Il tratturo che diventa decumano

di Francesco Manfredi-Selvaggi

Succede ad Altilia e succedeva pure 2 mila anni fa quando essa nacque e quando l’economia pastorale era il motore della società locale.

Il tratturo è all’origine di Altilia e, nello stesso tempo, c’entra con la sua fine. Questa città è posizionata a cavallo del Pescasseroli-Candela e ne costituisce un punto di sosta. La pista tratturale, addirittura, è l’elemento ordinatore dell’impianto urbanistico, in verità insieme al percorso che si diparte dalla piana per raggiungere la montagna, utilizzato per l’alpeggio, che attraversa anch’esso, ortogonalmente al primo, l’area urbana. Un insediamento abitativo, dunque, il cui schema viario è impostato sulle percorrenze pastorali. Il decumano che, in qualche modo, si fonde con il tratturo è la strada principale, mentre la monticazione segue la direzione ad esso perpendicolare, lungo il cardo il quale, nell’urbanistica antica, è un tracciato viario secondario.

Che il tratturo debba essere l’asse più importante è spiegabile con il fatto che esso è utilizzato per la transumanza, uno spostamento di greggi su grande scala, al contrario dell’alpeggio che avviene a corta distanza. Ancora di più, a giustificare la primazia dell’asse tratturale nello schema stradale cittadino è la circostanza che la transumanza è governata dallo Stato cui spettano i pedaggi, come dice l’iscrizione De Grege Oviarico.

La pastorizia transumante per decisione dell’autorità centrale che la protegge diventa una delle maggiori attività economiche di questa provincia romana alla quale sono subordinati gli altri settori produttivi, cioè l’agricoltura che non può occupare i terreni del demanio tratturale, aventi valenza esclusivamente locale. Si ritenne che fosse la zootecnia, per la presenza di vaste superfici pascolive tra l’Appennino e la distesa tabulare del Tavoliere, il nome non è a caso, il comparto capace di sviluppare i più elevati standard di produttività e, di conseguenza, portare introiti (il pagamento delle concessioni al transito sui tratturi) considerevoli all’erario centrale.

La pratica della monticazione, invece, che interessa il cardo viene considerata una forma di conduzione dell’allevamento di tipo, per così dire, residuale. Si stabilisce, in definitiva, una gerarchia di natura funzionale tra le due vie urbane. Ancora di più si accentua, pur avendo la medesima sezione trasversale e la stessa lunghezza, il grado di significatività che distingue le arterie allorché il tratturo viene ad ospitare la Via Minucia, una specie di transappenninica ai tempi dell’antica Roma, la quale funge pure da alternativa alla Via Appia per andare da Roma a Brindisi.

Se non è una vera e propria via Consolare è, comunque, una via come si deve lungo la quale si muovono persone e merci (oltre, beninteso, alle pecore durante la transumanza). Si sviluppano i commerci nei centri in cui passa e, quindi, ad Altilia e la sua presenza, più che la costrizione imposta ai Sanniti dai Romani di scendere dalle alture e insediarsi nel Municipium, dovette essere lo sprono a trasferirsi in Altilia per coloro che vivevano a Terravecchia; il desiderio di avviare esercizi commerciali ai margini della Minucia, maggiormente, lo si ripete, dell’ordine impartito dai dominatori, stimolò la gente dell’area ad abitare la città coloniale, il che, con probabilità, avvenne in un breve lasso di tempo tanta era la voglia di intraprendere, lo si immagina, iniziative mercantili attraverso le quali scambiare i prodotti del luogo con beni provenienti anche da lontano, di mettersi in relazione non solo con l’Urbe, bensì con gli altri centri serviti dalla nuova viabilità voluta dalla potenza dominatrice.

