane e jihadiste alleate dell’esercito turco. Specularmente all’odierna tragedia del Nagorno-Karabakh, così da Afrin si snodavano altre interminabili colonne di profughi scacciati dalle loro case. Oggi Afrin è completamente sotto il controllo turco e le bande jihadiste vi impongono la sharia, esautorando completamente il Confederalismo democratico (pluralista,femminista , ecologista) che i curdi avevano applicato.
Un modello, per inciso, valido universalmente, non soltanto per i curdi.
Su chi possono contare ora come ora curdi e armeni? Soltanto su loro stessi probabilmente, dato che gli stati (quelli europei compresi) non manifestano particolare allarme per quanto sta avvenendo (almeno finché gli eventi non dovessero turbare i loro interessi). E’ comunque altamente auspicabile che al fianco di armeni e curdi si vadano schierando quanti credono ancora nell’autodeterminazione dei popoli. Così come è auspicabile che dalla comune lotta contro l’oppressione, rinasca una forte, sincera alleanza tra curdi e armeni. Un’alleanza in grado di lenirne, rimarginarne definitivamente le reciproche ferite.
Gianni Sartori
Gianni Sartori
19 Luglio 2023 at 15:50Bomba nucleare tattica utilizzata dalla Turchia contro i curdi?
(Gianni Sartori)
In attesa della conferma o meno da parte degli esperti (sempre che la cosa interessi ai media internazionali), diamo anche questa pessima notizia.
Usando il condizionale e il punto di domanda solo per scrupolo (forse eccessivo) e con buona pace dei “campisti” di nuova generazione.
Come avevano già dichiarato in varie occasioni i responsabili del Quartier generale delle Forze di difesa del popolo (HPG) l’esercito turco avrebbe bombardato sistematicamente e ripetutamente (“centinaia, migliaia di volte”) la guerriglia curda a Zap, Avaşîn e Metina (Kurdistan del Sud).
Con sostanze chimiche di ogni tipo e utilizzando inoltre bombe termobariche e bombe al fosforo.
Mancava solo la bomba nucleare tattica. Stando a quanto denunciava due giorni fa Murat Karayılan (portavoce di HPG), i generali di Ankara avrebbero rimediato a questa dimenticanza.
In questi giorni dall’agenzia di stampa Firatnews (ANF) sono state diffuse le immagini (realizzate dalla popolazione locale) di un attacco turco contro le postazioni curde a Martyr Delîl (a ovest di Zap) risalente alle 10h12 del 13 luglio. Un attacco che – stando all’agenzia – si sarebbe contraddistinto anche per l’impiego di una bomba nucleare tattica. L’onda espansiva dell’esplosione si è poi propagata in un’area molto ampia.
Si ritiene che la Turchia ormai da anni si stia dando da fare per ottenere armi nucleari. Nel 2011 Ankara aveva firmato un accordo per un reattore nucleare con la compagnia russa ROSATAM per 20 miliardi .
Aveva anche preso parte ad un altro progetto lanciato nel 2013 nell’ambito di una partnership nippo-francese del valore di 22 miliardi di dollari. Ufficialmente il governo turco ha sempre sostenuto che con questi accordi si voleva soddisfare il fabbisogno energetico del Paese. Ma – stando a quanto riferito dal servizio di intelligence tedesco BND – nel 2015 “la Turchia ha aperto le porte a un’opzione nucleare militare attraverso questi due progetti”.
Secondo lo stesso rapporto, la Turchia avrebbe realizzato strutture per arricchire l’uranio e avrebbe iniziato a produrre polvere di concentrato di uranio chiamata “Yellowcake”. L’uranio se lo sarebbe procurato – illegalmente -tramite il Kosovo e la Bosnia Erzegovina. Comunque il maggior fornitore nucleare della Turchia rimane il Pakistan (quello tanto amato da turisti, alpinisti e sciatori d’alta quota nostrani), sospettato di vendere missili con testate nucleari al mercato nero. Stando ai rapporti di media arabi e indiani, Erdogan sarebbe sempre in buoni rapporti con il Pakistan (non solo per l’acquisto di testate nucleari, ovviamente).
Il sito di notizie “zeenews.india.com” aveva riferito che nel dicembre 2020 le delegazioni militari pakistane e turche hanno tenuto colloqui per due giorni sulle vendite di armi nucleari. Ha inoltre riferito che i caccia F-16 dell’esercito turco, che sono stati modernizzati tra il 2015 e il 2018 con il supporto della NATO, sono stati modificati per trasportare missili nucleari (in attesa della ventilata fornitura di F-35).
Tornando ai fatti qui denunciati del 13 luglio nel Kurdistan del Sud, pensiamo a cosa sarebbe accaduto di fronte anche solo all’ipotesi di un effettivo utilizzo da parte di Mosca in Ucraina di ordigni di tal genere. L’intervento diretto della NATO (di cui, ricordo la Turchia, fa parte) come minimo.
