Altilia, profumo di colonia
di Francesco Manfredi-Selvaggi
Per capire il presente, in questo caso la struttura insediativa molisana, bisogna capire il passato. I Romani hanno lasciato una forte impronta nel nostro territorio attraverso la loro politica coloniale con la creazione anche qui da noi di numerose colonie, poi evolute nelle città odierne di Venafro, Isernia, Bojano, Larino, Trivento. Solo Altilia è rimasta una città «archeologica», morta.
Altilia è il frutto, in alternativa, di una delle seguenti politiche di Roma, al plurale perché esse sono all’origine di gran parte delle sue colonie. La prima è che essa è un distaccamento, forse per evitare il suo sovraffollamento, della capitale, quasi fosse, come nell’urbanistica inglese del secondo Dopoguerra, una città satellite; poco più che un quartiere, appunto, distaccato, privo di autonomia e che, alla stregua di qualsiasi periferia, fa riferimento ai servizi presenti nell’area centrale di una grande conurbazione urbana la quale al momento della fondazione di Saepinum, va intesa limitata all’Italia.
Pertanto l’agglomerato molisano è un luogo secondario in cui vivere perché staccato dal centro. L’essere un distaccamento, cosa diversa da filiazione parola che sta ad intendere un nucleo generato, si, da un altro, ma che poi viene lasciato vivere da quest’ultimo di un’esistenza propria, va da sé che esso abbia dimensioni contenute. Inoltre poiché rientra il suo concepimento nel disegno complessivo della, per dirla con termini odierni, metropoli, un sistema nel quale ogni parte ha una collocazione assegnata, definita, nuclei periferici, come Altilia, non possono espandersi perché produrrebbero squilibri all’interno dell’area metropolitana immaginata dai Romani.
La cerchia di mura così curata sta ad indicare il limite entro il quale l’insediamento sepinese può estendersi, una sorta di crescita programmata; nello stesso tempo rappresenta la volontà di una sua cristallizzazione. Un diverso modo di interpretare le città coloniali, in effetti non in contraddizione con il primo, è quello di avamposti della dominazione romana, in una logica di tipo militare, non urbanistica come la precedente. Esse, in tale visione avrebbero lo scopo di controllare il territorio sottomesso, quello sannita nella fattispecie, contemporaneamente alle vie di comunicazione.
L’ossessione di Roma di tenere sotto scacco le popolazioni riottose, tra gli avversari vi sono gli Italici, va di pari passo con quella di “romanizzare” le società ormai assoggettate nel proprio dominio che porterà alla concessione della cittadinanza romana a tutti gli abitanti della penisola italiana. La finalità di esportare, con le buone o con le cattive, si fa per dire, la civiltà di Roma è un ulteriore obiettivo che spinge alla creazione delle colonie. La cultura dell’Urbe raggiunge, in maniera pervasiva, ogni angolo dei suoi possedimenti e l’effetto che produce è quello di tante Rome in piccolo nelle quali si alimenta la coscienza di appartenenza alla “nazione” romana, alle idealità che la impregnano, al modo di sentire il mondo che viene loro trasferito.
Le città coloniali, in definitiva, quali riproduzioni in scala minore di ciò che diventerà la Città Eterna, mutuandone, non spontaneamente, almeno all’inizio, le istituzioni che la reggono con gli apparati di governo locale simili, fatte sempre le debite proporzioni, con quelli dello Stato; ne consegue in ogni colonia, e pure ad Altilia, la presenza del foro, della curia, della basilica, ecc.. Si trattava della quarta ragione e ora si passa alla quinta la quale si basa sulla necessità di assegnare terreno da coltivare ai veterani delle guerre, insieme ad un posto in cui collocarsi avendo perso i legami con le zone di origine dopo i tanti anni passati a combattere, in lungo e largo nel nostro continente, risultando così degli sradicati. I soldati dell’Undicesima legione furono dislocati a Bojano che assunse la denominazione di Bovianum Undecanorum, specificazione che ha suscitato, peraltro, un annoso dibattito se essa coincida o meno con la Vetus, lì dove ebbe la conclusione il Ver Sacrum.
Mettere a coltura il suolo, è ovvio, è stata una priorità delle conquiste dei Romani poiché aumenta il Prodotto Interno Lordo, o qualcosa che all’epoca assomigliava all’attuale strumento convenzionale di calcolo della ricchezza nazionale; ad essa si aggiunge quale “effetto collaterale” quello del sostentamento dei legionari, una ricompensa per il servizio prestato nelle forze armate, ognuno dei quali ricevette una parcella, senza o con la centuriazione di cui c’è traccia nell’agro di Sepino, dell’ager. Infine si segnala, per dovere di completezza, anche senza crederci tanto, che la spinta a creare la colonia, perlomeno in quel punto, possa essere dipeso dalla sussistenza di un accampamento di truppe e ciò indurrebbe a pensarlo la identicità dello schema viario tra questo e una città coloniale, ma nulla più.
