Intervista a Antonio De Gregorio
di William Mussini
“Il cinema Italiano e le nuove leve”
Antonio, facciamo in primis una tua breve presentazione: da dove nasce la tua passione per il cinema? Parlaci della tua formazione in qualità di giovane autore e regista cinematografico.
Ciao William e ciao a tutti i lettori. Permettimi di fare una premessa: ho accettato la tua proposta a rispondere a delle domande perché è una proposta arrivata da un collega, anzi, da un amico; non credo di avere una carriera alle spalle per interessare qualcuno ma se tu hai espresso questo desiderio, qualcosa forse potrò raccontarti, ma lungi da me avere la presunzione di meritare queste domande! Detto questo, non so dirti da dove arriva. Da piccolo volevo fare l’attore, ma poi ho capito che è il mestiere più brutto del mondo. La gente crede che l’attore è quello coccolato, quello viziato, quello che arriva sul set in ritardo, dice due battute e se ne va, invece credo che i grandi attori siano tutt’altro. Io mi sono avvicinato al cinema quando mi regalarono un lettore dvd portatile e in viaggio consumavo i film a non finire. Poi vedevo mio padre guardare tanti film e quelle immagini mi incuriosivano. Principalmente trovavo molto interessante raccontare storie e il cinema è il mezzo che più mi si addice perché è rapido, è istintivo, di pancia e di cuore. Ho cominciato a scrivere in qualche corso scolastico, poi ho decido di approfondire la questione video presso lo IED di Milano dove ho capito che tra tutte le declinazioni del video il cinema e la video arte in generale sono le più creative e libere. Poi ho approfondito, sempre col mio stile, un po’ a caso, tutto il cinema e lo sto ancora facendo, essendo molto giovane.
Insieme a Mattia Marano, sei stato recentemente impegnato nella ideazione e realizzazione di un cortometraggio intitolato “Ritorno a casa” che potremmo definire in termini di genere, una divertente “commedia nera”; ci parli di questa tua esperienza? Quali sono stati i riscontri sinora?
È stata una bella avventura, divertente, spensierata, impegnativa e ci sta dando tante soddisfazioni. Abbiamo proposto, sotto suggerimento e collaborazione di Marco Caldoro, la nostra idea di viaggio per il progetto Circe dell’Apulia Film Commission. E alla fine la nostra storia è piaciuta e hanno deciso di produrla! Non ce lo aspettavamo, con noi c’erano registi e produttori importanti, molto più grandi di noi, c’era anche chi aveva vinto un David… eppure abbiamo proposto una storia diversa, nuova, anche grottesca e credo che propio questo li abbia convinti. E poi, lasciamelo dire, condividere questa avventura con un amico, anzi, con un fratello come Mattia è stato davvero quello che ci ha dato la carica più forte: la troupe era unita da un rapporto spensierato e rispettoso e il risultato ne risente! Da poco abbiamo iniziato la distribuzione con Prem1ere, grazie al supporto di tutta INCAS e di Marco Caldoro e stiamo raccogliendo qualche premio qua e là; ma la cosa più bella è portare in giro il nostro film, far ridere il pubblico.
Alla mia domanda: “quali sono i tuoi autori e registi preferiti”, mi hai risposto con un sorriso e pur compiendo un inevitabile vaglio di preferenze, mi hai indicato diversi nomi che riporto qui: “Monicelli, De Sica, Zavattini, Verdone, Moretti tra i primi, poi Sergio Citti anche, Michel Gondry, Hitchcok e Truffaut inarrivabili, non ultimo Elio Petri”… potrei certamente dire che le tue fonti di ispirazione stilistica e di contenuto, ben rappresentano storicamente le fondamenta della cinematografia occidentale classica e più specificatamente quelle del miglior cinema italiano postclassico. Quanto è importante per te recuperare insegnamenti ed attingere stilisticamente ai grandi Maestri del cinema?
