Fermare le frane per fermare il consumo di suolo
di Francesco Manfredi-Selvaggi
I terreni in dissesto non sono disponibili per nessuna utilizzazione, è come se si fossero “consumati”. Di certo è l’urbanizzazione quella che incide maggiormente su questa preziosa risorsa costituita dal suolo (che, a volte, è anche spreco), ma in una regione a forte rischio idrogeologico anche i fenomeni franosi fanno la loro parte.
Il consumo di suolo lo provoca, la prima causa, l’urbanizzazione, ma a determinarlo può essere pure la franosità che rende inutilizzabile quel suolo sia ai fini costruttivi sia, perfino, ai fini agricoli. Nel caso degli abitati il cui sedime è soggetto a smottamenti abbiamo una duplice sottrazione di suolo, quello dove stava il nucleo abitativo poi franato e quello dell’appezzamento di terreni in cui viene ricostruito. Rimane unicamente l’impronta con qualche resto dell’aggregato edilizio che si è stati costretti ad abbandonare, un soprassuolo sterile; il sito in cui è stata dislocata la popolazione che aveva perso la casa, precedentemente coltivato o a pascolo si trasforma in particella edificatoria, una perdita per l’agricoltura.
Si sottolinea l’aspetto delle valenze agronomiche perché è uno dei termini chiave della questione consumo di suolo. I casi più eclatanti sono quelli di due frazioni popolose, Pagliarone e S. Stefano, rispettivamente di Vastogirardi e di Campobasso, portate via, portate giù, da una frana e ricostruite un po’ più in la. La prima addirittura cambia nome diventando Villa S. Michele, un villaggio ex-novo predisposto sulla base di un piano preciso con le casette per gli sfollati allineate in schiere regolari, il secondo, la gente che lo abitava, si trasferisce sul largo tracciato del tratturo che passa da quelle parti, adesso senza un disegno urbanistico dell’agglomerazione edilizia che si viene a formare (è da evidenziare che vi era un implicito assenso delle autorità all’occupazione del demanio tratturale, data l’emergenza abitativa, la quale, pertanto, non è abusiva come a Codacchi).
Siamo, per quanto riguarda le località citate, in territorio rurale e, però, i franamenti non hanno interessato solo borgate in quanto hanno riguardato anche borghi veri e propri, da Castellino sul Biferno a Monacilioni. Quest’ultimo centro è scomparso interamente tanto da venire, essendo a rudere, comunque non visitabile, ribattezzato la Pompei del Molise. in 3 delle 4 realtà elencate la comunità è voluta rimanere nei pressi, quella monacilionese proprio in contiguità dell’insediamento, dei resti, originario, senza, va notato, che si sia avuta la disgregazione dei suoi membri.
Nella quarta, Castellino, proprio dentro e vale la pena raccontare la vicenda: gli eupalini o castellinesi che dir si voglia non hanno accettato di muovere verso la sede municipale nuova, appunto Castellino Nuovo, avente i caratteri accattivanti di un quartiere razionalista, che costituisce un’Isola Amministrativa del predetto paese interna al perimetro comunale di un altro paese, Petrella Tifernina. Pertanto, la dislocazione proposta è abbastanza distante dal centro storico. È ora un villaggio-fantasma per cui si è avuto consumo di suolo inutilmente.
Essi sono restati caparbiamente in situ e, d’altro canto, trapiantarsi altrove avrebbe comportato, è da presumere, un allungamento delle percorrenze casa-lavoro, tra la residenza e il podere. Oggi con la tecnologia a disposizione, palificazioni, muri di sostegno in cemento armato, ecc. e con conoscenze scientifiche superiori in materia di idrogeologia, probabilmente i dissesti che hanno interessato quelle zone sarebbero stati “sanati”. La tecnica moderna, dunque, avrebbe permesso di contrastare il consumo di suolo, di questo danno ambientale, per così dire, stiamo parlando e non del patrimonio edilizio esistente, sempre un danno ambientale, la cui salvaguardia, è evidente, rimane l’obiettivo primario degli interventi di consolidamento.
