Restauro del restauro
di Francesco Manfredi-Selvaggi
Non è un’operazione quella del restaurare univocamente definibile. Vi sono numerose sfaccettature di questa disciplina architettonica che non consentono di individuare un modus operandi condiviso da tutti. L’attività restaurativa, già di per sé diversificata, presenta una diversificazione ulteriore se vista nella dimensione temporale. Oggi non si condividono i restauri del passato.
Il restauro è, quale pratica tesa a ripristinare i valori formali di un’architettura, nato nel XIX secolo. In precedenza, certo si provvedeva per le chiese alle riattazioni specie a seguito di eventi sismici o per colpa dell’incuria, causa ed effetto, dell’abbandono per un periodo troppo lungo di quel luogo di culto, senza curarsi di recuperare i caratteri originari dell’opera.
Anzi, si tendeva a “migliorarne” l’aspetto, secondo la concezione dell’epoca, e così fece il cardinale Orsini nella prima metà del 1700 che intervenne su diversi manufatti religiosi rientranti nella diocesi di Benevento della quale era arcivescovo riconsacrandoli e tra questi la cappella di Camposarcone a Campobasso, la chiesa di Faifoli a Montagano e quella di S. Maria della Strada a Matrice. Differente è l’atteggiamento che cominciò a prendere piede qui da noi, perché altrove già prima, agli inizi del secolo scorso.
Restaurare acquistò il senso, che ha ancora oggi, di rimettere in luce le caratteristiche architettoniche del fabbricato (a volte con i fraintendimenti che segnaliamo appresso) il quale poteva aver subito alterazioni nel tempo. L’approccio fino almeno al secondo dopoguerra inoltrato, almeno nel Molise dominante, fu quello di operare delle ricostruzioni “in stile” delle parti che si riteneva mancanti o di eliminare gli elementi ritenuti spuri, senza preoccuparsi di indagare approfonditamente quali fossero le peculiarità di quella specifica struttura.
Essa, la sua immagine, andava necessariamente ricondotta, senza preoccuparsi di accertare la sua singolarità, ad una corrente stilistica, gotica, romanica, rinascimentale e via dicendo, e, del resto, questa era la temperie culturale del momento anche nel campo dell’edificazione del nuovo essendo in voga nelle costruzioni ex-novo l’impiego di stilemi tratti dalla storia dell’arte. L’”ecclettismo storicistico” così si chiamò tale moda, informò, dunque, tanto gli edifici moderni, si prenda il Mario Pagano che è neo-rinascimentale, quanto quegli antichi e per questi l’esempio è S. Maria di Canneto, dove don Duilio Lemme, al quale si deve il merito, comunque, della riscoperta del santuario, introdusse nel fabbricato componenti, tipo il protiro, secondo lui confacenti a questa tipologia di chiesa, seppure non avesse a supporto alcuna documentazione in grado di dimostrarne l’esistenza nel medioevo.
Con un restauro successivo, degli anni 70, esso fu tolto e noi possiamo parlare, paradossalmente, di un restauro del restauro. Non è Canneto l’unico posto in cui si è esagerato nelle ricostruzioni ipotetiche. Un caso di falso, forse ancora più clamoroso di quello messo in atto nella valle del Trigno, si ha anche nel Matese, precisamente a Guardiaregia dove sulla facciata della parrocchiale nel punto in cui ci si aspetterebbe di trovare un rosone, come succedeva in età medioevale, oppure un finestrone, nelle ere successive, c’è una bifora, una soluzione di apertura aeroilluminante davvero sbagliata per quella posizione.
Un rosone, invece, troviamo sul fronte di S. Maria del Giardino a Casalciprano, dunque nel medio Biferno; esso è in cemento e, pertanto, non autentico, ma piuttosto erede del revival storicistico ottocentesco. È da dire che il calcestruzzo con cui è stato realizzato invecchiando ha preso a somigliare sempre più ad una pietra e, appunto, il conglomerato cementizio viene chiamato pietra artificiale. L’oggetto del restauro non è stato solo il patrimonio ecclesiastico in quanto da oltre 100 anni ci si occupa pure di quello castellano anche se con minore urgenza non essendoci la necessità di officiare riti sacri.
Si ripropone per esso la stessa questione della replica degli stilemi che connotano l’architettura del medioevo. Al di sopra dei muri di cinta dei castelli Pignatelli di Monteroduni e Monforte di Campobasso si aggiungono i merli, mentre nella murazione del castello Svevo di Termoli si applicano dei beccatelli che una trentina di anni fa vennero rimossi pure se ormai erano divenuti parte integrante del maniero nell’immaginario collettivo, ma prevalse l’esigenza della correttezza filologica.