Credo sia fondamentale. Detto da me è poco credibile. Anche quando studiavo ero quello che tirava fuori sempre riferimenti più recenti, registi considerati meno seri o meno impegnati. Figurati che, e questo credo sia un problema tutto italiano, quando facevo questi nomi in accademia (soprattutto Verdone, Moretti, Monicelli) tutti storcevano il naso. ‘Ma come! Il grande Visconti, il grande Pasolini, il grande Rossellini…’ Certo, come possiamo negarlo, i grandi nomi sono fondamentali per la comprensione del cinema moderno e del linguaggio più in generale. Ma ciò che mi preme più di tutto e comprendere la contemporaneità, sempre con gli occhi pieni della storia del passato. È ovvio che questo non vuol dire che non apprezzo i già citati mostri sacri, ma nemmeno disdegno il cinema degli anni 80, 90, 2000… Credo vada apprezzato e giudicarlo paragonandolo a chi ha reso il nostro cinema immortale è ingiusto e controproducente.
Stiamo vivendo a pieno una trasformazione cominciata con l’avvento post-modernista del nuovo millennio che oggi propone un cinema ultra tecnologico, votato più all’intrattenimento estetico che ad un coinvolgimento emotivo derivante dalla denuncia o dalla rappresentazione critica dello status quo. Credi sia necessario ribadire oggi più di ieri che il cinema indipendente impegnato nel sociale e nella satira di costume, abbia ancora argomenti validi da proporre in contrapposizione alla generalizzazione imposta dal mainstream?
Il cinema polemico è quello che più mi interessa ed è ovvio che viene sempre sovrastato dal cinema disimpegnato, dal cinema leggero, dal cinema locuriano (per dirlo alla Boris). Una cosa che mi fa molta rabbia è quando la perfezione estetica diventa troppo importante in un prodotto, come se il contenuto sia uno strumento per far vedere a quanti Kappa gira la nostra cinepresa. Bisogna tenere presente che il cinema è nato come strumento di espressione e non come esercizio di stile. Sì, certo, il cinema indipendente ha sicuramente una marcia in più, come la ha la musica underground o la poesia senza editore, ma non voglio nemmeno combattere le grandi produzioni, tra le quali ce ne sono alcune davvero molto interessanti e con un senso etico importante, col solo peccato di aver fatto i sordi…
Sei consapevole che il cinema e la comunicazione audiovisiva è ancora il mezzo preferenziale di una propaganda politica che non ha più i colori ben marcati e riconoscibili dei regimi ma, sposa oggi le dottrine edulcorate dei “discorsi” filomercatisti, fintamente democratici? Oppure ritieni che ci sia ancora spazio per declinare un nuovo linguaggio indipendente, originale e antisistema senza incorrere nelle censure del conformismo istituzionalizzato?
Non ho mai creduto in un mondo ipercomandato, censurato e limitato. E anzi, ti dirò di più, credo che in quanto artisti abbiamo il dovere di dire ciò che vogliamo, ma forse ne abbiamo anche la libertà. Ultimamente ho rispolverato, per uno spettacolo che sto preparando, I Promessi Sposi. Beh, che dire, con un trucco Manzoni ha comunque detto la sua e non ha subito censure. Certo, è un sotterfugio, un via secondaria ma almeno ci è riuscito. Mi ritengo un fan del cinema politico, del quale anche un nostro conterraneo, Flavio Bucci, ne era un esponente. Ma erano altri tempi, i tempi della lotta vera, ideale, concreta. Oggi ci troviamo forse in un periodo più teorico, pensato e questo non vuol dire che la lotta sia interrotta o che il cinema politico non esiste. Prendi per esempio i film di Daniele Vicari, o di Franco Maresco, ma anche tanti altri. Ma ci sono anche film che parlano di politica ma che non si schierano: una volta ho avuto il piacere di chiacchierare con Alessio Cremonini a proposito del suo Sulla mia pelle che a mio parere mancava di una vis politica indispensabile per parlare di un tema del genere. Invece il regista mi ha detto che era proprio sua intenzione evitare di schierarsi, raccontarne i fatti fotografandoli.