Nel contempo, l’altra faccia della medaglia, il progresso tecnologico ha consentito di costruire fabbricati in areali non ottimali per l’edificazione come dimostra il fatto che tali unità spaziali ci erano pervenuti sgomberi da manufatti, cioè ha favorito il consumo di suolo. Oltre allo spreco di superfici agrarie l’urbanizzazione provoca, con la cementificazione, l’impermeabilizzazione del terreno e, di conseguenza, il mancato rimpinguamento delle falde idriche, un ulteriore danno ambientale. Invece di puntare al recupero delle volumetrie architettoniche che ci sono si continua a tirar su immobili, allargandosi così sempre più la crosta cementizia che blocca il deflusso delle acque meteoriche nel sottosuolo.
Il consumo di suolo dovrebbe essere consentito esclusivamente quando non vi sono alternative; una delle fattispecie che lo giustificano è la realizzazione delle attrezzature industriali, non c’è modo di riattare le architetture del passato per farne opifici, troppo diverse le tipologie distributive, le esigenze funzionali. Consumare il suolo in ambiti orograficamente complicati non sarebbe stato mica tanto facile se non ci fossero stati i mezzi d’opera contemporanei, le grandi betoniere per impastare il cemento delle strutture in calcestruzzo, i potenti scavatori odierni per livellare i pendii i quali sono onnipresenti nell’Alto e Medio Molise; l’operazione mirata a dotare le Zone Interne di Piani per gli Insediamenti Produttivi non sarebbe andata in porto.
Non sarebbero sorti moltissimi PIP (forse troppi), salvo quelli situati nelle piane fluviali; non avremmo avuto le aree attrezzate per l’industria S. Giovanni Paolo II di Agnone e Fresilia di Frosolone in cui i capannoni sono collocati su terrazzamenti artificiali. L’ingegneria delle costruzioni di oggigiorno si è rivelata provvidenziale per favorire l’ ”atterraggio” in fasce territoriali, pure morfologicamente, svantaggiate di imprese di natura artigiana piuttosto che di stabilimenti per attività manifatturiere. Facendo un po’ la morale si può affermare che il consumo di suolo dipende da fattori naturali, come la frana, e da fattori antropici, come l’edilizia, e che a volte le due determinanti, la natura e l’uomo, si rivelano strettamente legate fra loro, è il caso dei villaggi distrutti da fenomeni franosi e ricostruiti, si usa dire, fuori sito; dal canto loro le aggiornate tecnologie ingegneristiche sono in grado, da un lato, di arrestare il consumo di suolo provocato dal dissesto idrogeologico, ma, dall’atro lato, di produrne di ulteriore permettendo di edificare ovunque, anche su terreni impervi.
Francesco Manfredi Selvaggi645 Posts
Nato a Boiano (CB) nel 1956. Ha conseguito la Maturità Classica a Campobasso e poi la laurea in Architettura a Napoli nel 1980. Presso la medesima Università ha conseguito il Diploma di Perfezionamento in Storia dell’Arte Medievale e Moderna e il Diploma di Perfezionamento in Restauro dei Monumenti. È abilitato all’esercizio della professione di Architetto e all’insegnamento di Storia dell’Arte nei licei e Educazione Tecnica nelle scuole medie. Dal 1997 è Dirigente, con l’attribuzione di responsabilità nei servizi Beni Ambientali (19 anni), Protezione Civile, Urbanistica, Sismica, Ambiente. Ha avuto un ruolo attivo in associazioni ambientaliste quali Legambiente Molise, Italia Nostra sezione di Campobasso e Club Alpino Italiano Delegazione del Molise. Ha insegnato all’Università della Terza Età del Molise ed è stato membro del Consiglio di Amministrazione della Fondazione dell’Ordine degli Architetti di Campobasso, occupandosi all’interno dello stesso del progetto di Archivio dell’Architettura Contemporanea. È Giornalista Pubblicista e autore di articoli, saggi e del volume La Formazione Urbanistica di Campobasso. Le ultime pubblicazioni sono: «Le Politiche Ambientali nel Molise» (2011) e «Problemi di tutela ambientale in Molise» del 2014.
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