Monasteri di città e monasteri di campagna

di Francesco Manfredi-Selvaggi

In realtà, qui si parlerà solo delle unità monastiche urbane, partendo, comunque, da un elemento che hanno in comune con quelle rurali che è il chiostro, componente architettonico spesso di grande valore oltre che di notevole significato rappresentando, perché spazio chiuso, la chiusura della vita conventuale dalla vita che sta fuori alle mura del monastero.

C’è una cosa che unifica i monasteri, i quali per il resto possono essere diversissimi fra loro, ed è il chiostro. Questo è quel cortile quadrato circondato da un porticato, solo nel convento di S. Berardino il portico non c’è, ad arcate. È l’elemento connotante dell’impianto architettonico, ricorrente in tutta Europa, continente nel quale il fenomeno monastico si è affermato in ogni suo angolo. Le dimensioni di tale corte sono assai grandi perché i complessi conventuali sono, anche qui nel Molise, assai grandi (salvo qualche eccezione come quella costituita dal convento di S. Nicola a Gambatesa); ciò la distingue dalla corte di un’architettura civile, prendi tre delle maggiori, il principale palazzo Tiberio, di Bojano, quello Cannavina nel capoluogo regionale, residenza feudale, quello dei conti Giacchi a Sepino, la quale, inevitabilmente, è inferiore per volumetria edilizia.

Questi “vuoti” di forma quadrangolare racchiusi da ogni lato da corpi di fabbrica che, in quanto tali, sono dei “pieni” sono trattati a mo di giardino, vedi il convento dei Cappuccini a Frosolone oppure quello di S. Francesco a Limosano, luoghi, per la natura religiosa dell’istituzione la cui sede li ospita, di contemplazione più che di delizia. Il chiostro è uno spazio chiuso, separato dalla realtà esterna, che garantisce la tranquillità necessaria per la meditazione.

Il porticato che si sviluppa intorno ad esso funge da ambulacro dove il camminare con passi lenti, peripatetici, favorisce la riflessione spirituale. Nel baricentro di questa superficie vi è una vera di pozzo collegato con una cisterna, interrata, d’acqua la quale è fonte, letteralmente, di vita, che, per i monaci è pure quella ultraterrena e un bell’esempio è nel convento di S. Francesco ad Agnone. Il chiostro, insieme di portico e di corte, va osservato, in definitiva, quale rappresentazione fisica della ricerca del silenzio interiore attraverso il distanziamento dal frastuono, per così dire, del mondo terreno ed esso è presente pure nei monasteri cittadini e la citazione questa volta è il monastero di S. Chiara a Venafro.

Tale separatezza non significa, ad ogni modo, fuga dalle ambasce che affliggono la società: sono gli Ordini mendicanti, tra cui i seguaci del Santo di Assisi, a insediarsi nelle città ed è proprio la collocazione negli agglomerati urbani piuttosto che nel territorio rurale, come fanno i benedettini, la cui Regola è finalizzata a costruire un nuovo modello di civiltà a rivelarci la volontà di mischiarsi, autenticamente, con la popolazione che, numerosa, lì vive.

Si fa notare per inciso che poiché i frati si sostengono con la questua, un centro quanti più conventi vi si installano tanto più esso va ritenuto florido. Le comunità di frati in cambio, non esplicita, offrono importanti servizi alla cittadinanza, oltre a quelli specifici legati alle pratiche di culto, dall’assistenza ai disagiati all’istruzione popolare. I monasteri si localizzano non solo nei dintorni dell’abitato (in ambito agreste, succede a Venafro con il convento di S. Nicandro, sì, quello dei monaci-briganti, che ora non è più tale perché è stato raggiunto dalla città), ma addirittura nel suo nucleo centrale.

Quando stanno dentro il perimetro murario i monaci utilizzano lo slargo antistante il sagrato della chiesa di pertinenza, in quanto capace di contenere un gran numero di persone in ascolto delle prediche: il convento di S., Francesco nel capoluogo di Provincia pentro e il convento dei Celestini nella “capitale” della regione in cui oggi, a confermare la vocazione del posto allo svolgimento di raduni di popolo, non più fedeli, bensì elettori, si tengono i comizi politici (Largo della Libera).

Non può essere casuale che ambedue questi fabbricati monastici sono stati trasformati in municipio (a Campobasso è stato ricostruito integralmente). Così come entrano nel recinto urbano i monasteri capita che ne escano: i frati che stavano nel convento di S. Maria delle Grazie devono traslocare in quello dei confratelli di S, Giovanni dei Gelsi che è fuori e con essi la loro farmacia, un altro servigio che forniscono spesso le unità monastiche alla collettività locale, rimanendo, comunque, in situ la funzione ospedaliera in quanto diventa l’ospedale pubblico.

