In transumanza menu povero di carne

di Francesco Manfredi-Selvaggi

Dal punto di vista gastronomico essa ha poco appeal perché il cibo che consumavano i pastori era di tipo essenziale. Non si presta, pertanto, l’alimentazione dei transumanti quale richiamo turistico.

In fin dei conti è una distanza di dimensioni contenute quella che separa le montagne da cui prende avvio la transumanza dalle pianure nelle quali essa termina, alle volte meno di 200 chilometri; seppure la lunghezza delle percorrenze è, relativamente, breve le greggi nel loro spostamento dall’Abruzzo alla Puglia si imbattono in una pluralità di paesaggi. Il viaggio delle pecore prende avvio in un contesto montano connotato da distese forestali e da praterie d’altitudine e prosegue inoltrandosi nell’ambiente eminentemente collinare del Molise centrale, caratterizzato dall’agricoltura promiscua fino a concludersi nella piana del Tavoliere la quale all’epoca era utilizzata quasi solo per il pascolo (quello degli ovini transumanti).

In poco più di un mese, dunque in un breve lasso di tempo, il pastore viene a trovarsi in scenari paesaggistici differenti,  e di molto, l’uno dall’altro. Quando si parla di diversità delle situazioni ambientali non può non venire in mente che essa determina una varietà delle produzioni agricole da cui ne discende una diversificazione dell’offerta culinaria. Il conduttore di armenti nel passaggio da una zona all’altra nel suo cammino verso, alternativamente, l’origine e la meta della transumanza si imbatte in una pluralità di cucine nell’effettuare una sosta presso una taverna, che in genere è rurale, o in un’osteria, che è invece urbana, oppure se ospite in casa di conoscenti.

È una ricchezza, quella dei tanti tipi di piatti proposti, che deriva dalla spinta articolazione geografica di cui si è detto, ma anche dalla forte biodiversità di cui gode (godeva?) il territorio molisano dove vi è un notevole numero di specie vegetali. Concorre a rendere variegato il, così per dire, menu l’incredibile inventiva degli italiani, a qualunque latitudine, dietro i fornelli. Bisogna, poi, considerare i transumanti quali “portatori sani” di ricette nel senso che la descrizione che ne fanno di esperienze culinarie vissute in una tappa della loro “migrazione” o dei pasti dei paesi natii favorisce la contaminazione dei sapori alimentari tra le popolazioni dei comuni attraversati dal tracciato tratturale.

Le pietanze, inoltre, cambiano con il cambiamento del verso della transumanza che una volta va da nord a sud e la volta successiva in direzione opposta e ciò perché l’andata, quella da settentrione a meridione, avviene in primavera e il ritorno nella direttrice contraria, in autunno. Non si mangiano le stesse cose, gli ingredienti mutano a cominciare dai frutti di stagione a finire con la carne, si prenda gli agnelli che nascono nei primi mesi dell’anno e che devono essere macellati prima che diventino pecore le quali si possono consumare a pena di una lunga cottura, la tradizione della “pezzata” di Capracotta.

La carne, parliamo ora di questo tema incominciando con un aspetto paradossale della pastorizia la quale, nonostante che il suo focus sia l’allevamento degli animali, non prevede che nella dieta dei pastori sia compresa la carne, salvo i capi azzoppati incapaci di effettuare la transumanza e la “misischia”, la carne secca da portare al seguito. La carne ha nelle civiltà del passato un valore di mercato assai elevato e i “pecorai” sono poveri, non se la possono permettere pur possedendo il bestiame.

Per essi è esclusivamente merce di scambio con cui acquistare gli ortaggi e i cereali i quali ultimi sono l’elemento base dell’alimentazione delle classi popolari, riempiono la pancia, danno il senso di sazietà. È interessante notare che la fame è stato per secoli l’assillo principale della popolazione, in particolare dei ceti inferiori tra cui i transumanti; l’alimentazione ha un peso preponderante nei bilanci familiari (si ricordi che i pastori devono provvedere con i loro ricavi al sostentamento delle famigli lasciate nei centri di provenienza), occupa un posto di primo piano nella vita della gente comune il che fa si che debba occupare una posizione di notevole rilievo negli studi antropologici sulla società della transumanza, ben più, mettiamo della foggia degli abiti e della parlata.

La nutrizione, se sufficiente o meno, rispecchia le condizioni sociali, essere scarsamente nutriti significa inevitabilmente essere mal vestito o, se si vuole, male alloggiati, le capanne pastorali. Il mantenimento dell’iscrizione della transumanza nel Patrimonio Mondiale Immateriale dell’Unesco richiede fra l’altro che si diffonda nelle comunità interessate da questo fenomeno antico la conoscenza dei suoi caratteri peculiari tra i quali vi è il regime dietetico.

Le bestie quale “sottoprodotto” hanno il latte, necessario per lo svezzamento degli agnelli il cui surplus veniva trasformato in formaggio, il rinomato pecorino smerciato nelle piazze dei borghi a cavallo delle vie della transumanza. Il latte non veniva bevuto, non siamo ancora nell’era dei medici igienisti che alla fine del 1800, cent’anni dopo il termine della transumanza, propugnavano il consumo di latte: si riferivano a quello bovino e le vacche venivano allevate in Alta Italia, mentre nel Mezzogiorno la zootecnia era centrata sugli ovini.

Si è introdotta nel discorso la disciplina medica dell’Igiene, abbastanza recente come si è appena detto, anche se alcune sue nozioni erano ben conosciute dagli uomini primitivi tra le quali vi è quella dell’indispensabilità del sale per la salute umana, l’apporto di sodio. C’entra con la transumanza, almeno secondo l’illustre Soprintendente ai Monumenti di Abruzzo-Molise Valerio Cianfarani il quale ipotizzò che lo spostamento transumante avesse quale finalità primaria il trasporto del sale dalle marine pugliesi nell’entroterra, con un movimento all’incontrario, da giù a su quale traiettoria fondamentale e non il viceversa come siamo abituati ad immaginare. In definitiva, il cibo della transumanza non è una mera questione di gastronomia, bensì di sopravvivenza umana.

Francesco Manfredi Selvaggi645 Posts

Nato a Boiano (CB) nel 1956. Ha conseguito la Maturità Classica a Campobasso e poi la laurea in Architettura a Napoli nel 1980. Presso la medesima Università ha conseguito il Diploma di Perfezionamento in Storia dell’Arte Medievale e Moderna e il Diploma di Perfezionamento in Restauro dei Monumenti. È abilitato all’esercizio della professione di Architetto e all’insegnamento di Storia dell’Arte nei licei e Educazione Tecnica nelle scuole medie. Dal 1997 è Dirigente, con l’attribuzione di responsabilità nei servizi Beni Ambientali (19 anni), Protezione Civile, Urbanistica, Sismica, Ambiente. Ha avuto un ruolo attivo in associazioni ambientaliste quali Legambiente Molise, Italia Nostra sezione di Campobasso e Club Alpino Italiano Delegazione del Molise. Ha insegnato all’Università della Terza Età del Molise ed è stato membro del Consiglio di Amministrazione della Fondazione dell’Ordine degli Architetti di Campobasso, occupandosi all’interno dello stesso del progetto di Archivio dell’Architettura Contemporanea. È Giornalista Pubblicista e autore di articoli, saggi e del volume La Formazione Urbanistica di Campobasso. Le ultime pubblicazioni sono: «Le Politiche Ambientali nel Molise» (2011) e «Problemi di tutela ambientale in Molise» del 2014.

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