Dal parco ferroviario al parco urbano
di Francesco Manfredi-Selvaggi
Si parla della stazione di Campobasso, intesa piuttosto che come edificio come area occupata dalle sue molteplici componenti, binari, banchine, magazzini, officina, ecc. Se solo essa si stringesse un po’ si potrebbe ricavare su una sua porzione una zona a verde, una superficie tanto più preziosa in quanto contigua al centro città. È successo ad Isernia.
Tra i vuoti della nostra città il più esteso è sicuramente quello del parco ferroviario. All’origine e fino a quando la città non si è sviluppata oltre la strada ferrata, la quale rappresenta una cesura tra la zona centrale e i quartieri sorti sotto la ferrovia, l’area della stazione era il limite, addirittura fisico, dell’abitato e perciò essa non era sentita come un vuoto urbano. All’epoca la stazione era periferica per cui non c’erano problemi di spazio, di quantitativo di superficie che potesse occupare, non era contesa per altri usi cittadini.
Se oggi si parla del decadimento presso la stazione di Ripalimosani di alcune funzioni, tipo la manutenzione corrente e il deposito dei locomotori di “riserva” per liberare una quota del suolo, prezioso in quanto prossimo al centro dell’abitato, ingombrato dal movimento dei treni e dei passeggeri e da ciò che è loro connesso, prima tale preoccupazione era del tutto assente ed a ragione per ciò che si è detto. Al principio abbiamo iscritto il parco ferroviario nella categoria dei vuoti anche se esso, nonostante che certi reparti siano stati trasferiti altrove, a Benevento la riparazione dei convogli, appare un luogo ancora movimentato, in cui si svolgono molteplici attività e, dunque, alla stregua di un pieno.
La stazione è un microcosmo, un mondo a sé rispetto al contesto urbano con il quale interagisce per via del transito di persone in partenza e in arrivo e poco più. È una vita a parte, con le sue logiche legate alla necessità di garantire il funzionamento dei collegamenti su ferro, in passato colonna portante del sistema di comunicazione nazionale. La stazione comprende manufatti edilizi di forma e dimensioni disparate, dagli hangar per il rimessaggio delle carrozze, ai capannoni per il deposito del materiale rotabile pronto per essere impiegato per sostituzioni lungo la linea, al blocco dei servizi igienici fino ai locali del dopolavoro trai quali vi è la sala per spettacoli che viene utilizzata pure per manifestazioni pubbliche.
Vi sono poi i magazzini in disuso e, però, da conservare essendo interessanti testimonianze di archeologia industriale, nei quali veniva immagazzinata la merce, innanzitutto i cereali, in attesa di essere caricata sui treni merce, cosa che oggi è solo un ricordo. L’insieme che ne viene fuori, per chi non è esperto di logistica ferroviaria è alquanto confuso, come se mancasse un progetto unitario e che si tratti di un non univocamente determinato accostamento e, perciò, affastellamento di corpi di fabbrica, di binari compresi i loro scambi, di pensiline, quella addossata al corpo principale (ma non al fronte principale, bensì, è ovvio, sul retro), la stazione ferroviaria vera e propria, e quella collocata sopra la piattaforma a isola, la forma di quelle banchine in cui i treni possono sostare su entrambi i lati (i binari 2 e 3); il tutto in un dominio ampio delimitato nel senso della lunghezza ai due capi da portali metallici che sorreggono i semafori (la paletta del capo stazione di un tempo), una specie di porte di accesso alla stazione per i treni.
Ad avvalorare l’opinione che non sia frutto di una stringente programmazione l’assetto raggiunto dal parco ferroviario vi è la considerazione che esso è frutto anche di modifiche intercorse nei suoi quasi 150 anni di vita, le quali hanno riguardato lo stesso edifico-stazione che non è quello originario; gli ultimi interventi realizzati sono stati la palazzina con le residenze delle famiglie dei ferrovieri, i due scavalcamenti del fascio dei binari, l’uno interrato, il sottopasso, e l’altro aereo, il sovrappasso, il parcheggio a pagamento e la sistemazione del piazzale su piazza Cuoco che lo ingloba.
La stazione dell’altro capoluogo di Provincia è più grande, grandezza dovuta al fatto che qui avveniva il cambio delle locomotrici le quali occorreva che fossero più potenti per affrontare le tratte montane che conducono a Sulmona e alla “capitale” del Molise, rispetto a quelle con minore dislivello che da Roma e da Napoli portano al centro pentro; con la modernizzazione dei mezzi di locomozione tale operazione non è stata più necessaria e, quindi, una porzione del parco ferroviario è diventata inutilizzata. Sul terreno dismesso, previa bonifica del sito, si sta procedendo alla creazione di un’oasi a verde, cosa che potrebbe avvenire pure a Campobasso; si ritiene per ciò che si è detto sopra, che ci siano margini di manovra, razionalizzando il layout della stazione, il suo schema distributivo il quale, comunque, andrebbe aggiornato se non fosse altro perché oramai datato.