La via Minucia, così come il tratturo, all’interno delle mura urbiche coincide con il decumano e arriva direttamente nel cuore dell’abitato dove c’è il foro che è anche luogo deputato al mercato. Nel tratto urbano il tratturo sul quale nel frattempo si era sovrapposta la via Minucia, nel trasformarsi in decumano cambia pelle per via dei basoli con cui è lastricato dove sono visibili i solchi scavati dalle ruote dei carri, dei marciapiedi e degli attraversamenti pedonali. Si è detto all’inizio che è stato il tratturo a dare vita ad Altilia e si è anche aggiunto che esso è stato una concausa della sua morte; ripartendo dalla questione del “decesso” della realtà urbana in esame va specificato che si è nominato il tratturo anche se, in effetti, più propriamente si sarebbe dovuto dire transumanza se non che essa che avviene 2 volte l’anno non basta a dare ragione della presenza di una città.

C’entra, ripetendo l’espressione iniziale, pure l’abbandono della via Minucia che abbiamo visto correre sul tratturo. La caduta dell’Impero e l’insicurezza che si è generata nella circolazione degli individui e delle mercanzie, le migrazioni stagionali delle greggi provoca il declino delle reti di comunicazione, tanto quelle dedicate agli uomini quanto quelle destinate agli animali. Altilia diviene una sorta di città fantasma per oltre un millennio nonostante che l’entità cospicua dei resti non ha permesso che venisse obliterata del tutto; con la ripresa del fenomeno della transumanza a partire dal basso Medioevo essa ricomincia ad essere frequentata dai conduttori degli armenti i quali, quelle tramandate a noi sono di epoca tarda, ne lasciano testimonianze orali.

Quando si avvia il processo di ripopolamento cambia addirittura nome da Saepinum ad Altilia, perché si era smarrita pure la denominazione originaria, un po’ come è successo con Terravecchia che sostituisce l’originario Saipins. Altrove, si pensi alla prossima Bojano, vi è stata una continuità di vita nei secoli successivi: non è dato sapere perché qui sì e lì (Altilia) no.

Le condizioni geografiche sono identiche, ambedue insediamenti di pianura soggetti, a causa della mancata regimazione dei corsi d’acqua (il Biferno per Bojano e il Tammaro per Altilia) nell’era post-imperiale, ad inondazioni (i Romani ad Altilia si erano preoccupati della bonifica idraulica con la centuriazione dei campi), entrambe soggette alle scorrerie dei Saraceni accampati su monte, appunto Saraceno in riguardo alle quali appare più difendibile Altilia in quanto conserva una cinta muraria, peraltro turrita, intatta, tutte e due colpite fin dall’antichità da violenti terremoti, e, specialmente, sia l’una che l’altra investite dal passaggio del tratturo.

Deve essere una specificità, ovviamente è un assurdo, del territorio sepinate quello delle città scomparse perché quanto è successo ad Altilia era accaduto a Terravecchia, una peculiarità locale essendo queste delle rarità che è in aggiunta raro trovare così vicine. L’estinzione di Altilia, in definitiva, non può essere collegata solo alla cessazione della transumanza, ci deve essere dell’altro!

Francesco Manfredi Selvaggi637 Posts

Nato a Boiano (CB) nel 1956. Ha conseguito la Maturità Classica a Campobasso e poi la laurea in Architettura a Napoli nel 1980. Presso la medesima Università ha conseguito il Diploma di Perfezionamento in Storia dell’Arte Medievale e Moderna e il Diploma di Perfezionamento in Restauro dei Monumenti. È abilitato all’esercizio della professione di Architetto e all’insegnamento di Storia dell’Arte nei licei e Educazione Tecnica nelle scuole medie. Dal 1997 è Dirigente, con l’attribuzione di responsabilità nei servizi Beni Ambientali (19 anni), Protezione Civile, Urbanistica, Sismica, Ambiente. Ha avuto un ruolo attivo in associazioni ambientaliste quali Legambiente Molise, Italia Nostra sezione di Campobasso e Club Alpino Italiano Delegazione del Molise. Ha insegnato all’Università della Terza Età del Molise ed è stato membro del Consiglio di Amministrazione della Fondazione dell’Ordine degli Architetti di Campobasso, occupandosi all’interno dello stesso del progetto di Archivio dell’Architettura Contemporanea. È Giornalista Pubblicista e autore di articoli, saggi e del volume La Formazione Urbanistica di Campobasso. Le ultime pubblicazioni sono: «Le Politiche Ambientali nel Molise» (2011) e «Problemi di tutela ambientale in Molise» del 2014.

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