C’è, però, una differenza tra chiese e castelli ed è relativa alla destinazione d’uso la quale mentre nelle prime è, in genere, immutata, nei secondi che hanno perso funzioni militari deve necessariamente essere ripensata. Più spesso le strutture castellane molisane non si prestano ad essere adattate a nuove utilizzazioni non avendo consistenza volumetrica, cioè volumi in cui ospitare attività; il professore Perogalli coniò per esse la definizione di castello-recinto, tipologia di manufatto castellano per la quale, secondo l’illustre accademico, la nostra regione ha addirittura la primogenitura.
L’assenza di spazi da sfruttare per qualsivoglia utilizzo, trattandosi, ciò che è racchiuso nella cerchia muraria, di “vuoti” e non di “pieni”, ha portato al loro abbandono e, di conseguenza, all’innesco di un processo di decadimento. Numerosi sono ora allo stato di rudere, da Roccapipirozzi a Longano, da Roccaravindola a Colledanchise, e per vari di essi sono stati eseguiti lavori di restauro, si prenda Pesche o Civita Superiore. L’orientamento progettuale prevalente è stato quello della conservazione dei resti, piuttosto che quello della ricostruzione delle rovine la quale, comunque, è un modus operandi, sia pure minoritario, adottato in più di un caso tanto di opere ecclesiastiche quanto ex-feudali.
Per le seconde si cita l’ala rifatta del castello di Carpinone mentre per le prime si segnala che a Civitanova è stato rimesso in piedi il campanile del monastero di S. Brigida, del quale permanevano dei lacerti davvero suggestivi, una visione romantica, E non per una ragione di rifunzionalizzazione, bensì esclusivamente statica, cioè per evitare il crollo di quanto restava della torre la quale essendo un elemento verticale reso ancora più sottile dalla perdita di una porzione di muro era vulnerabile al sisma.
Forse si sarebbe potuto procedere con la messa in opera di puntelli opportunamente posizionati, non un’ingabbiatura generalizzata, a sostegno degli spezzoni murari sopravvissuti, lasciandoli, per quanto possibile, in vista, nella consapevolezza, ad ogni modo, che ciò avrebbe costituito una misura di presidio temporaneo e non definitivo. Qualcosa che probabilmente sarebbe piaciuta a Ruskin, il fondatore della disciplina del restauro, ma che, di certo, non sarebbe stato possibile effettuare con i fondi del finanziamento regionale ricevuto dal Comune perché nel campo dei lavori pubblici se si accetta la suddivisione in lotti di un’opera, dunque, non l’immediata funzionalità nel suo complesso, non si ammette il carattere provvisorio di quanto viene eseguito.
Appare una contraddizione. In tale logica non ha spazio la conservazione intesa quale cura costante del monumento la quale se fatta in maniera attenta permette di prevenire il restauro il quale rappresenta, vuoi o non vuoi, un’azione forte, oltre che difficile, che incide sul “corpo” del bene storico, sulla cosiddetta carne viva. Non mancano qui da noi esempi di restauro “pesante” che, peraltro, dopo un certo numero di anni necessitano di essere oggetto di restauro anch’essi specie lì dove è stato impiegato per consolidare il cemento armato il quale con il tempo è destinato a deteriorarsi. Il ricostruire, parzialmente, è opportuno in limitate situazioni come quella di impedire che i frammenti di una costruzione antica, non legati fra loro, rischiano di disperdersi nell’ambiente o essere rubati e ci si sta riferendo a S. Maria di Guglieto di Vinchiaturo.
Francesco Manfredi Selvaggi645 Posts
Nato a Boiano (CB) nel 1956. Ha conseguito la Maturità Classica a Campobasso e poi la laurea in Architettura a Napoli nel 1980. Presso la medesima Università ha conseguito il Diploma di Perfezionamento in Storia dell’Arte Medievale e Moderna e il Diploma di Perfezionamento in Restauro dei Monumenti. È abilitato all’esercizio della professione di Architetto e all’insegnamento di Storia dell’Arte nei licei e Educazione Tecnica nelle scuole medie. Dal 1997 è Dirigente, con l’attribuzione di responsabilità nei servizi Beni Ambientali (19 anni), Protezione Civile, Urbanistica, Sismica, Ambiente. Ha avuto un ruolo attivo in associazioni ambientaliste quali Legambiente Molise, Italia Nostra sezione di Campobasso e Club Alpino Italiano Delegazione del Molise. Ha insegnato all’Università della Terza Età del Molise ed è stato membro del Consiglio di Amministrazione della Fondazione dell’Ordine degli Architetti di Campobasso, occupandosi all’interno dello stesso del progetto di Archivio dell’Architettura Contemporanea. È Giornalista Pubblicista e autore di articoli, saggi e del volume La Formazione Urbanistica di Campobasso. Le ultime pubblicazioni sono: «Le Politiche Ambientali nel Molise» (2011) e «Problemi di tutela ambientale in Molise» del 2014.
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