Il paesaggio a tavola
di Francesco Manfredi-Selvaggi
Nel desco familiare o in osteria le preparazioni della cucina locale sono a base di prodotti agricoli e di allevamento provenienti dal territorio rurale circostante. Ingredienti, dunque, delle ricette del posto vengano dal contesto paesaggistico e si riversano nei nostri piatti. È da un po’, purtroppo, che le cose stanno cambiando.
L’incipit lo fornisce il recente libro di Michele Tanno su una spaventosa carestia avvenuta nel XVIII secolo, una delle tante. Oggi è addirittura inconcepibile il problema della carenza di cibo che aveva attanagliato i nostri progenitori fino a non tante generazioni fa. Nonostante qui da noi non si sia mai registrato, (anzi!) un surplus della produzione agricola tale da spingere altrove negli anni 80 alla distruzione delle eccedenze alimentari, in specifico degli agrumi, sono rimasti dei segni visibili pure nel nostro agro delle politiche comunitarie tese a ridurre il sovrappiù delle coltivazioni, costituiti dai molti rimboschimenti finanziati con il programma del set-aside.
L’allontanamento del rischio della fame è, di sicuro, frutto di due grandi rivoluzioni (ce n’è una terza che introdurremo in seguito) avvenute in età contemporanea e contemporanee (replicando il termine per indicare oltre che il periodo temporale è il medesimo che è quello odierno) fra di loro le quali sono le innovazioni nella conservazione degli alimenti (per quanto riguarda la refrigerazione degli ortaggi c’è stata l’esperienza di un impianto tecnologicamente avanzato nelle Piane di Larino) e nei trasporti (nel Molise più quelli su gomma che su ferro) che ha portato alla dissociazione tra i luoghi di produzione delle derrate alimentari e quelli del loro consumo, non più l’economia tradizionale dell’autosufficienza.
Una fame atavica che è stato difficile debellare tanto che ancora negli ultimi decenni del 1900 i contadini di Codacchi, una diseredata e popolosa frazione di Trivento, si recavano a piedi, con un lungo cammino, chi a Lucito, chi a Civitacampomarano, chi a Castelbottaccio, chi a Lupara in occasione della festa di S. Giuseppe dove le famiglie del luogo offrivano loro il pranzo rituale fatto di 13 portate; qui si sfamavano e facevano rifornimento di pietanze, gli avanzi del pasto, utilizzando taniche di latta come contenitore, una nota di modernità, quella del boom economico che se aveva portato sviluppo nelle altre zone della nazione non aveva raggiunto le aree cosiddette interne che rimanevano arretrate.
Le immagini dei “codacchioli”, l’unico caso nella nostra regione in cui una borgata dà il nome ai suoi abitanti, colpirono molto il Maestro Pettinicchi il quale in diversi suoi dipinti ritrae la scena della povera gente che fa ritorno a casa dopo aver fatto provvista di cibo nei comuni vicini durante tale festività. Come se ci si fosse dimenticati del dramma della fame, o per rimuoverlo, si fa un gran parlare dei vini, esaltando le doti organolettiche dei vitigni autoctoni, mettiamo la Tintilia, senza nemmeno accennare alla loro funzione primaria svolta in passato di sostentamento energetico agli uomini impegnati nel duro lavoro nei campi.
Le numerose botti presenti nella cantina del castello di Torella non sono un segnale di opulenza, bensì il contrario, un segno di povertà, dovendosi far ricorso per l’apporto calorico che fornisce a qualche litro di vinello stante un regime dietetico assai scarso di sostanze nutrienti. Il riempire la pancia era un tempo, per le classi inferiori, l’obiettivo principale, l’evitare di sentire i morsi nello stomaco, non quello del gusto. Solo nei giorni festivi ci si concedeva piatti gustosi: proprio ciò, cioè la quotidianità e non più l’eccezionalità della cucina appetitosa è la misura della distanza che ci separa dai tempi andati.
La ragione è la terza, terza in quanto si affianca alle due citate prima (il trasporto e la conservazione del cibo), rivoluzione che si è avuta nel campo dell’agroalimentare che è l’industrializzazione delle colture. Essa ha portato ad una maggiore disponibilità, consentita peraltro dalla crescita del reddito della popolazione, di beni alimentari con i quali preparare mediante, ancora, le ricette della nonna i pranzi della domenica, tempo permettendo, tutti i giorni o quasi (tipo le braciole al sugo, i calamaretti ripieni, le lasagne al ragù).
