«Il grembo paterno», il nuovo romanzo di Chiara Gamberale
Avevamo già osservato, nelle recensioni alle opere precedenti, come il percorso artistico di Chiara Gamberale andasse verso obiettivi molto più alti di quelli solitamente perseguiti dalla narrativa italiana. Sentivamo che la scrittrice lavorava con ostinazione e passione per la messa a punto di una scrittura sempre più efficace a cogliere i cambiamenti vertiginosamente accelerati della società contemporanea; e che cercava di evidenziare contenuti sempre più netti, nitidi, con un enorme lavoro di ricerca nel campo della complessità dei fenomeni umani, una complessità pericolosa e che, ora, – possiamo affermarlo dopo la lettura de «Il grembo del padre» – non spaventa più l’autrice.
La poetica di Chiara Gamberale sembra poter essere definita, con il suo stesso linguaggio, immaginando la continuazione di uno dei suoi dialoghi più incalzanti e nervosi: “Guarda che è tutto un gioco. / Ok, ok, lo so anch’io. / Allora giochiamo! / Se giochiamo, però, dobbiamo farlo seriamente. / Che significa? / Che non si può utilizzare l’ipocrisia, la falsità, la menzogna. / Tutta verità? / Sì! / Ok. Allora giochiamo!” – La letteratura è, dunque, un gioco che va fatto seriamente altrimenti tutto sarebbe stupido e superfluo.
Anche nei romanzi precedenti, Chiara Gamberale non ha mai nascosto la sua anima. Né il suo corpo. I suoi pensieri, tutti i suoi pensieri, sono offerti al lettore. E non certo per una inutile esposizione della propria intimità. La scrittrice lo ha sempre fatto, e lo fa, perché ciò è necessario se si vuole essere precisi e scientifici (la scientificità che è data alla letteratura, certo) nel riportare quanto accade e quanto è accaduto nelle nostre vite nel periodo che va dagli anni Novanta fino ad oggi.
«Il grembo paterno» è il punto di arrivo di tutto il lavoro fatto nei romanzi precedenti. Due generazioni vengono osservate con scrupolo – scrupolo nel senso di attenzione e delicatezza insieme -, senza infingimenti, senza addolcire le medicine amare da ingoiare. E ciò per rilevare che tutto l’amore che non viene dato, a se stessi e agli altri, ai genitori e ai figli, per incapacità, per imbarazzo, per rabbia inconsapevole… tutto l’amore non dato provoca una ulteriore mancanza di amore, provoca dolore e disastri.
Lo spazio in cui si muovono i personaggi è uno spazio della fantasia costruito su luoghi reali. La protagonista, Adele, si muove tra il presente vissuto a Roma e l’infanzia trascorsa in Paese, un paese chiamato proprio così, con la lettera maiuscola, che forse indica il Meridione che ognuno di noi si porta dentro ma che i molisani faticheranno a non identificare con ciò che conoscono e che vivono quotidianamente.
Questi luoghi, così sorprendentemente ritrovati nel Dna della scrittrice, insieme ai suoni di una lingua che sembra tanto famigliare, diventano lo spazio in cui si dispiega il rapporto tra figlia e padre che è il centro del romanzo di cui si parla. Nel caso del personaggio, stupisce la capacità di trovare forza nella consapevolezza conquistata, “giorno dopo giorno dopo giorno” con i denti. Nel caso dell’autrice, stupisce la capacità di tornare alle origini, di approfondire la conoscenza del padre con l’attenzione al mondo da cui il genitore proviene che, anche se visitato frequentemente, può essere colto solo in superficie perché non esiste più.
