Chiostro ombelico del convento ombelico del territorio
di Francesco Manfredi-Selvaggi
Il cortile dei monasteri può essere pavimentato o trattato a giardino, può essere grande o piccolo, può essere porticato o non, ma è sempre ben riconoscibile tanto da avere un nome specifico, chiostro che lo distingue dal resto delle corti.
Il chiostro, luogo racchiuso, ha, dal punto di vista figurativo, quale opposto il deserto, luogo aperto per antonomasia. Gli opposti come ben si sa si attraggono e lo dimostra proprio la localizzazione preferenziale da parte dei monasteri, al cui interno c’è sempre il chiostro, in ambiti, metaforicamente parlando, desertici. A dimostrazione di quanto detto si portano gli esempi degli insediamenti conventuali di Canneto sul Trigno e di S. Vincenzo al Volturno ambedue in ambito fluviale il quale è soggetto alla divagazione delle acque e dal quale, pertanto, l’uomo si è sempre ritratto; in questo senso rappresentano fasce semidesertiche.
I monaci scelgono di andare a vivere proprio lì per un duplice ordine di ragioni: la prima è che sentono come compito precipuo quello di mettere a coltura lande che all’indomani della caduta dell’impero romano erano in abbandono, la seconda è che l’assenza di presenza umana (se si è assenti non si è presenti, è tautologico) garantisce la mancanza di disturbo nella contemplazione del Mistero divino. L’onnipresente chiostro è il rifugio ultimo per il raccoglimento. Il silenzio che lo contraddistingue favorisce la meditazione.
La realtà esterna neanche la si percepisce stando al suo interno e pure la luce che vi penetra è differente da quella che illumina lo spazio extramurario, specie nel portico che è in penombra. Il chiostro è presente anche nelle realtà monastiche urbane e qui ha una pregnanza ancora più forte perché il pericolo di contaminazione con la vita mondana è ancora più forte e standovi dentro si avverte maggiormente il suo richiamo alla vita extraterrena, specie se è concepito a mò di giardino per il rimando immediato al Giardino Terrestre, all’Eden.
Nel chiostro, così come nell’unità conventuale si può entrare solo in punta di piedi ispirando esso un rispetto reverenziale che invita a lasciare fuori le ambasce della quotidianità e le distrazioni. Per quanto riguarda il giardino si citano i chiostri di due conventi francescani, l’uno “in” Agnone e l’altro a Limosano, antica sede di Diocesi, entrambi “cittadini”. Le abbazie sono grandi e poche e non piccole e tante, in ogni caso non avrebbero mai coperto l’intero territorio molisano e la loro distribuzione in seno ai confini regionali sarebbe sempre rimasta random, o a macchia di leopardo e ciò per ottenere una massa critica in grado di trasformare, riconducendoli all’uso agricolo, comprensori ostili, l’opera di bonifica ricordata all’inizio.
È evidente che se l’edificio è ampio pure il suo cortile, o chiostro nel caso di un convento, è ampio, è una regola delle tipologie architettoniche a corte. Tanto maggiore è l’ampiezza di un monastero tanto superiore è la sua visibilità nel paesaggio (solo da vedute dall’alto è possibile scorgere il chiostro), tanto più che i contesti in cui gli episodi (si ricorderà la questione del random) conventuali sono situati, almeno all’epoca in cui apparvero, sono tendenzialmente inabitati; il segno che per primo si percepisce è il campanile, un elemento che come il chiostro denuncia con sicurezza la funzione conventuale del manufatto.
Non sembrerebbe e però torre campanaria e chiostro devono essere compresenti per identificare in modo univoco quella costruzione quale monastero. Rimaniamo, comunque, al chiostro per aggiungere che esso non è un’idea del tutto nuova del monachesimo perché riprende la soluzione tipologica adottata dalla domus romana e diverse iniziative monastiche, si rimanda a quelle già nominate di Canneto e di S. Vincenzo al Volturno, si sovrappongono a ville di età tardo imperiale le quali promossero l’economia curtense, perlappunto da corte; ciò che ci interessa ora delle domus è che esse, lo si vede ad Altilia pure nella soluzione più elaborata del macellum con la sua macina in pietra oggetto di antiquariato nel punto nodale, hanno l’estradosso del loro volume privo di bucature con i vani che sono tenuti ad affacciarsi nello spazio centrale che i romani chiamavano impluvium e i frati chiostro.
