Il Molise osco, ma anche romano

di Francesco Manfredi-Selvaggi

Sono le due civiltà, altrettanto importanti, che si sono avvicendate sul suolo molisano e che ne hanno segnato la storia per un millennio. Non potevano proprio convivere in quanto la prima era di tipo rurale, la seconda urbana.

Faremo come il pendolo per illustrare, è ovvio in modo sintetico, alcune delle principali fasi della storia antica del Molise usando quale perno il periodo post-disfacimento dell’impero romano, quindi il limite tra età antica e età medievale. Tale momento di passaggio tra la dominazione di Roma e il primo Medioevo è contrassegnato da una crisi climatica in cui si è avuto un forte abbassamento delle temperature e un aumento della piovosità e a cui è seguita una crisi insediativa essendo ormai in abbandono i centri di pianura replica dell’Urbe perché soggetti ad inondazioni (le frequenti piogge hanno ingrossato i corsi d’acqua) e ancora non sono nati i borghi di altura anche per via dell’instabilità geomorfologica con frane dovute al dilavamento idrico che interessano i pendii.

Crisi climatica, crisi insediativa e crisi demografica tanto che ci fu bisogno dell’apporto di una tribù bulgara per ripopolare il nostro territorio. Si hanno, in effetti, poche notizie nelle fonti scritte su quanto avvenuto in quel tempo, gli unici dati che ci permettono di ricostruire la dinamica delle trasformazioni dell’assetto abitativo sono di tipo archeologico, in particolare di archeologia urbana. Ci stiamo riferendo al ritrovamento solo pochi decenni fa del decumano di Bovianum sepolto sotto circa 2 metri di coltre alluvionale; questo fatto non può essere addebitato ad un unico fenomeno, ad esempio all’ostruzione del Biferno all’altezza di Colledanchise causa crollo di un versante spondale con conseguente allagamento del nucleo urbano matesino ipotizzato dagli storici, ma ad un processo secolare di mancanza di cura delle sistemazioni idrauliche dei Romani.

Non si esclude, comunque, il concorso della formazione, forse per un terremoto, di una diga naturale nel punto più stretto del primo tratto dell’asta fluviale che portò alla creazione di un lago nella conca dove sorge Boiano. L’andamento pendolare scelto per il nostro excursus ora ci riporta indietro, alla civiltà sannita. Si tratta, quest’ultima, di una civiltà che è durata oltre mezzo millennio per cui ha avuto tutto l’agio temporale di manifestarsi in maniera compiuta, per così dire, diventando quella osca cui i Sanniti appartenevano una delle culture più significative del sud Italia, al pari di quelle etrusca, greca e latina.

Tra i popoli italici quello sannita ha rivelato una maggiore carica identitaria che lo ha portato a sfidare la futura Città Eterna per 300-400 anni a partire dal IV sec. a. C. con una prima guerra persa che condusse alla sottomissione a Roma alla quale fece seguito la partecipazione della nazione sannita alle battaglie annibaliche nel II sec. a. C., fino alla “insurrezione” del I sec. a. C. della Lega Italica che terminò con la definitiva sconfitta. Tutto ciò può dimostrare che si tratta, poiché capace di far fronte ad eventi bellici così prolungati, di un’entità statuale organizzata adeguatamente.

Da ciò ne discende che anche il sistema economico è ben strutturato, non come potrebbe far pensare la predominanza dell’uso estensivo del suolo tramite l’allevamento brado e l’agricoltura praticata con il metodo della successione di campo e erba, che generalmente si associa a società poco evolute. La densità abitativa del Sannio la si calcola in 32 abitanti per chilometro quadro che è davvero bassa se si confronta con quella del Lazio, la terra dei Latini, che è, invece, di 63; tale valore deve rimanere costante per cui per evitare che venga superato è necessario espellere i giovani in eccesso con migrazioni chiamate Ver Sacrum.