La parcella sgombra risultante potrebbe trasformarsi in un giardino pubblico, tanto più strategico in quanto, come a Isernia, esso è nel baricentro dell’agglomerato abitativo. Inoltre, tramite un breve collegamento pedonale da allestire, o, magari, sfruttando la passerella sopraelevata esistente esso potrebbe essere ricongiunto alla vallecola dello Scarafone che il PRG indica come Zona urbanistica destinata al tempo libero. In definitiva, si avrebbe la trasmutazione da parco ferroviario a parco urbano, con uno slogan.
L’elettrificazione della linea che porterà alla dismissione dei treni con motore diesel che sono inquinanti e rumorosi e ciò garantirà la salubrità dell’aria in quest’area. Si sta parlando di ferrovia, la quale, ad ogni modo, rientra in un tema più generale, quello del sistema dei trasporti, sia su ferro che su gomma. Non del tutto casualmente nelle vicinanze della stazione c’è il Terminal degli autobus il quale è connesso alla viabilità urbana e extraurbana da una serie di svincoli, fino a configurarsi una sorta di rondò: si è venuto a costituire, lo si ripete non del tutto casualmente, un polo intermodale con il traffico ferroviario, quello delle autolinee e quello automobilistico che interagiscono fra loro.
È un buona combinazione quella del treno impiegato per le lunghe percorrenze, con quello dei pullman, destinato ai tragitti interni al territorio regionale, e con quello delle auto private che sono, volente o nolente, un comparto notevole della mobilità. Ciò, è scontato, ad esclusione della Metropolitana Leggera, tutta un’altra storia. Il Terminal non lo si è introdotto nel discorso in corso solamente per questo, ma anche quale “pietra di paragone” con lo scalo ferroviario, in quanto è dalla comparazione che emergono le peculiarità.
La stazione dei bus, chiamiamola così in assimilazione a quella di treni, è un’opera di impianto, come si dice in gergo architettonico, figlia di un disegno progettuale definito, a differenza dell’altra che, nella sua conformazione attuale, è il frutto di numerose aggiunte, assai più che di sottrazioni. In comune hanno la caratteristica di essere essenzialmente dei vuoti, sì, anche il Terminal pure se coperto per intero, ma si tratta, la copertura, di una vasta tettoia, la quale non è altro che una vasta pensilina.
A dare la sensazione che siamo dentro una entità spaziale vuota è la distesa di pannelli traslucidi in policarbonato che si estende sopra di essa i quali hanno la capacità di togliere consistenza alla pur sempre volumetria, la quale quasi si dissolve alla luce. Lo scalo ferroviario attraverso la collaborazione che riceve dal Terminal incrementa la sua attrattività. Si ha l’impressione che non regga il confronto riguardo alla frequentazione da parte della cittadinanza (i viaggiatori, non chi va lì a bighellonare) con lo scalo isernino pur essendo, lo si ribadisce, entrambe un fulcro della struttura urbanistica.
Sarà perché qui l’edificio-stazione è allo stesso livello delle banchine di arresto e avvio dei treni, mentre a Campobasso l’ingresso all’edificio-stazione è ad una quota sfasata, superiore a quella dei binari e, pertanto, almeno psicologicamente, il fatto che si è costretti a scendere per salire in carrozza, secondo un’espressione antica, dissuade dall’uso del treno. E poi metti la trasparenza delle pareti della stazione di Isernia che sono (a pianoterra, di certo) interamente vetrate, dal lato della piazza e da quello del parco ferroviario, in ciò suggerendo l’osmosi, vista con gli occhi degli psicologi e degli architetti, tra lo spazio urbano e quello del seducente universo delle strade ferrate, una visione d’incanto.
Francesco Manfredi Selvaggi645 Posts
Nato a Boiano (CB) nel 1956. Ha conseguito la Maturità Classica a Campobasso e poi la laurea in Architettura a Napoli nel 1980. Presso la medesima Università ha conseguito il Diploma di Perfezionamento in Storia dell’Arte Medievale e Moderna e il Diploma di Perfezionamento in Restauro dei Monumenti. È abilitato all’esercizio della professione di Architetto e all’insegnamento di Storia dell’Arte nei licei e Educazione Tecnica nelle scuole medie. Dal 1997 è Dirigente, con l’attribuzione di responsabilità nei servizi Beni Ambientali (19 anni), Protezione Civile, Urbanistica, Sismica, Ambiente. Ha avuto un ruolo attivo in associazioni ambientaliste quali Legambiente Molise, Italia Nostra sezione di Campobasso e Club Alpino Italiano Delegazione del Molise. Ha insegnato all’Università della Terza Età del Molise ed è stato membro del Consiglio di Amministrazione della Fondazione dell’Ordine degli Architetti di Campobasso, occupandosi all’interno dello stesso del progetto di Archivio dell’Architettura Contemporanea. È Giornalista Pubblicista e autore di articoli, saggi e del volume La Formazione Urbanistica di Campobasso. Le ultime pubblicazioni sono: «Le Politiche Ambientali nel Molise» (2011) e «Problemi di tutela ambientale in Molise» del 2014.
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