La pancia dell’elettore muto

Una massiccia, corposa, poderosa massa di elettori che consapevolmente ha deciso di non partecipare al voto, dando un esplicito segnale non tanto di passività ma di attiva, per quanto ancora indecifrata, pretesa di contrattazione. Gli astenuti questa volta parlano e pretendono precise contropartite. Sia da coloro che avevano l’aspettativa di rappresentarne la volontà sia da quelli contro cui è indirizzato il non voto

di MICHELE MEZZA da ytali.com

Forse proprio il professor Giorgio Parisi, appena insignito del premio Nobel per la Fisica – insieme ai suoi colleghi Syukuro Manabe e Klaus Hasselmann – in particolare per il suo contributo alla scoperta dell’interazione tra disordine e fluttuazione nei sistemi fisici, ci potrebbe decifrare il senso del voto di questa tornata amministrativa. Tutto si gioca esattamente nella comprensione della relazione fra disordine sociale e fluttuazione politica.

Intanto l’astensione.

Una massiccia, corposa, poderosa massa di elettori che consapevolmente ha deciso di non partecipare al voto, dando un esplicito segnale non tanto di passività ma di attiva, per quanto ancora indecifrata, pretesa di contrattazione.

Gli astenuti questa volta parlano e pretendono precise contropartite. Sia da coloro che avevano l’aspettativa di rappresentarne la volontà sia da quelli contro cui è indirizzato il non voto.

A Roma, Napoli, Torino e persino a Bologna e Milano l’identità dell’astensione è esplicita: aree periferiche, dove s’intrecciano ceto medio deluso e minacciato con settori marginali assistiti, che si congiungono in un’ostilità nei confronti dello stato, persino quando vuole proteggere, come nel caso della pandemia. Più della metà delle grandi metropoli italiane è ormai caratterizzata da questa piattaforma socioeconomica che si sgrana solo quando trova tutori e sindacalisti, come nel caso del 4 marzo del 2018, con l’adesione alle liste dei 5S e della Lega.

L’unico antidoto alla diserzione del voto sono i richiami tribali, o meglio famigliari, dove clientelismo e aspettative suppliscono all’assenza di partecipazione. Nei più di mille comuni minori dove si è votato è indicativo come la presenza ai seggi sia stata proporzionale al numero e al carattere delle liste locali, che mischiavano destra e sinistra su base puramente opportunistica.

Al centro della scena la mancanza di un motore che sia in grado di dare motivazione e senso a una presenza o ambizione politica.

Il fallimento del governo giallo-verde e lo sfrangiamento del fronte sovranista, che saldava evasione fiscale e reddito di cittadinanza largo, rivolta contro queste forze, il rancore antielitario. I grillini si vedono ritirare la delega e cominciano a sprofondare nella marginalità. I sovranisti prima cambiano di spalla al fucile, con l’alternanza fra Salvini e Meloni. Poi si trovano a non poter interpretare liberamente il loro istinto pujadista per vincoli interni: il freno di Forza italia e l’indisponibilità della vecchia Lega Nord di Giorgetti a seguire la pista estremista del proprio leader nazionale.

Qui iniziano le fluttuazioni del professor Parisi: come si combinano interessi e istinti in un quadro che vede il governo Draghi disporre delle risorse senza mediarne l’utilizzo con la base dei partiti che lo sostengono?

La lezione romana è sempre la più esplicita.

Mentre a Napoli e Milano una società civica, opposta nei valori e negli interessi che rappresenta, capeggiata dal sindaco uscente Sala nel capoluogo lombardo e dal presidente della regione De Luca in quello campano, bilancia la spinta populista e astensionista con un’offerta politica che attiva e federa segmenti territoriali, nella capitale la fragilità delle macchine politiche esaspera il mutismo negoziale delle periferie.

Idati ci dicono che la pancia della città, le enormi aree a cavallo del raccordo anulare che si saldano con i quartieri di ceto medio prostrato e deluso, hanno dosato con sapienza il non voto a localizzati patti territoriali dove si realizzano voti di scambio espliciti. La Raggi ha mutato volto alla base dei 5S, sostituendo la spinta antielitaria con una massiccia partecipazione alla macchina comunale di interessi diffusi, non sempre trasparenti: i voti raccolti nelle borgate e nelle aree di diretta gestione del circuito più oscuro di poteri locali, dai quartieri residenziali esterni alla cintura nord della città, fino alle tipiche comunità auto-assistite di Tor Bella Monica o della Casilina, dove il sindaco uscente arriva al 27 per cento dei consensi, parla da solo. Nelle stesse zone si registra il pieno del candidato della destra Michetti, che raccorda i canali della crescente influenza della Meloni con le aspettative della città di mezzo si sarebbe detto ai tempi di Alemanno.

Ma il tratto che vogliamo in questa sede far affiorare riguarda l’affinità fra questi blocchi: il voto muto organizzato, che congela esplicitamente una massa di consensi nell’astensionismo, le incursioni che da questo blocco si sono realizzate nel mercato politico del voto di scambio individuale, e l’inerzia di una spinta antistatalista e pubblica che la pandemia ha aizzato. Sono tre componenti che guidano la fluttuazione nel sistema complesso della città e che potrebbero ratificare una nuova maggioranza antielitaria. L’obbiettivo di questa piattaforma sociale non è tanto prolungare la testimonianza sovranista quanto aprire nuove forme di negoziato sulle risorse direttamente con il governo, scavalcando la mediazione dei partiti che sostengono Draghi, il Pd di Gualtieri in testa.

In questa chiave è vero che Draghi è stato il vero convitato di pietra delle elezioni. Rispetto alla sua azione che separa, strutturalmente, le decisioni dalla partecipazione, l’astensionismo diventa una bandiera di un fronte attivo ed esplicito che rivendica forme inedite di contrattazione sociale. Le vittime, in questo eventuale patto fra assistiti e assistente, sarebbero proprio i partiti, o meglio quel centro illuminato che si illude che la moderazione sia tornata a essere una lingua e non solo un linguaggio.

Lo sbriciolamento delle basi di consenso dei 5S parla da solo. Ormai la forza parlamentare più forte si trova spiantata in tutti i suoi insediamenti territoriali, lasciando il Pd con la sensazione di aver accumulato una potenza che rimane isolata. Esattamente come accadde a Occhetto nel ‘93, prima della sonora sconfitta del ‘94 a opera del debutante Berlusconi.

Non è così a Napoli, dove De Luca usa la sua diretta rappresentanza di ogni istanza corporativa e ambientale per costruire un solido sindacato del territori nei confronti di un esecutivo visto lontano e sordo. Non è così a Milano dove il blocco professionale e tecnocratico di Sala, che compatta nella radicalità dell’astensione il pulviscolo dei produttori precari e dei marinali in cerca di tutori e dei segmenti più competitivi globalizzati. Non lo sarà a Roma dove il ballottaggio diventerà una vetrina spettacolare delle micro-contrattazioni tribali, dove paradossalmente avrà più spazio chi è meno attiguo a un governo con cui si vorrà innestare un conflitto e non una collaborazione.

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