Non è che colonie non siano sorte su abitati preesistenti che, comunque, erano da secoli poli urbani di rilievo, vedi Aesernia e, però, sembra strano che ciò si possa essere verificato su quelli provvisori quali sono i campi, i castrum, di alloggiamento delle guarnigioni; tutto, ad ogni modo è possibile, pur se non plausibile. La forza attrattiva del sito in cui si svilupperà l’antica Sepino, piuttosto deriva dall’essere una tappa della transumanza per l’abbeveraggio degli armenti con le acque della fonte prossima di Cantoni, una delle sorgenti del Tammaro, importante affluente del fiume Calore; qui, come si conviene ad uno stazzo, invero gigantesco, di pecore, doveva esserci una recinzione e recingere sia in osco sia in latino si dice saepio, da cui Saepinum.
È debole questa argomentazione che lega la nascita di Altilia con il passaggio e sosta delle greggi che migrano dall’Abruzzo alla Puglia, perché ciò succede solo due volte l’anno, mentre è forte la tesi che vuole il nostro centro legato al tratturo, la pista erbosa lungo la quale si spostano i capi di bestiame transumanti. I tracciati tratturali infatti, oltre che al transito degli ovini, diventati poi bovini nelle ultime stagioni di questo millenario fenomeno, erano utilizzati pure per i movimenti delle persone e delle merci, parola questa che evoca il mercato il quale richiede per potersi svolgere un centro di mercato e, appunto, Altilia è tale, tutto l’anno e non unicamente in primavera e in autunno quando è attraversata dagli animali che transumano (con un neologismo).
Lo si esplicita, stiamo parlando in verità da un po’ dall’esame che ci eravamo riproposti al principio dei perché legati alla decisione di Roma di avere delle colonie (che noi abitualmente associamo ad un impero, anche se in effetti Altilia è di età repubblicana) all’analisi delle determinanti che portano alla sua collocazione in quel dato spicchio di territorio, in particolare nella piana dell’alto Tammaro ai piedi di m. Mutria, l’ambito in cui ricade Altilia. Lo si è anticipato sopra il legame tra nucleo abitativo e collegamenti viari, pure il tratturo, a suo modo, era una via, è il fattore fondamentale e il Pescasseroli-Candela per quanto riguarda Altilia funge da strada.
Addirittura il percorso stradale da extraurbano diventa urbano sovrapponendosi al decumano. È talmente decisiva tale presenza, se non invadente, che questo è l’asse primario dell’entità insediativa, non il più lungo che, anzi, ha una lunghezza superiore quello ad esso perpendicolare, il cardo, termine che nell’urbanistica greca si applica agli elementi della viabilità secondaria. Il tratturo, trasformato nella via Minucia si trasforma nuovamente all’interno della cerchia muraria, quindi si allarga una volta raggiunto il momento nodale dell’aggregato trasformandosi in foro.
Francesco Manfredi Selvaggi637 Posts
Nato a Boiano (CB) nel 1956. Ha conseguito la Maturità Classica a Campobasso e poi la laurea in Architettura a Napoli nel 1980. Presso la medesima Università ha conseguito il Diploma di Perfezionamento in Storia dell’Arte Medievale e Moderna e il Diploma di Perfezionamento in Restauro dei Monumenti. È abilitato all’esercizio della professione di Architetto e all’insegnamento di Storia dell’Arte nei licei e Educazione Tecnica nelle scuole medie. Dal 1997 è Dirigente, con l’attribuzione di responsabilità nei servizi Beni Ambientali (19 anni), Protezione Civile, Urbanistica, Sismica, Ambiente. Ha avuto un ruolo attivo in associazioni ambientaliste quali Legambiente Molise, Italia Nostra sezione di Campobasso e Club Alpino Italiano Delegazione del Molise. Ha insegnato all’Università della Terza Età del Molise ed è stato membro del Consiglio di Amministrazione della Fondazione dell’Ordine degli Architetti di Campobasso, occupandosi all’interno dello stesso del progetto di Archivio dell’Architettura Contemporanea. È Giornalista Pubblicista e autore di articoli, saggi e del volume La Formazione Urbanistica di Campobasso. Le ultime pubblicazioni sono: «Le Politiche Ambientali nel Molise» (2011) e «Problemi di tutela ambientale in Molise» del 2014.
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