Gianni Sartori
Gianni Sartori
30 Agosto 2024 at 23:34PAKISTAN: TERRORISMO DI MARCA SETTARIA O STRATEGIA DELLA TENSIONE?
Gianni Sartori
Sempre più spesso ci tocca consatare come molte lotte di natura indipendentista (di “liberazione”) vengano strumentalizzate (degenerando rispetto alle rivendicazioni originarie) per qualche “regolamento di conti” tra le varie potenze regionali. Forse è anche il caso del Belucistan
Per cui appare arduo collocare i recenti massacri di natura settaria perpetrati in Pakistan da un presunto (soidisant…?) Fronte di Liberazione del Belucistan.
Quantomeno bisogna ricordare altri avvenimenti, non necessariamente collegati, ma in qualche modo “sincronici”.
Dalla ribellione innescata dai giovani in Bangladesh che ha portato alla cacciata e fuga (in India) della prima ministra Sheikh Hasina (e sui cui aleggia – così come aleggiava sulla defenestrazione nel 2022 del leader pakistano Imran Khan e del suo PTI – il sospetto di “rivoluzione colorata”, manovrata fomentando anche movimenti islamisti) alla recente visita del leader indiano Shri Narendra Modi a Kiev interpretata come una “andata a Canossa” per espiare (dopo la tirata d’orecchi di Washington) in qualche modo l’eccesso di equidistanza (pendente verso Mosca) nella guerra tra Russia e Ucraina. Osservando quel che accade in Pakistan e in Bangladesh si deve sempre tener conto di un possibile ruolo dell’India (e viceversa). Non solo quando si tratta del conteso Kashmir, ma anche per la regione del Punjab (divisa in due dalla frontiera indo-pakistana).
E poi, dato che qui si parla di Belucistan, non si può trascurare ovviamente l’Iran. Se il Belucistan “pakistano” costituisce circa il 48% del Paese (la più vasta provincia del Pakistan con ben 347.190 km²), in Iran (province di Sīstān e Balūcistān) arriva a coprire 181.785 km² del territorio (a cui va aggiunta una piccola porzione delle aree meridionali dell’Afghanistan). E come in Pakistan, ormai da decenni anche le province iraniane di Sīstān e Balūcistān sono percorse da fermenti separatisti dei Beluci.
Il 16 febbraio di quest’anno Teheran aveva bombardato con aerei e droni il territorio pakistano per colpire le basi di un gruppo separatista del Belucistan Jaish ul-Adl. Gruppo considerato salafita e jihadista e già noto in quanto responsabile nel 2019 dell’uccisione di 27 membri del Corpo dei guardiani della rivoluzione islamica.
L’operazione iraniana sul territorio pakistano era avvenuta a un giorno di distanza da un’altra analoga condotta in Irak.
Entrambe come risposta agli attacchi rivendicati dallo Stato islamico a Kermal (3 gennaio 2024) e a quello di Rask del 15 dicembre 2023 (undici poliziotti uccisi) rivendicato da Jaish ul-Adl.
Ovviamente il Pakistan aveva protestato vigorosamente per questa violazione dello spazio aereo. Accusando l’Iran di aver provocato la morte di alcuni bambini.
Insomma un bel casino, un groviglio. Non contate comunque su chi scrive per sbrogliare il bandolo della matassa.
Cerco solo di “contestualizzare” quanto è avvenuto nel Belucistan “pakistano” alla fine di agosto.
Questi i tragici eventi.
Il 26 agosto oltre una ventina di persone (23 quelle accertate, per la maggior parte originarie del Punjab) sono state uccise nel distretto di Musakhail (sud-ovest del Pakistan, Belucistan).
Stando alle rivendicazioni, i responsabili dell’eccidio appartengono a un gruppo di separatisti beluci, il BLA (Baloch Liberation Army). Una trentina di terroristi avevano installato posti di blocco lungo l’autostrada costringendo a scendere i passeggeri di una ventina di autobus e di alcuni camion e furgoni (poi incendiati). Dopo averne controllato i documenti e l’identità, avevano aperto il fuoco.
In un’altro attacco (sempre nella nella provincia di Monday), evidentemente coordinato con il primo, una quindicina di persone, ugualmente provenienti dal Punjab, venivano assassinate.
In un comunicato il BLA aveva rivendicato il grave atto terroristico sostenendo che in realtà sarebbero stati uccisi “soldati in abiti civili” in quanto “la lotta è contro l’esercito pakistano occupante”.
Una presa di posizione poco convincente se pensiamo ad altri episodi simili.
Come in aprile quando, nei pressi della città di Naushki, una decina di lavoratori provenienti dal Punjab (e impiegati nell’estrazione delle risorse minerarie), dopo essere stati fatti scendere, venivano ammazzati brutalmente.
Nelle ore immediatamente precedenti il gruppo separatista aveva assaltato anche una caserma nei pressi di Kalat uccidendo sei agenti e quattro civili. Inoltre erano stati distrutti con l’esplosivo alcuni tratti della rete ferroviaria.
Da un comunicato del ministro dell’Interno Mohsin Naqvi si è poi appreso che le forze dell’ordine avevano ucciso una dozzina di miliziani (mentre altre fonti dell’esercito pachistano parlavano di una ventina).
Alla fine le vittime complessive (compresi militari e miliziani beluci) superavano come minimo la settantina.
Gianni Sartori (30-8-2024)