La gratificazione che può dare il sorriso di un padre… L’ossessione della ricerca del sorriso del padre… Le attenzioni non date ai figli… Persino il rimandare il sedersi accanto a loro… “- Ma’, mettiti qui commè. / – Ade’, non lo vedi che ci ho da fa’. / – Che devi fa’? / – Il sugo. Le polpette. Sennò che ci mangiamo stasera? / Ma’, sono solo le quattro. /”
E immaginare un dialogo del genere quarant’anni dopo: “- Ma’, ti siedi con me? / – Aspetta un attimo… / – Dai, vieni! / – Aspetta, sto mandando una mail… /”
Nulla cambia nel passaggio da una generazione all’altra. Gli adulti scelgono quasi sempre le vie meno faticose e trovano un equilibrio confortante tra ciò che fanno e ciò che dovrebbero fare per i figli. Fanno di sicuro qualcosa: ma quasi sempre è ciò che scelgono loro e non ciò che i figli chiedono e di cui hanno bisogno.
Nel “grembo del padre” di Chiara Gamberale ci sono tantissime cose che dovrebbero e non possono (tutte) essere riportate qui. Per ogni diverticolo immaginato, all’interno di quel grembo ancora così poco conosciuto, c’è uno spunto di riflessione importante. Per esempio: «Beate loro. Sai che ti dico, Nicola? Beate loro, beate le figlie di quelli come te. Perché tanto chi se ne frega dell’amore, fa solo venire ancora più fame a chi già ce l’ha, l’amore».
Ma i temi sono davvero tanti. Quante generazioni dovranno passare per eliminare la sofferenza provocata dalla miseria? Perché proteggiamo le negatività e le persone negative mentre trascuriamo la bellezza e le persone belle? Perché «siamo più bravi ad aver fame che a mangiare?»…
I personaggi sono osservati e mai giudicati. Gli errori non sono mai provocati da un comportamento doloso, ma sono quasi sempre la conseguenza della fragilità, della pigrizia, della mancanza dell’energia necessaria per affrontare un cambiamento importante: la donna che rovina la famiglia, la dottoressa che porta in tv le adolescenti, Nicola distratto dal telefono e dagli impegni da cui non riesce a liberarsi… il lettore non riesce a condannarli ma li riconosce nella coincidenza della loro figura con quella delle persone conosciute o nella propria.
Forse gli errori sono altri. A volte, più che la violenza o un abuso, fa molto più danno, nella costruzione di una personalità in crescita, il rumore del cibo quando viene distribuito nei piatti, nel silenzio e nel vuoto che c’è intorno alla tavola di una famiglia riunita per il pranzo (“La mamma fa male anche quando ti intinge la fetta di pane nel sugo”, Ivan Graziani in una chiacchierata del 1989).
Chissà quanti di noi hanno la voglia e il desiderio, la forza e l’energia, i mezzi e gli strumenti per tornare indietro e salvare la propria adolescenza; chissà quanti sentono il bisogno di lavorare sulla propria adolescenza per farne un’adolescenza felice. Chiara Gamberale l’ha fatto e ci dice che possiamo farlo anche noi; trasformando, con l’umanità e non con la bacchetta magica, le colpe in fragilità, il ferro in oro, utilizzando un’alchimia, nuova ed efficace, fatta di osservazione, verità, consapevolezza: «Si guarisce passo dopo passo dopo passo, quando apri la porta della casa dove sei nato e vai».
Giovanni Petta76 Posts
È nato nel 1965 in Molise. Ha pubblicato le raccolte poetiche «Sguardi» (1987), «Millennio a venire» (1998) e «A» (2016); i romanzi «Acqua» (2017), «Cinque» (2017) e «Terra» (2021) ; il saggio giornalistico «L'Italia delle regioni, il Molise dei ricorsi» (2001) e, con lo pseudonimo di Rossano Turzo, «TurzoTen« (2011) e «TurzoTime» (2016). Allievo di Mogol, ha inciso «Non crescere mai» (1993), «Trema terra trema cuore» (single, 2003), «Il bivio di Sessano» (2012). Ha diretto le testate «Piazzaregione» e «L'interruttore». Ha coordinato l'inserto molisano de «Il Tempo».
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