Per funzionare l’economia è necessario il bilanciamento tra numero di persone e risorse territoriali. Non è solamente il ricorso alla espulsione a permettere di garantire la sostenibilità del rapporto fra individui e ambiente, ma, pure, mediante la continua ricerca di nuovi spazi da sfruttare, una volta esaurite le potenzialità dal punto di vista pastorale e agricolo di quel luogo, magari disboscando ulteriore terreno per ricondurlo a pascolo o a superficie coltivabile. Di qui, cioè agli spostamenti frequenti dei gruppi umani deriva l’assenza nell’ambito sannitico di insediamenti stabili, costruiti affinché durino a lungo, al posto dei quali troviamo dei semplici villaggi con dimore in legno e paglia che non hanno lasciato tracce di sé.

Se quella sannita la si può considerare una civilizzazione matura lo è altrettanto quella successiva romana. Il cambiamento è stato radicale portando financo alla sparizione dell’ethnos italico mettendo in campo i dominatori strategie di assimilazione culturale e lo testimonia l’edificazione del teatro di Altilia. Quello romano è un mondo fatto di città, proprio il contrario di quello osco che é essenzialmente rurale. Non significa, comunque, che i Romani siano attenti esclusivamente alle realtà urbane, anche se ad esse viene dato grande peso e su di esse fonda l’intelaiatura dell’Impero.

Non si trascura la campagna e anzi la centuriatio, leggibile in foto aeree scattate ai raggi infrarossi nel comune di Sepino, rappresenta l’antecedente più illustre della grandiosa operazione messa in campo nel XIX secolo dalla Riforma Agraria. Roma si è sempre interessata dell’agro, pure in prossimità della fine della sua epopea imperiale con la comparsa delle ville rustiche a Matrice, a Canneto di Roccavivara, a S. Vincenzo al V., ecc., le quali permisero la prosecuzione delle attività colturali. Il pendolo sta tornando alla sua posizione di partenza poiché su tali ville si installarono i conventi dei monaci benedettini (ancora le località elencate sopra) e da lì iniziò la rinascita della vita civile dopo le invasioni barbariche.

Le città non ripresero mai il ruolo preminente assunto con i Romani, neanche quando divennero sedi vescovili, da Bojano a Isernia, da Venafro a Larino e a Trivento; quelle odierne cioè Campobasso, Isernia e Termoli hanno poco a che vedere con le antiche in quanto oggi esse appaiono contrapposte all’intorno comprensoriale dal quale assorbono i residenti provocando l’abbandono degli aggregati edilizi minori e delle coltivazioni alle quali, all’opposto, gli agglomerati urbani romani erano funzionali fungendo da poli di servizi e di mercato.

Francesco Manfredi Selvaggi637 Posts

Nato a Boiano (CB) nel 1956. Ha conseguito la Maturità Classica a Campobasso e poi la laurea in Architettura a Napoli nel 1980. Presso la medesima Università ha conseguito il Diploma di Perfezionamento in Storia dell’Arte Medievale e Moderna e il Diploma di Perfezionamento in Restauro dei Monumenti. È abilitato all’esercizio della professione di Architetto e all’insegnamento di Storia dell’Arte nei licei e Educazione Tecnica nelle scuole medie. Dal 1997 è Dirigente, con l’attribuzione di responsabilità nei servizi Beni Ambientali (19 anni), Protezione Civile, Urbanistica, Sismica, Ambiente. Ha avuto un ruolo attivo in associazioni ambientaliste quali Legambiente Molise, Italia Nostra sezione di Campobasso e Club Alpino Italiano Delegazione del Molise. Ha insegnato all’Università della Terza Età del Molise ed è stato membro del Consiglio di Amministrazione della Fondazione dell’Ordine degli Architetti di Campobasso, occupandosi all’interno dello stesso del progetto di Archivio dell’Architettura Contemporanea. È Giornalista Pubblicista e autore di articoli, saggi e del volume La Formazione Urbanistica di Campobasso. Le ultime pubblicazioni sono: «Le Politiche Ambientali nel Molise» (2011) e «Problemi di tutela ambientale in Molise» del 2014.

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