Così faranno i castelli che nella versione primitiva erano poco più che un castrum, i castelli-recinto che hanno origine proprio nel Molise le cui murazioni cintano un piazzale scoperto recetto per la popolazione minacciata da eserciti nemici. Assomiglia ad una fortezza, posto com’è su un erto colle, il monastero di Montecassino e autenticamente lo è quello di S. Nicola alle Tremiti, gli esemplari di chiostri che fungono pure da postazione difensiva più prossimi a noi, un’altra lettura ammissibile della superficie vuota circondata sui quattro lati dai corpi, i pieni, del convento.
Per capire meglio la specificità del chiostro è bene vedere ciò che non è mettendolo in comparazione con i “buchi” delle fattorie agricole con le quali i conventi benedettini hanno in comune la finalità, non esclusiva per le “case” dei seguaci di S. Benedetto, di conduzione delle terre senza, però, ospitare nei chiostri gli animali, appunto, da cortile; il chiostro conventuale è, poi, diverso dai cortili di rappresentanza dei palazzi nobiliari e da quelli dei collegi per la formazione dei giovani in cui esso è il posto della ricreazione all’aperto.
L’insieme delle attività di un monastero converge sul chiostro, salvo la chiesa (ulteriore richiamo ai due S. Francesco di Agnone e Limosano cui ci piace aggiungere S. Nazario a Morrone del Sannio) la quale per accogliere oltre ai confratelli la comunità dei fedeli ha l’accesso dalla viabilità pubblica, rimanendo il chiostro inaccessibile; quando alla chiesa, immancabilmente chiesetta ovvero cappella si entra direttamente dal chiostro essa è evidente che è un servizio di culto per i frati e non ha, di conseguenza, una facciata autonoma volta verso l’ambiente circostante. Porre attenzione alle peculiarità di un chiostro, compresa la sua architettura, quindi se dotato di porticato o meno, è utile per ridefinirne la sua destinazione al momento, quello della dismissione il che è frequente, l’ultimo è quello di Cercemaggiore, da parte degli Ordini monastici di dover decidere l’uso appropriato dell’ex complesso conventuale.
Francesco Manfredi Selvaggi633 Posts
Nato a Boiano (CB) nel 1956. Ha conseguito la Maturità Classica a Campobasso e poi la laurea in Architettura a Napoli nel 1980. Presso la medesima Università ha conseguito il Diploma di Perfezionamento in Storia dell’Arte Medievale e Moderna e il Diploma di Perfezionamento in Restauro dei Monumenti. È abilitato all’esercizio della professione di Architetto e all’insegnamento di Storia dell’Arte nei licei e Educazione Tecnica nelle scuole medie. Dal 1997 è Dirigente, con l’attribuzione di responsabilità nei servizi Beni Ambientali (19 anni), Protezione Civile, Urbanistica, Sismica, Ambiente. Ha avuto un ruolo attivo in associazioni ambientaliste quali Legambiente Molise, Italia Nostra sezione di Campobasso e Club Alpino Italiano Delegazione del Molise. Ha insegnato all’Università della Terza Età del Molise ed è stato membro del Consiglio di Amministrazione della Fondazione dell’Ordine degli Architetti di Campobasso, occupandosi all’interno dello stesso del progetto di Archivio dell’Architettura Contemporanea. È Giornalista Pubblicista e autore di articoli, saggi e del volume La Formazione Urbanistica di Campobasso. Le ultime pubblicazioni sono: «Le Politiche Ambientali nel Molise» (2011) e «Problemi di tutela ambientale in Molise» del 2014.
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