I monasteri di città subiscono una sorte avversa, o almeno diversa, da quella dei loro cugini, i monasteri di campagna. Mentre questi ultimi permangono, per rimanere a Campobasso il già nominato convento di S. Giovanni dei Gelsi, il convento dei Cappuccini con la chiesa del S. Cuore, prima in periferia e quello sui “monti” dove soggiornò Padre Pio, quelli che ricadono in seno al Borgo Murattiano nell’800 vengono espropriati dallo Stato per costruire sul sedime su cui insistevano attrezzature collettive (erano strutture danneggiate dal terremoto del 1805, non recuperabili).

Per quanto riguarda S. Maria delle Grazie e per quello dei Celestini lo abbiamo detto in precedenza, rimangono i monasteri delle Carmelitane e S. Francesco della Scarpa che diventano, rispettivamente, la Prefettura e il Convitto Sannitico a completare l’elenco. Non si può trascurare di evidenziare, non è una mera curiosità essendo qualcosa di più di una sfaccettatura del ruolo della donna nella società, che in città stanno i monasteri femminili, da quello cui si è appena accennato delle Suore della Madonna del Carmelo a Campobasso a quelli di S. Chiara a Trivento, Agnone, Venafro e Isernia, fino a S. Maria delle Monache sempre a Isernia.

È per noi contemporanei ciò è una novità escludendo le Carmelitane di S. Elia a Pianisi, e, invece, per i nostri predecessori avrebbe rappresentato una novità il contrario, cioè vedere comunità di religiose in zone agricole, le suore cosiddette Di Penta che conducono un’azienda agricola a Petrella Tifernina e quelle, straniere, che presidiano, in senso vero e proprio, l’abbazia di S. Vincenzo al Volturno la quale è rinata proprio per merito loro. La vocazione alla consacrazione monacale spesso era indotta dalle famiglie, specie quelle abbienti per escludere le figlie femmine dall’asse ereditario e, in questo modo, salvaguardare l’integrità del patrimonio familiare.

Era, comunque, dovuta una dote che veniva versata alla congregazione monastica la quale si preoccupava del loro mantenimento e, anche, di un certo agio che era favorito dallo stare in città. Neanche S. Benedetto è contrario. Seguendo la Regola i benedettini, se non amanuensi, si occupavano della coltivazione dei terreni e, pertanto, risiedevano in monasteri a contatto con i campi, De Iumento Albo a Civitanova del Sannio, Canneto a Roccavivara, S. Maria di Monteverde tra Mirabello e Vinchiaturo, ecc., cosa che non era prevista per le benedettine.

È ovvio che anche queste erano tenute all’operosità in base al principio fondativo dell’Ordine dell’ora et labora, per rispetto del quale esse si dedicavano, prevalentemente, al ricamo e alla tessitura, attività consone al “sesso debole” che erano compatibili con la permanenza in un monastero, diciamo urbano. Passiamo alle facezie, ma non tanto perché fatti riportati nel saggio storico di Antonio Arduino, a lungo Direttore della biblioteca comunale di Agnone, Le Congreghe Sessuali, avvenuti in secoli passati a Napoli riguardanti intrecci amorosi tra monaci e monache di due conventi contigui in via S. Gregorio Armeno, “pericolosa prossimità” che vi è pure a Isernia tra il monastero di S. Maria delle Monache, femminile, e quello di S. Francesco, maschile, nello stesso centro altomolisano tra quello dei Filippini e quello delle Clarisse. Le vicende oggetto di questo studio sono emblematiche del modo di concepire un tempo e da parte di alcuni la scelta della vita monacale non come consacrazione al Signore assoluta, bensì maturata o imposta per ragioni di opportunità economica in un mondo patriarcale.

Francesco Manfredi Selvaggi645 Posts

Nato a Boiano (CB) nel 1956. Ha conseguito la Maturità Classica a Campobasso e poi la laurea in Architettura a Napoli nel 1980. Presso la medesima Università ha conseguito il Diploma di Perfezionamento in Storia dell’Arte Medievale e Moderna e il Diploma di Perfezionamento in Restauro dei Monumenti. È abilitato all’esercizio della professione di Architetto e all’insegnamento di Storia dell’Arte nei licei e Educazione Tecnica nelle scuole medie. Dal 1997 è Dirigente, con l’attribuzione di responsabilità nei servizi Beni Ambientali (19 anni), Protezione Civile, Urbanistica, Sismica, Ambiente. Ha avuto un ruolo attivo in associazioni ambientaliste quali Legambiente Molise, Italia Nostra sezione di Campobasso e Club Alpino Italiano Delegazione del Molise. Ha insegnato all’Università della Terza Età del Molise ed è stato membro del Consiglio di Amministrazione della Fondazione dell’Ordine degli Architetti di Campobasso, occupandosi all’interno dello stesso del progetto di Archivio dell’Architettura Contemporanea. È Giornalista Pubblicista e autore di articoli, saggi e del volume La Formazione Urbanistica di Campobasso. Le ultime pubblicazioni sono: «Le Politiche Ambientali nel Molise» (2011) e «Problemi di tutela ambientale in Molise» del 2014.

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