Catalunya. Dopo il voto un vuoto politico

di Ettore Siniscalchi

Le elezioni di domenica non hanno cambiato molto, i big non hanno fatto altro che consolidare le posizioni. L’idea di una unità nazionale che escluda gli indipendentisti ha la maggioranza assoluta ma è debole politicamente. Probabile il ritorno alle urne, la società comincia a dare chiari segni di stanchezza, ed è facile prevedere che le tensioni territoriali possano riesplodere.

Il voto catalano ha una lettura immediata: gli indipendentisti hanno la maggioranza assoluta. La linea dei blocchi nazionali ha fruttato nelle urne, riusciranno a fare un governo? Non è detto ma è molto probabile. Apparentemente non ci sono alternative, gli indipendentisti hanno firmato un patto anti-Psc, una conventio ad excludendum, incomprensibile nelle sinistre Cat (nazionaliste, ndr). Un patto che rappresenta anche una progressiva trumpizzazione della destra indipendentista “processista” Cat di Junts per Cat (JxC) – che detta l’agenda che le sinistre, anche non indipendentiste, subiscono da ormai dieci anni – con un’inquietante partizione della società catalana.

Escludendo legittimità ad altre formazioni, impedendo accordi sulla base della nuova definizione di identità nazionale, si afferma che la Catalogna è solo i partiti indipendentisti. Le sinistre Cat si impegnano a non governare coi socialdemocratici non nazionalisti per restare con gli ultraliberali di Junts per Cat di Carles Puigdemont. La sinistra radicale indipendentista della Cup cresce (9 seggi) malgrado sia tutta dentro alla contraddizione dell’unità nazionale con gli alfieri delle privatizzazioni. La denuncia della propaganda processista differenzia e premia una formazione con una certa tradizione municipale che, pensando di cavalcarne le contraddizioni, ha finora rafforzato la destra Cat e le sue politiche sociali. JxC prende 32 seggi, superata da Erc e Psc ma a un passo. Dominando il panorama informativo e il dibattito pubblico catalano ritiene di poter continuare a indirizzare gli eventi. Finora le è riuscito ma è sempre più difficile tenere insieme tutto.

Il Psc sfonda e si riprende, probabilmente, molto del voto andato a Ciudadanos (l’ex cintura operaia di Barcellona). Vince in voti assoluti, pareggia nel conto dei seggi con Erc (33, praticamente il doppio dell’ultima volta), ma Illa non riuscirà a diventare president. Rivolgersi a C’s in campagna era forse obbligato per intercettarne gli elettori ma non è su quel cammino che i socialisti potranno arrivare al govern. I Comuns reggono, e non era scontato, conservando 8 seggi. Si consolida l’opzione “Cambiamo pagina”, che incarnava Illa del Psc e che con difficoltà avevano portato avanti i Comuns in questi anni. E che, nel campo indipendentista, rappresenta Erc che però ora non ha la forza per ribaltare il paradigma (quando forse più le converrebbe).

A destra Vox sfonda (9) e supera il Pp (3). C’s sprofonda (da 36 a 6 seggi) e dà in parte a Vox e molto torna al Psc (quanto va al Pp? Lo studio dei flussi sarà interessante). Il centrodestra, vecchio e nuovo, perde con la destra neofranchista e, anche qui, trumpiana (definizione di sé come unici rappresentanti di un’unità per esclusione degli altri; visione magica della realtà; non riconoscimento delle istituzioni e delle dinamiche democratiche se non per la propria tutela). Certo, la situazione catalana favorisce l’estremizzazione, ma Vox spera che la dinamica possa diventare nazionale. Casado ne ha il terrore.

La rottura dei “blocchi nazionali” è la condizione per rompere lo stallo. Il voto li ha invece riaffermati. Ma la gestione della vittoria appare difficile da parte del blocco indipendentista malgrado la maggioranza assoluta. Difficile sarà per Erc gestire il doppio piano: dialogo col Psoe a Madrid e coalizione indipendentista alla Generalitat che, nelle intenzioni di JxC, dovrà tornare all’unilateralismo. Probabile che si dovrà passare per un precario governo indipendentista per far maturare le condizioni di un superamento del frontismo, cammino difficile ma al quale non sembrano chiudere i segnali del voto. Il crollo di C’s e del Pp, se forse può aprire a maggiore dialogo nel Parlamento nazionale, rende un governo delle sinistre (Psc-Comuns-Erc) l’unica alternativa catalana possibile a un governo indipendentista, anche se ora apparentemente non realizzabile. È il bicchiere mezzo pieno visto con le lenti di Pedro Sánchez.