In “Un borghese piccolo piccolo”, uno dei film capolavoro di Mario Monicelli, Albero Sordi, impegnato in un ruolo drammatico non del tutto inedito, mostra a pieno tutta la sua maturità e bravura di attore, offrendo una interpretazione ritenuta dai maggiori critici e cinefili italiani, in assoluto la più riuscita della sua carriera, incisiva ed intensa. Quanto è importante per te l’intervento del regista per modellare l’attore al suo personaggio? Hai una tecnica personale che utilizzi o intendi utilizzare in futuro per calibrare al meglio i tuoi attori?
Come posso esprimermi io su un capolavoro così… Che mi fai fare William! Su Alberto Sordi ho un’idea un po’ radicale, motivo di alcuni litigi spesso anche troppo accorati: io credo che i suoi film migliori siano quelli in cui il regista ha avuto una mano ferma per raccontare un personaggio vero e non una macchietta. Il Borghese è ovviamente uno di quelli. Io personalmente, per quanto mi è possibile nelle mie piccole produzioni, cerco di entrare subito in empatia, di trovare punti in comune, di creare un rapporto di fiducia: solo così l’attore può aprirsi e dare il massimo. Ma il regista lavora sull’attore anche scegliendolo e quello è già un grande passo.
Per il resto le prove, le cene, i pranzi, i confronti, quelli sono strumenti fondamentali per un regista per entrare nel mondo di quell’attore e dirigerlo verso la giusta performance. Che poi, se ci pensi, te lo dice la parola stessa: DIRIGERE, il regista indirizza l’attore verso una intenzione, ma poi è l’attore che deve spingere sull’acceleratore e dare motore alla scena. Eh, bella questa? Lo so, ha sorpreso anche me! Chiudiamo la nostra intervista con un auspicio: cosa ti senti di augurare a te stesso ed al cinema della tua generazione per il futuro? Un insperato ritorno alle sale cinematografiche oppure una trasformazione radicale come vorrebbe la nuova visione dell’agenda transumanista? Oddio, che domanda difficile!
Sai, il cinema è importante, ci sono tanti esercenti, distributori e tantissime altre figure che oggi si trovano in una difficoltà pazzesca. L’atmosfera della sala è qualcosa di inarrivabile. Ed è il motivo che ci ha portati ad organizzare l’Alta Marea Film Festival, il primo festival di cinema e arte a Termoli che nascerà quest’estate. Una volta, ad un festival a cui partecipava Ritorno a Casa, un grande attore italiano di cui non posso fare il nome, raccontava la fine della sala come qualcosa di normale, addirittura si vantava di una piccola sala di proiezioni che si era costruito in sala o raccontava di chi guardava i film sul cellulare con serenità. Immaginerai che ne sono rimasto sconvolto. Ma se vedi il cinema come arte è ovvio che la sala debba essere tutelata: tu non è che guardi La Nascita di Venere sullo schermo del tuo Huawei e sei contento lo stesso. Dovremmo cominciare a capire che la fruizione è parte dell’opera, come faceva Kubrick con i suoi silenzi in sala prima di 2001… William grazie mille per queste domande che hai deciso di rivolgermi e spero di non averti annoiato, come spero di non aver annoiato i tuoi lettori. E mi raccomando, stasera scegliete un bel film e perdetevi nell’opera, invece di continuare a controllare l’RT di contagio… e buona visione!
William Mussini76 Posts
Creativo, autore, regista cinematografico e teatrale. Libertario responsabile e attivista del pensiero critico. Ha all'attivo un lungometraggio, numerosi cortometraggi premiati in festival Internazionali, diversi documentari inerenti problematiche storiche, sociali e di promozione culturale. Da sempre appassionato di filosofia, cinema e letteratura. Attualmente impegnato come regista nella società cinematografica e teatrale INCAS produzioni di Campobasso.
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