I sapori culinari rimangono, ma cambia la provenienza degli ingredienti i quali generalmente vengono da campi, vicini o lontani, in cui si pratica l’agricoltura intensiva o, per quanto riguarda la carne, dalla zootecnia anch’essa intensiva. Ci sono, evidentemente, conseguenze sui quadri paesaggistici molisani perché, da un lato, il lato delle zone collinari, si riscontra una tendenza all’abbandono delle superfici agronomicamente svantaggiate, magari in quanto troppo acclivi e, dall’altro lato, il lato delle fasce pianeggianti, il merito va pure alla bonifica e all’irrigazione, con la costruzione della diga del Liscione, che portano alla trasformazione in terreni altamente produttivi di lande all’origine paludose.
Si può dire che, ormai, il paesaggio non lo si ritrova più in tavola, lì dove, siamo all’Episcopio di Trivento, i protagonisti di un romanzo di Lina Pietravalle sapevano riconoscere della frutta servita la contrada di provenienza. Del resto lo stesso paesaggio si è modificato come abbiamo visto poco fa ma vale la pena ripeterlo, non lo si può più metterlo nel desco; a seguito di tali modificazioni, in aggiunta, vi è stata una notevole perdita di biodiversità.
Una cosa sono i meleti, pescheti, ecc. che si incontrano sulla Bifernina nell’inoltrarsi nel Basso Molise e una cosa sono gli alberi da frutta che punteggiano la campagna del Molise Centrale caratterizzata dalla coltura promiscua la quale, a tratti, possiede elevati valori ecosistemici per la varietà di piante e di formazioni erbacee sempre rinnovate per la rotazione triennale delle colture che la compongono. Metti, poi, l’indirizzo monocolturale nel senso di un’unica specie di essenza arborea impiantata dei frutteti dell’agricoltura industriale con la diversificazione genetica degli esemplari di melo, pero, fico e così via, sparsi, non concentrati, tra le vigne e gli orti, spesso frutti antichi.
Un discorso analogo lo si può fare per l’allevamento: la rinomata ventricina di Montenero di Bisaccia o la squisita pampanella di S. Martino in Pensilis oppure la altrettanto buona soppressata altomolisana rimangono salumi di pregio nonostante che oramai si faccia ricorso a maiali allevati in serie, poiché si impiegano tuttora per la lavorazione delle carni le tecniche tipiche. Vi sono anche per questo comparto conseguenze negli insiemi percettivi a causa delle grosse dimensioni delle stalle, tanto quelle dei suini, quanto quelle dei bovini, quanto quelle dei polli.
Francesco Manfredi Selvaggi640 Posts
Nato a Boiano (CB) nel 1956. Ha conseguito la Maturità Classica a Campobasso e poi la laurea in Architettura a Napoli nel 1980. Presso la medesima Università ha conseguito il Diploma di Perfezionamento in Storia dell’Arte Medievale e Moderna e il Diploma di Perfezionamento in Restauro dei Monumenti. È abilitato all’esercizio della professione di Architetto e all’insegnamento di Storia dell’Arte nei licei e Educazione Tecnica nelle scuole medie. Dal 1997 è Dirigente, con l’attribuzione di responsabilità nei servizi Beni Ambientali (19 anni), Protezione Civile, Urbanistica, Sismica, Ambiente. Ha avuto un ruolo attivo in associazioni ambientaliste quali Legambiente Molise, Italia Nostra sezione di Campobasso e Club Alpino Italiano Delegazione del Molise. Ha insegnato all’Università della Terza Età del Molise ed è stato membro del Consiglio di Amministrazione della Fondazione dell’Ordine degli Architetti di Campobasso, occupandosi all’interno dello stesso del progetto di Archivio dell’Architettura Contemporanea. È Giornalista Pubblicista e autore di articoli, saggi e del volume La Formazione Urbanistica di Campobasso. Le ultime pubblicazioni sono: «Le Politiche Ambientali nel Molise» (2011) e «Problemi di tutela ambientale in Molise» del 2014.
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