Il voto ci dice anche della ridotta affluenza. Il 53,54 per cento si è recato alle urne (a fronte del 77,46 per cento nel 2015 e dell’81,94 per cento nel 2017). Covid-19, maltempo, disillusione hanno certamente influito in maniera variabile. Anche qui sarà utile vedere gli studi sul comportamento dell’elettorato per capire se e come questo abbia favorito o sfavorito delle liste e quali. Il voto ci conferma anche la divisione tra la Catalogna “profonda” e quella delle grandi città, Barcellona in particolare, coi grandi centri urbani dove il separatismo è minoritario mentre domina nella provincia (con un sistema di collegi che ne favorisce la rappresentanza). Affluenza a parte, la macchina elettorale ha retto alla pandemia. I seggi sono stati tutti costituiti, e non era scontato, le operazioni si sono svolte regolarmente, l’indicazione per fasce orarie – anziani e persone a rischio la mattina, platea generale dopo e l’ultima ora dedicata a positivi e in quarantena – ha funzionato, il voto per posta ha aiutato.

La campagna elettorale catalana ha messo in difficoltà il governo Psoe-Podemos, con l’allontanamento di Erc, impegnata nella contesa indipendentista. Tanto che a fine gennaio la conversione del decreto legge sulla gestione dei fondi europei passò grazie ai voti della sinistra radicale nazionalista basca di Bildu e, a sorpresa, dell’astensione di Vox, dopo che Erc si smarcò e invano Sánchez fece appello a Pp e C’s. Il timore del riverbero delle tensioni nazionaliste catalane sulle dinamiche parlamentari nazionali è il bicchiere mezzo vuoto di Sánchez, il cui governo “social-comunista” è nel mirino di molti circoli che contano in Spagna. Adesso però c’è da costruire il Tavolo di dialogo sulla Catalogna che Erc ha contribuito a far partire, e e c’è da affrontare la questione dei leader indipendentisti incarcerati, dei quali la Procura ha chiesto la sospensione dei benefici del terzo grado di carcerazione, cioè la semilibertà, che consente il lavoro esterno e ha consentito la partecipazione ad alcune iniziative elettorali.

La partita quindi si gioca su due tavoli, a Madrid e Barcellona, nei due Parlamenti, nazionale e catalano, e coinvolge partiti e governi. Pp e C’s potrebbero dover essere più dialoganti col governo, per differenziarsi da Vox e provare e ricostruirsi un ruolo nella partecipazione a scelte di governo e, eventualmente, processi riformatori. Ci riusciranno? Il peso degli scandali che continuano a travolgere il Pp di Pablo Casado non sembra più sostenibile né gridando alla difesa dell’unità nazionale nello scontro tra nazionalismi né con la gara a destra con Vox, che vince a mani basse. Questo è ancor più vero con C’s, per cui il trauma del voto è enorme e nel quale si apre la rivolta contro Inés Arrimadas. Ma Sánchez ha bisogno soprattutto di Erc per governare, gli indipendentisti di sinistra acquistano uno spessore e ruolo nazionale che non è detto riescano a giocare fino in fondo, a manovrare in quella palude emotiva che è la politica catalana.

Il voto catalano non ha cambiato molto, i big non hanno fatto altro che consolidare le posizioni. L’idea di una unità nazionale ha la maggioranza assoluta ma è debole politicamente per le differenti visioni strategiche di Erc e JxC. Si consolida un fronte di sinistra non indipendentista (Psc-Psoe – En Comù-Podem); si sgretola un fronte nazionalista centralista (Psoe – Pp – C’s) che un tempo era il fronte “costituzionalista”, nato in opposizione all’Eta e strumentalmente trasposto alla questione catalana che, lungi dall’affrontare, ha grandemente aggravato.

Una rottura del fronte indipendentista porterebbe avvenire nel tentativo di formare il nuovo governo oppure durante la sua corsa e in conseguenza di cosa farà Erc a Madrid. In ogni caso si dovrà tornare nuovamente alle urne, per sancire col voto il fallimento di un’ipotesi e l’investitura dell’altra da parte degli elettori. Un meccanismo complesso che molti tenteranno di sabotare, a cominciare da JxC. Puigdemont ha bisogno di far salire il livello dello scontro in una società che però comincia a dare chiari segni di stanchezza. Anche Vox ha la stessa esigenza e pesca invece in un bacino in cui c’è rabbia e voglia di cambiare. È facile prevedere che le tensioni territoriali possano riesplodere.

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